posso "introdurmi"?
posso "introdurmi"?
Volentieri!
puoi spiegarmi un po?
Cosa?Originariamente inviata da Che
com'è la solfa qui
Io avevo aperto questo topic prefigurandolo come un raccolta di riflessioni, tra le quali anche le nostre (e infatti quella di "Marco Machiorletti" appartiene al sottoscritto)... poi - non per causa mia - è diventato un mattatoio...Originariamente inviata da Che
La prossima volta mi spiegherò meglio, do troppe cose per scontate...
ok :-) ma...scusa la critica che poi critica non è...riflessioni su cosa? io ho capito la tua idea ma devi dare degli argomenti
Originariamente inviata da Che
sui grandi temi basta leggerne qualcuna per farsi un'idea
ok..per me un grande tema può essere il socialismo e l'uomo a cuba ma per darkness no...per lui un grande tema può essere la pizza per me no...come vedi, nel secondo caso, vado per assurdo
Sulla base delle nostre conoscenze sulle capacità intellettive e sulla consapevolezza in genere dei primati superiori, possiamo ritenere che essi possano verosimilmente raggiungere una consapevolezza generica della morte sulla base delle proprie esperienze. Ma nulla più. Si tratterebbe, in ogni caso, della consapevolezza di una morte altrui, e qui sta il limite, e la diversità, con la nostra specie. Solo nella nostra specie (di norma in individui di età superiore ai sei-sette anni, secondo i dati della psicologia dello sviluppo) sorge l’apparentemente semplice ragionamento: se tutti prima o poi muoiono, ciò significa che anch’io dovrò morire. Ragionamento semplice e insieme terribile, considerato che, con la raggiunta autoconsapevolezza, questo sé viene ad assumere un’importanza incommensurabile. Il senso biologico della vita, se un senso c’è, consiste nel mantenimento della vita stessa, e tale mantenimento viene ottenuto con un continuo ricambio, sostituzione, evoluzione, degli individui. L’individuo, ogni individuo, non è che un limitato segmento di una lunghissima trama che si muove e si evolve nello spazio e nel tempo. Va tutto bene finché non si raggiunge la consapevolezza, soprattutto quella del sé. È a questo punto che diviene inevitabile il conflitto tra il valore della sopravvivenza della specie e quello della sopravvivenza dell’individuo. L’individuo, infatti, col procedere dell’evoluzione, acquisisce una sua complessità, una sua storia, una sua sapienza, una sua affettività. Ogni individuo è, in definitiva, unico, al di là di ogni diversità genotipica e fenotipica, proprio per la sua unicità esperienziale. E l’individuo umano, che nella sua storia e nelle sue esperienze identifica il sé, è pienamente consapevole del valore di questo sé. Valore immenso, che nella consapevolezza raggiunta di gran lunga travalica, nell’ottica individuale, quello della sua funzione di segmento nella trama della vita. È facile dedurre come la raggiunta consapevolezza della propria morte possa rappresentare un incubo, un nemico da sconfiggere, da cancellare con ogni mezzo. Qualcosa di ben diverso dal generalizzato istinto di sopravvivenza che ogni animale possiede. Questo è il bel regalo che ci hanno fatto la consapevolezza del sé sommata con la capacità di ragionare. Non credo di dire niente di nuovo affermando che è stata proprio la paura della morte a stimolare la produzione di ogni tipo di fantasia che faccia sperare in una vita oltre la morte. Non ci vuole molto a supporlo, se si ragiona laicamente, e infatti in molti l’hanno supposto.
(Danilo Mainardi – “L’animale irrazionale”, Mondadori)
Quando gli uomini si vedono diversi da quello che sono davvero, quando immaginano di trovarsi in una condizione diversa da quella reale, evitano sì il tragico, ma sorvolano su ciò che realmente sono. Io non disprezzo i credenti, non li trovo né ridicoli né penosi, ma temo che preferiscano rassicuranti finzioni infantili alle crudeli certezze degli adulti. Meglio le rassicurazioni della fede che le inquietudini della ragione – anche al prezzo di un eterno infantilismo mentale: ecco un gioco di prestigio metafisico a un prezzo mostruoso! Perciò avverto quello che sempre sale dal più profondo di me stesso quando mi trovo davanti a un evidente caso di alienazione: compassione per le vittime dell’inganno, ma insieme una collera violenta contro coloro che continuamente le ingannano. Non l’odio per chi si inginocchia, ma la certezza di non scendere mai a patti con coloro che li spingono in questa posizione umiliante e ve li tengono. Chi potrebbe disprezzare le vittime? Ma come non combattere i carnefici? La miseria spirituale genera la rinuncia a sé; essa è all’origine delle miserie sessuali, mentali, politiche, intellettuali e quant’altro. È strano come lo spettacolo dell’alienazione del prossimo faccia sorridere colui che non si accorge della propria. Il cristiano che non mangia pesce di venerdì sorride al musulmano che non mangia carne di maiale, il quale a sua volta si burla dell’ebreo che non mangia crostacei. L’ebreo fondamentalista che dondola davanti al Muro del Pianto guarda con stupore il cristiano genuflesso su un inginocchiatoio, mentre il musulmano stende il tappeto in direzione della Mecca. Tuttavia nessuno conclude che la pagliuzza nell’occhio del vicino è identica alla trave nel proprio. E che sarebbe meglio estendere lo spirito critico, così pertinente e sempre benvenuto quando si tratta degli altri, anche alla propria condotta. La credulità degli uomini supera l’immaginazione. Il loro desiderio di non vedere ciò che è evidente, il bisogno di uno spettacolo più divertente, anche se dipende dalla più assoluta delle finzioni, la loro volontà di accecamento non conoscono limiti. Meglio favole, finzioni, miti, storie per bambini, che assistere alla scoperta della realtà e riconoscere l’evidente tragicità del mondo. Per scongiurare la morte l’homo sapiens la congeda. Per evitare di dover risolvere il problema, lo cancella. Dover morire riguarda solo i mortali: il credente, lui, ingenuo e sciocco, sa di essere immortale, che sopravviverà all’ecatombe planetaria.
(Michel Onfray – “Trattato di ateologia”, Fazi Editore)
Guardando alla storia del mondo, la disponibilità al dialogo fra le persone di diversa fede non è mai stata spiccata. Esaminando un millennio di storia sia del Medio Oriente sia dell’Europa, non si può certo concludere che le tre grandi religioni monoteiste abbiano contribuito alla convivenza fra i popoli. Anche volendo dimenticare le crociate e le stragi che precedettero l’idea laica di tolleranza e per venire ai fatti più recenti, qualsiasi persona sensata si è chiesta se la guerra civile che per decenni ha insanguinato l’Irlanda non si sarebbe ricomposta assai prima, e con meno morti, qualora non si fossero mobilitati gli apparati dogmatici e intimidatori di due religioni contrapposte; e se per caso gli ebrei e gli arabi non avrebbero già trovato il modo per accordarsi qualora non fossero stati ricattati precisamente dagli individui più religiosi, e cioè da chi nell’uno e nell’altro campo è convinto di fare soltanto la volontà di Dio.
(Giovanni Jervis – “Contro il relativismo”, Laterza)