Questo è un apposito angolo consacrato al pensiero, il nostro, quello dei filosofi, degli scienziati, degli psicologi, e così via...
Questo è un apposito angolo consacrato al pensiero, il nostro, quello dei filosofi, degli scienziati, degli psicologi, e così via...
psicologi? ok
penso ke la memoria involontaria sia una grande bastardata del cervello
ma non ho capito di cosa bisogna discutere qua dentro..
Possiamo affermare che esiste una cultura europea? Così come possiamo affermare che ne esiste una islamica condivisa da tutti i fedeli di Allah? La questione sembra ricalcare quella relativa alla razza: se ci limitiamo a uno sguardo superficiale, possiamo facilmente giungere alla conclusione che l’umanità è divisa in gruppi somaticamente affini. Se proviamo ad acuire lo sguardo ci accorgiamo che, anche all’interno di ogni gruppo, esistono variazioni somatiche notevoli e quegli elementi che ci apparivano comuni lo erano solo se visti da lontano. Guardiamoci intorno: tra noi bianchi, italiani o padani, ci sono biondi, bruni, ricci, alti, bassi, con occhi azzurri o neri, pelle chiara, bruna e via dicendo. Se poi il nostro occhio si trasformasse in quello di uno scienziato che penetra i meandri della genetica, allora avremmo un’ulteriore conferma di come le differenze genetiche tra popolazioni diverse, anche vicine, sono insignificanti rispetto alle distanze genetiche che comunque si riscontrano tra gli individui della stessa popolazione. Tali da consentire ai genetisti di affermare oggi con sicurezza che una razza è costituita da un gruppo di individui che si possono riconoscere come biologicamente diversi dagli altri.
Sebbene i genetisti del periodo nazista si siano impegnati nella ricerca della razza pura, oggi, per fortuna, sappiamo che è stato uno sforzo vano. Altrettanto vano sarebbe cercare di individuare una purezza originale nelle culture, che sono somma e sottrazione di tutti gli elementi che le hanno attraversate nel tempo. Se questo accade è solo perché ci fermiamo allo sguardo superficiale che ci porta ad affermare che alcuni di noi sono simili, e pertanto sono esponenti di una cultura specifica e diversa da quella degli altri. Quali «noi» e quali «altri» dipende da scelte più o meno arbitrarie, perché, come scrive Francesco Remotti, «l’identità è un fatto di decisioni».
(Marco Aime – “Eccessi di culture”, Einaudi)
La propria dignità si misura anche nella capacità di trascendere i bisogni non necessari, inseguiti dai più senza sapere davvero il perché, o ignorando le mille strade della vita che si possono percorrere.
Non diamoci limiti che possiamo più fecondamente travalicare. Il materialismo radicale che propugno, paradossalmente permette di rilevare nell’uomo un nugolo di possibilità che nemmeno contempliamo, perché immersi da capo a piedi in una tra le tante configurazioni della realtà. Una configurazione che potremmo agilmente scardinare e rimpiazzare con altre.
(Marco Machiorletti)
Va ribadito che il mondo ateo è effettivamente (e purtroppo) segnato, in larga parte, da atteggiamenti che sono perlopiù “contro” la religione piuttosto che “per” ciò che l’ateismo offre in termini di visione del mondo, che si coniuga con quella libertà metafisica che di esso è presupposto fondamentale. In altre parole, è maggioritario, oggi come ieri, un ateismo che si qualifica per quello che nega piuttosto che per quello che propone, ovvero un ateismo di “protesta” piuttosto che “di proposta”. Noi pensiamo, al contrario, che un ateismo razionale e consapevole dovrebbe “storicizzare” la religione piuttosto che combatterla e per alcuni versi persino accoglierne certe risposte antropologiche, analizzandole alla luce della ragione e della storia della specie homo sapiens nelle sue origini e nei suoi sviluppi.
Tra due estremi abbastanza ben definiti (un ateismo realizzato nella condotta della vita in termini di inconsapevolezza concettuale ed un altro che sia il frutto di una riflessione teorica) emerge una domanda di carattere pragmatico ed etico che potrebbe essere così enunciata: “E’ possibile non soltanto fare a meno di Dio sul piano della coscienza individuale, ma anche su quello generale, promuovendo nel consorzio umano dei valori alternativi alla religione che realizzino meglio una qualche forma di eudemonismo largamente diffuso ed eticamente ineccepibile?”. Ovvero: “E’ possibile costruire una società senza Dio e nello stesso tempo assolutamente libertaria, la quale pur facendo a meno dei “valori morali” fissati dalla fede religiosa, abbia almeno le stesse o maggiori chances di costruire una società giusta e volta al maggior bene dei cittadini?”. Si tratta di una domanda più o meno formulata esplicitamente che ha caratterizzato il dibattito tra gli atei in ogni tempo e che però “oggi” è più difficilmente ponibile dopo le disastrose esperienze dell’ “ateismo di stato”, sia durante la rivoluzione francese e sia durante i cosiddetti “socialismi reali” del XX secolo. Da un punto di vista storico questa possibilità sembrerebbe infatti clamorosamente smentita, ma bisogna tuttavia domandarsi se ciò non sia avvenuto perché proprio quei regimi che hanno imposto l’ateismo erano a loro volta delle religioni (culto della Dea Ragione o culto del “proletariato”) o perlomeno delle pseudo-religioni, nel loro ricorso costante alla violenza ideologica (e per alcuni versi con pretese “salvifiche” non molto dissimili alla soteriologia cristiana stessa che si intendeva combattere). L’ateismo autentico, in quanto assertore di libertà metafisica (che sta alla base d’ogni altra libertà umana) ha un senso soltanto ed esclusivamente se è in grado di condurre sul piano sociale all’affermazione e alla diffusione della libertà in ogni suo aspetto e ad ogni livello.
(Carlo Tamagnone – “Ateismo filosofico nel mondo antico”, Clinamen)
Ma è poi vero che la competizione è l’unica legge possibile per sopravvivere in questa comunità? Le persone competitive sono anche le più serene e felici? E la scuola deve per forza assecondare queste richieste da parte di una componente della nostra società per trasformare tutti i bambini in amministratori delegati? O potrebbe tentare di essere anche un luogo mite capace di insegnare a sopravvivere anche a quei bimbi che non vogliono diventare gladiatori ma persone sensibili?
(Paolo Crepet – “Non siamo capaci di ascoltarli”, Einaudi)
La storia di ogni società è stata finora la storia di lotte di classe. Uomo libero e schiavo, patrizio e plebeo, barone e servo della gleba, membro di una corporazione e artigiano, in breve oppressore e oppresso si sono sempre reciprocamente contrapposti, hanno combattuto una battaglia ininterrotta, aperta o nascosta, una battaglia che si è ogni volta conclusa con una trasformazione rivoluzionaria dell'intera società o con il comune tramonto delle classi in conflitto. Nelle precedenti epoche storiche noi troviamo dovunque una suddivisione completa della società in diversi ceti e una multiforme strutturazione delle posizioni sociali. Nell'antica Roma abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo, feudatari, vassalli, membri delle corporazioni, artigiani, servi della gleba, e ancora, in ciascuna di queste classi, ulteriori specifiche classificazioni. La moderna società borghese, sorta dal tramonto della società feudale, non ha superato le contrapposizioni di classe. Ha solo creato nuove classi al posto delle vecchie, ha prodotto nuove condizioni dello sfruttamento, nuove forme della lotta fra le classi.
(Marx e Engels – "Manifesto del Partito Comunista", BUR)
Può sembrare strano, ma evolutivamente è stata proprio l’elevata razionalità a innescare, con la paura della propria morte, la necessità dell’irrazionale. Penso che questo almeno, sia il cuore del sistema, anche se la tendenza a credere (e di conseguenza ubbidire) senza pretendere verifiche verosimilmente era comparsa molto prima, nella nostra e in altre specie sociali, quando si rese necessario coordinare e sincronizzare attività collettive, come la primitiva caccia umana.
(Danilo Mainardi – “L’Animale irrazionale”, Mondadori)
In luogo del gran numero di regole di cui si compone la logica, ritenni che mi sarebbero bastate le quattro seguenti, purché prendessi la ferma e costante decisione di non mancare neppure una volta di osservarle. La prima regola era di non accettare mai nulla per vero, senza conoscerlo evidentemente come tale: cioè di evitare scrupolosamente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi niente più di quanto si fosse presentato alla mia ragione tanto chiaramente e distintamente da non lasciarmi nessuna occasione di dubitarne. La seconda, di dividere ogni problema preso in esame in tante parti quanto fosse possibile e richiesto per risolverlo più agevolmente. La terza, di condurre ordinatamente i miei pensieri cominciando dalle cose più semplici e più facili a conoscersi, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza delle più complesse; supponendo altresì un ordine tra quelle che non si precedono naturalmente l'un l'altra. E l'ultima, di fare in tutti i casi enumerazioni tanto perfette e rassegne tanto complete, da essere sicuro di non omettere nulla.
(Cartesio – “Discorso sul metodo”, Bompiani)
In una società istruita e scientificamente avanzata come quella attuale, è difficile conservare il rispetto verso ciò che è puramente tradizionale, a meno di non voler ricorrere a uno stretto controllo sull’educazione teso a distruggere la capacità di pensiero autonomo.
(Bertrand Russell – “Un’etica per la politica”, Laterza)
Le possibilità odierne di progresso sociale sono di gran lunga superiori alle speranze di tutti i filosofi e gli statisti che nel corso della storia hanno espresso in programmi utopistici la concezione di una società veramente umana; eppure pesa su tutti un senso di paura e di delusione, e oggi le speranze dell’umanità sembrano più lontane dall’attuarsi di quanto non lo fossero nelle età assai più oscure in cui furono formulate per la prima volta. Nel momento stesso in cui le conoscenze tecniche allargano l’orizzonte del pensiero e dell’azione degli uomini, diminuiscono invece l’autonomia dell’uomo come individuo, la sua capacità di difendersi dall’apparato sempre più potente e complesso della propaganda di massa, la forza della sua immaginazione, la sua indipendenza di giudizio.
(Max Horkheimer – “Eclisse della ragione”, Einaudi)
Bisogna stare attenti alla filosofia. Genera inquietudine, ti costringe a stare in piedi mentre tanti preferiscono vivere in ginocchio. Eppure aiuta a crescere, a prendersi cura di sé, a coltivare il proprio io senza futile egoismo.
(Giulio Giorello)
Per realizzare davvero i diritti di libertà predicati dal liberalismo bisogna non lasciare che le cose vadano “secondo i propri princìpi” (c’è un inaccettabile “naturalismo” di Adam Smith!), per esempio le leggi del mercato; ma occorre costruire condizioni di uguaglianza che, appunto, “naturalmente” non sono date.
(Gianni Vattimo – “Nichilismo ed emancipazione”, Garzanti)
È evidente a chiunque, credo, che è proprio questo aggressivo totalitarismo democratico, di cui è vessillifero il più potente e armato Stato del mondo, col suo codazzo di alleati, convinti o coatti, di potentati economici, di mezzi di comunicazione, di intellettuali, a costituire la vera “minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale” e alla libertà dei popoli. Peraltro la cosa non è nuova. Il colonialismo, che si è affermato appieno, e in modo sistematico, nella seconda metà dell’Ottocento, si è svolto, per la massima parte, sotto le bandiere della democrazia.
(Massimo Fini – “Sudditi”, Marsilio)
Ho trovato molto interessante e profonda questa frase:
-Le possibilità odierne di progresso sociale sono di gran lunga superiori alle speranze di tutti i filosofi e gli statisti che nel corso della storia hanno espresso in programmi utopistici la concezione di una società veramente umana; eppure pesa su tutti un senso di paura e di delusione, e oggi le speranze dell’umanità sembrano più lontane dall’attuarsi di quanto non lo fossero nelle età assai più oscure in cui furono formulate per la prima volta. Nel momento stesso in cui le conoscenze tecniche allargano l’orizzonte del pensiero e dell’azione degli uomini, diminuiscono invece l’autonomia dell’uomo come individuo, la sua capacità di difendersi dall’apparato sempre più potente e complesso della propaganda di massa, la forza della sua immaginazione, la sua indipendenza di giudizio.-
L’identità, quell’insieme di riti e di mitologie idolatrato dai gestori della routine, archiviato dai burocrati essenzialisti e omaggiato a suon di cannonate dai padri della patria, è quanto di più culturalmente antieuropeo si possa immaginare. L’autentica cultura non è l’identità che consacra gregari i nostri simili, bensì proprio quell’annullamento dell’identità che ci permette di metterli in discussione, di smentirli e, soprattutto, di mischiarli con ciò che viene da fuori, con ciò che ci assomiglia, ma mai completamente. Cultura è curiosità per ciò che è diverso, non celebrazione maniacale di ciò che è proprio; è quello che offriamo agli altri e ciò che negli altri cerchiamo, non la semplice ripetizione di ciò che abbiamo decretato indissolubilmente nostro. Nessuno definisce colto colui che conosce la propria lingua, ma colui che è capace di parlarne o di leggerne diverse; né colui che sa tutto del suo quartiere, bensì chi si interessa di metterlo in contatto con l’universo mondo. Il vero elemento differenziale, nel campo della cultura, è quello che distingue i cercatori dell’universalità dai santificatori dell’individualità.
(Fernando Savater – “Brevissime teorie”, Laterza)
I regimi democratici sorgono e si radicano come concreta alternativa al reciproco sterminio, affidandosi a quel volubile campione di relativismo politico che è il «popolo sovrano», diviso in fazioni e gruppi di interesse che, per coesistere e non riaprire le ferite recenti, devono sottostare a un tabù, spesso tacitamente accettato: lasciare pubblicamente da parte il conflitto sui valori ultimi e concentrarsi sulle “questioni penultime”. In privato ciascuno può scegliersi i valori etici, politici e religiosi che preferisce o in cui fermamente crede, ma non deve pretendere di imporli agli altri con la violenza, l’appoggio o la complicità dello Stato. Imponendogli la sordina dell’esperienza privata, l’assolutismo delle fedi religiose viene quasi bandito dalla sfera pubblica. Occorre però non scambiare gli effetti con le cause: non è la democrazia moderna a produrre il pluralismo e l’individualismo. Sono piuttosto il pluralismo di poteri virtualmente conflittuali e la crescita del senso di autonomia di molti individui a rendere necessaria la democrazia come quadro di reciproca compatibilità (questa sì un valore assoluto e non relativo).
(Remo Bodei – “L’etica dei laici”, ne “Le ragioni dei laici”, A.A.V.V., Laterza)
In estrema sintesi: come singoli siamo animali – con caratteristiche tutt’affatto peculiari, ma sempre animali – prodotto di un’evoluzione biologica millenaria fondamentalmente cieca e opportunista; mentre il collettivo umano, e con lui l’individuo che vi appartiene, mostra un carattere storico ed è figlio di una continuità culturale, longitudinale e trasversale, che non ha l’eguale in nessun altro tipo di realtà. Di quest’ultima nostra particolarità andiamo giustamente molto fieri, ma non è conveniente né proficuo ignorare i vincoli e le condizioni che ci limitano come singoli.
(Edoardo Boncinelli – “Necessità e contingenza della natura umana”, ne Micromega n°4/2005)
Nel corso della storia gli esseri umani hanno coltivato il senso di appartenenza a una comunità ristretta. Hanno sempre saputo, quasi per istinto, chi sta fuori e chi sta dentro. Chi si trova oltre il confine è meno umano di chi ne è all’interno. Implacabile, l’unità di misura dell’identità si è allargata dalla famiglia al branco, al clan, alla tribù, alla nazione. In ogni caso, il conflitto tra gruppi più piccoli si è composto solo per dar inizio a una battaglia comune contro un’altra federazione nuova. Il nostro senso di appartenenza ha fatto sì che fosse facile manipolarci. Nella Prima guerra mondiale qualche decina di aristocratici mandò a morire otto milioni di uomini in nome dell’indipendenza nazionale. Gli interessi degli eserciti che si fronteggiavano erano identici. Invece di combattersi, i soldati di quegli eserciti avrebbero tratto più giovamento dalla destituzione dei generali e dall’annientamento della classe che aveva dato avvio alla guerra, ma l’identità nazionale ebbe la meglio sull’interesse di classe.
(George Monbiot – “L’era del consenso”, Longanesi)
Lo sradicamento delle popolazioni del Terzo Mondo produce il fenomeno, inevitabile, delle migrazioni bibliche. Privati della loro storia, delle loro tradizioni, della loro economia, della loro socialità, di quel tessuto di solidarietà, familiare, clanica, tribale, che era il loro modo di sopravvivenza e che il modello industriale ha lacerato irrimediabilmente, ridotti a vivere in desolate periferie dell’Impero e con i suoi materiali di risulta, questi uomini e queste donne cercano di raggiungerne il centro. Ma i paesi industrializzati si oppongono ferocemente a questa immigrazione quando non sia funzionale ai loro interessi, quando gli immigrati non vengano a sostituire gli autoctoni in lavori che questi non vogliono più fare. La concezione occidentale della globalizzazione è questa: libera circolazione dei capitali e delle merci ma non degli uomini. Cioè il capitale può andare a cercare la propria collocazione geografica là dove è meglio remunerato, gli uomini, che spesso proprio da quel capitale sono stati resi dei miserabili, no, non avrebbero questo diritto.
(Massimo Fini – “Il vizio oscuro dell’Occidente”, Marsilio)
Anime di fango che apprezzate soltanto l’oro, io non voglio intaccare i vostri tesori, per impura che ne sia la fonte!…
Certo non era necessaria una rivoluzione per insegnare all’universo che l’estrema disparità delle fortune è l’origine di molti mali e di molti crimini, ma noi non siamo meno convinti che l’eguaglianza dei beni è una chimera. Per quanto mi riguarda, la credo ancor meno necessaria al benessere privato che alla felicità pubblica. Si tratta di rendere la povertà onorevole piuttosto che di proscrivere l’opulenza…
(Robespierre, ne “Le teorie della proprietà da Lutero a Babeuf”, a cura di Giuliano Gliozzi, Loescher)
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Consideriamo inoltre una gran cosa l'indipendenza dai bisogni non perché sempre ci si debba accontentare del poco, ma per godere anche di questo poco se ci capita di non avere molto, convinti come siamo che l'abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa dipendiamo. In fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l'inutile è difficile. I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati, l'acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca. Saper vivere di poco non solo porta salute e ci fa privi d'apprensione verso i bisogni della vita ma anche, quando ad intervalli ci capita di menare un'esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e indifferenti verso gli scherzi della sorte. Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l'animo a essere sereno. Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire un ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l'animo causa di immensa sofferenza.
(Epicuro – “Epistola a Meneceo”)
Non possiamo mai essere certi che l’opinione che stiamo cercando di soffocare sia falsa; e anche se lo fossimo, soffocarla resterebbe un male. In primo luogo, l’opinione che si cerca di sopprimere d’autorità può forse essere vera. Naturalmente, coloro che desiderano sopprimerla ne negheranno la verità: ma non sono infallibili. Non hanno alcuna autorità di decidere la questione per tutta l’umanità, togliendo a chiunque altro la possibilità di giudizio. Rifiutarsi di ascoltare un’opinione perché si è certi che è falsa significa presupporre che la propria certezza coincida con la certezza assoluta. Ogni soppressione della discussione è una presunzione di infallibilità.
(John Stuart Mill, ne “Filosofia della scienza”, A.A.V.V., Raffaello Cortina)
C’è qualcosa di paradossale nel fatto che alcuni uomini di cultura abbiano da sempre rivendicato una sorta di competenza specialistica su un’attività tra le più inflazionate e alla portata di chiunque: il lamento, il disaccordo e l’opposizione nei confronti della realtà in cui si vive; abbinati al sospetto o alla certezza di sapere che le cose potrebbero andare diversamente, meglio. E per ottime ragioni. Come se vi fosse bisogno di un esperto del rifiuto verso il mondo così com’è. Come se mettere a punto una teoria che critica la società coronasse l’autentica missione del dotto.
(Enrico Donaggio, ne “La Scuola di Francoforte”, a cura di Enrico Donaggio, Einaudi)
Se tra le grandi religioni monoteistiche il cristianesimo è stato quello che più e meglio ha conservato e arricchito la sua dinamicità e se l’Occidente euro-americano ha prodotto il pensiero, la cultura e le istituzioni liberali e democratiche, l’elemento fondativo e il filo con il quale questo percorso è stato tessuto sta interamente in quella dialettica mai spenta tra lo Stato, le Chiese, gli individui. La compresenza degli Stati e delle Chiese ha consentito agli individui di essere attori sia all’interno delle Chiese sia all’interno degli Stati, impedendo alle prime di scivolare nella teocrazia e ai secondi di tracimare dall’assolutismo regio al totalitarismo, approdando infine alla democrazia repubblicana.
(Eugenio Scalfari, ne “Dibattito sul laicismo”, a cura di Eugenio Scalfari)
Checché ne dicano una teologia pessimistica o una filosofia atrabiliare, ogni uomo che sa godere, quand’anche non trovi una felicità completa in questo mondo, può se non altro conoscervi una ridda di piaceri minuti, fatti per rendere un’esistenza felice o per trovare in ogni momento una proficua distrazione dalle sue pene.
(Paul Heinrich Dietrich d’Holbach – “Sistema sociale”)
L’enfasi sempre maggiore posta sulle culture e sulle loro presunte radici conduce a una crescente attenzione verso il locale e i localismi. Accade poi che alcuni localismi, impugnati da èlite dotate di sufficiente potere, vengano gonfiati di aspirazioni globali: le regioni vogliono diventare stati, i dialetti lingue e così via. Tutto questo in nome dei cosiddetti popoli o culture locali che rivendicano autonomia nei confronti degli stati-nazione. Alcuni sostengono che una lingua altro non è che un dialetto che ha fatto fortuna, altri, come Noam Chomsky, affermano che «una lingua è un dialetto con un passaporto e un esercito». Che cosa sono esercito e passaporto se non i segni evidenti di uno stato-nazione, con il suo monopolio della forza e il suo controllo sui confini e sugli individui? Esattamente quanto molti localisti (sinceri) vorrebbero rifuggire, ma che, spinti da élite, meno spontanee con velleità di potere e capacità di strumentalizzazione, vorrebbero creare. Ecco come nascono molti «conflitti culturali» che sembrano caratterizzare la nostra epoca e che sotto la patina della cultura celano spesso ben altre spinte, ben altri interessi.
(Marco Aime – “Eccessi di culture”, Einaudi)
La democrazia liberale rinuncia a priori all’uguaglianza sostanziale, ma è ferma come un macigno sull’uguaglianza formale di tutti i cittadini davanti alla legge. Basterebbe la famosa frase del liberale Giolitti, «le leggi ai nemici si applicano, per gli amici si interpretano», per smontare questa favoletta.
(Massimo Fini – “Sudditi”, Marsilio)
Come la spieghi questa, e come la concilii con il tuo laicismo assoluto?
Se tra le grandi religioni monoteistiche il cristianesimo è stato quello che più e meglio ha conservato e arricchito la sua dinamicità e se l’Occidente euro-americano ha prodotto il pensiero, la cultura e le istituzioni liberali e democratiche, l’elemento fondativo e il filo con il quale questo percorso è stato tessuto sta interamente in quella dialettica mai spenta tra lo Stato, le Chiese, gli individui. La compresenza degli Stati e delle Chiese ha consentito agli individui di essere attori sia all’interno delle Chiese sia all’interno degli Stati, impedendo alle prime di scivolare nella teocrazia e ai secondi di tracimare dall’assolutismo regio al totalitarismo, approdando infine alla democrazia repubblicana.
(Eugenio Scalfari, ne “Dibattito sul laicismo”, a cura di Eugenio Scalfari)
Innanzitutto puntualizzo che sto inserendo e inserirò anche riflessioni che non condivido appieno, dopodiché veniamo ai tuoi dubbi.Originariamente inviata da darkness_creature
Scalfari è laicista, anche lui sostiene che Chiesa e Stato debbano essere nettamente separati, ma non incomunicanti.
Dal rapporto dialettico tra le due sfere, a suo avviso è possibile trarre benefici per entrambe.
Io qua invece dissento. La Chiesa, che condannò la modernità, ne uscì sconfitta e con il Concilio Vaticano II vennero apportati cambiamenti in termini di apertura, che per alcuni versi continuano ancora oggi. Proprio lo scontro con la modernità fu fatale per allentare le bende dei dogmi che tenevano legate ben strette.
In altri termini, se la Chiesa è andata via via adottanto una linea cautamente aperturista questo lo si deve al rapporto dialettico instaurato con lo Stato (e questo rapporto non fu sempre rose e fiori, specialmente prima del Concordato del 1929) e i suoi cittadini, che abbracciavano il nuovo con relativa convinzione.
L'apertura non nasce da un progresso interno ma da una sconfitta
Scalfari ha moderato i toni per opportunismo.
Ti sei salvato in calcio d'angolo
Ho capito cosa vuoi dire, cmq
"L’identità, quell’insieme di riti e di mitologie idolatrato dai gestori della routine, archiviato dai burocrati essenzialisti e omaggiato a suon di cannonate dai padri della patria, è quanto di più culturalmente antieuropeo si possa immaginare. L’autentica cultura non è l’identità che consacra gregari i nostri simili, bensì proprio quell’annullamento dell’identità che ci permette di metterli in discussione, di smentirli e, soprattutto, di mischiarli con ciò che viene da fuori, con ciò che ci assomiglia, ma mai completamente. Cultura è curiosità per ciò che è diverso, non celebrazione maniacale di ciò che è proprio; è quello che offriamo agli altri e ciò che negli altri cerchiamo, non la semplice ripetizione di ciò che abbiamo decretato indissolubilmente nostro. Nessuno definisce colto colui che conosce la propria lingua, ma colui che è capace di parlarne o di leggerne diverse; né colui che sa tutto del suo quartiere, bensì chi si interessa di metterlo in contatto con l’universo mondo. Il vero elemento differenziale, nel campo della cultura, è quello che distingue i cercatori dell’universalità dai santificatori dell’individualità.
(Fernando Savater – “Brevissime teorie”, Laterza)"
Io con questa teoria non sono d'accordo, ma più che altro perchè secondo lui avere e rivendicare un'identità significa rifiutare i contatti con l'esterno e la conoscenza di culture diverse, e ciò non è assolutamente vero. Prima di relazionarti col mondo esterno devi sapere chi sei tu.