Ma senza esasperare le cose...è questo che Savater condannaOriginariamente inviata da darkness_creature
Ora sono a 4 cartelle nel mio computer, voglio arrivare a 50 entro settembre... ce ne sarà da discutere
Ma senza esasperare le cose...è questo che Savater condannaOriginariamente inviata da darkness_creature
Ora sono a 4 cartelle nel mio computer, voglio arrivare a 50 entro settembre... ce ne sarà da discutere
Bisogna ringraziare la sincerità di quel principe che, vedendo indietreggiare le sue truppe che, in quel modo, mettevano in pericolo il suo regno o, almeno, la sua vittoria, le incoraggiava così: «Cani! Volete forse vivere in eterno?». In quella pretesa, sconveniente quanto plebea, vedeva una minaccia alla sua legittima aspirazione all’eternità.
(Fernando Savater – “Brevissime teorie”, Laterza)
Alle persone istruite di oggi risulta ovvio che i dati di fatto debbano essere accertati mediante l’osservazione e non ricorrendo ad antiche autorità. Questa, però, è una concezione del tutto moderna, che prima del XVII secolo non esisteva nemmeno. Aristotele sosteneva che le donne hanno meno denti degli uomini; pur essendosi sposato due volte, non gli venne mai in mente di verificare questa affermazione esaminando la bocca delle sue mogli. Diceva anche che i bambini saranno più sani se concepiti quando il vento soffia da Settentrione. Ne deduciamo che le due signore di Aristotele dovevano andare a guardare la banderuola segnavento tutte le sere prima di andare a letto. Afferma che un uomo che sia morso da un cane arrabbiato non impazzirà, mentre questo accadrà a qualsiasi altro animale; che il morso del toporagno è pericoloso per i cavalli, specialmente se il topo è gradivo, che gli elefanti che soffrono di insonnia possono essere guariti strofinandone le spalle con sale, olio di oliva e acqua calda, e via di questo passo. Con tutto ciò, i docenti universitari di materie classiche, che non hanno mai osservato un animale ad accezione del cane o del gatto, continuavano a lodare Aristotele per la sua fedeltà all’osservazione.
(Bertrand Russell – “L’impatto della scienza sulla società”, Newton & Compton Editori)
La grande innovazione e il grande fallimento del Manifesto è la teoria incredibilmente semplicistica nella quale ha cercato di inquadrare a forza la società. Il materialismo dialettico riduceva i complessi rapporti politici e sociali dell’umanità a un semplice conflitto tra la «borghesia» e il «proletariato»; vale a dire i detentori della proprietà privata e i lavoratori, termine con cui Marx ed Engels intendevano indicare gli operai occupati presso le grandi aziende capitaliste. Le classi che non si conformano a tale dialettica, come i contadini, i piccoli negozianti, gli artigiani e gli aristocratici, «decadono e periscono con la grande industria», oppure, nel caso dei disoccupati, vanno considerati «la putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società», senza legittimità di esistenza in un mondo postrivoluzionario. Sfortunatamente per coloro che sono vissuti sotto i regimi comunisti, la società non funzionava come aveva indicato Marx. I contadini, gli aristocratici, gli artigiani e i piccoli negozianti non scomparvero spontaneamente; come chiunque altro non facesse parte del proletariato industriale, dovettero essere eliminati, perché interferivano col sistema teorico che Marx aveva imposto alla società. Marx, che li descrisse come «reazionari» che tentano «di far girare all’indietro la ruota della storia», forse avrebbe approvato il loro sterminio. Della «putrefazione passiva» del lumpenproletariat, che arrivò a includere i popoli indigeni, bisognava sbarazzarsi altrettanto in fretta, perché, come aveva messo in guardia Marx, esso «sarà piuttosto disposto a farsi comprare e mettere al servizio di mene reazionarie». Dato che la teoria era così tragicamente lontana dal conformarsi alla società, la società andava rimodellata in modo che si conformasse alla teoria. E Marx fornì la scusa perfetta allo sterminio più spietato. Personificando l’oppressione nella «borghesia» fornì la giustificazione a innumerevoli atrocità. La semplicità, sia della storia sia dell’obiettivo, è affascinante e seducente. Ancora oggi è difficile leggere il Manifesto del partito comunista senza aver voglia di andare a sparare a un rappresentante della borghesia, nella speranza di ottenere la libertà dall’oppressione.
(George Monbiot – “L’era del consenso”, Longanesi)
La questione dell’identità (nazionale, culturale, ecc.) ha un ruolo centrale nel dibattito sull’immigrazione. A questo proposito, si impongono di primo acchito due osservazioni. La prima consiste nell’osservare che, se si parla molto dell’identità della popolazione d’accoglienza, si parla in generale molto meno di quella degli immigrati stessi, che sembra tuttavia, e di gran lunga, la più minacciata dal fatto stesso dell’immigrazione. In quanto minoranza, gli immigrati subiscono infatti direttamente la pressione dei modi di vita della maggioranza. Votata alla cancellazione, o al contrario esacerbata in modo provocatorio, la loro identità il più delle volte non sopravvive che in maniera negativa (o reattiva) in ragione dell’ostilità dell’ambiente d’accoglienza, o addirittura del supersfruttamento capitalista che si esercita su lavoratori separati dalle loro naturali strutture di difesa e protezione. Si è d’altra parte colpiti nel vedere come la problematica dell’identità sia posta, in certi ambienti, solo in correlazione con l’immigrazione. Ciò vuol dire non tenere conto dei fattori che, ovunque nel mondo, nei paesi che contano una forte manodopera straniera come in quelli che non ne comportano alcuna, inducono una disgregazione delle identità collettive: primato del consumo, occidentalizzazione dei costumi, omogeneizzazione dell’assiomatica dell’interesse, ecc.
(Alain de Benoist – “Le sfide della postmodernità”, Arianna Editrice)
È difficile negare che esistano due modalità di conoscenza incompatibili a meno di non separarne drasticamente le competenze: una che si fonda sull’obbedienza a un’autorità, a un dogma di fede; un’altra che si fonda sul suo esatto opposto, sulla libertà, sul conflitto di ipotesi alternative, sulla condivisione universale della conoscenza e sulla sua continua rimessa in discussione, sulla negazione di qualsiasi autorità precostituita. Nella prima l’errore è eresia, nella seconda l’errore è esplorazione del possibile. La scienza ha qualcosa in comune con la democrazia e la laicità dello stato: va continuamente difesa.
(Telmo Pievani – “Santi, navigatori, poeti: e oscurantisti”, ne Micromega n°4/2005)
La grande innovazione e il grande fallimento del Manifesto è la teoria incredibilmente semplicistica nella quale ha cercato di inquadrare a forza la società. Il materialismo dialettico riduceva i complessi rapporti politici e sociali dell’umanità a un semplice conflitto tra la «borghesia» e il «proletariato»; vale a dire i detentori della proprietà privata e i lavoratori, termine con cui Marx ed Engels intendevano indicare gli operai occupati presso le grandi aziende capitaliste. Le classi che non si conformano a tale dialettica, come i contadini, i piccoli negozianti, gli artigiani e gli aristocratici, «decadono e periscono con la grande industria», oppure, nel caso dei disoccupati, vanno considerati «la putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società», senza legittimità di esistenza in un mondo postrivoluzionario. Sfortunatamente per coloro che sono vissuti sotto i regimi comunisti, la società non funzionava come aveva indicato Marx. I contadini, gli aristocratici, gli artigiani e i piccoli negozianti non scomparvero spontaneamente; come chiunque altro non facesse parte del proletariato industriale, dovettero essere eliminati, perché interferivano col sistema teorico che Marx aveva imposto alla società. Marx, che li descrisse come «reazionari» che tentano «di far girare all’indietro la ruota della storia», forse avrebbe approvato il loro sterminio. Della «putrefazione passiva» del lumpenproletariat, che arrivò a includere i popoli indigeni, bisognava sbarazzarsi altrettanto in fretta, perché, come aveva messo in guardia Marx, esso «sarà piuttosto disposto a farsi comprare e mettere al servizio di mene reazionarie». Dato che la teoria era così tragicamente lontana dal conformarsi alla società, la società andava rimodellata in modo che si conformasse alla teoria. E Marx fornì la scusa perfetta allo sterminio più spietato. Personificando l’oppressione nella «borghesia» fornì la giustificazione a innumerevoli atrocità. La semplicità, sia della storia sia dell’obiettivo, è affascinante e seducente. Ancora oggi è difficile leggere il Manifesto del partito comunista senza aver voglia di andare a sparare a un rappresentante della borghesia, nella speranza di ottenere la libertà dall’oppressione.
(George Monbiot – “L’era del consenso”, Longanesi)
Questa fa parte delle "riflessioni che non condividi appieno" o di quelle con cui sei completamente d'accordo?.......
"La questione dell’identità (nazionale, culturale, ecc.) ha un ruolo centrale nel dibattito sull’immigrazione. A questo proposito, si impongono di primo acchito due osservazioni. La prima consiste nell’osservare che, se si parla molto dell’identità della popolazione d’accoglienza, si parla in generale molto meno di quella degli immigrati stessi, che sembra tuttavia, e di gran lunga, la più minacciata dal fatto stesso dell’immigrazione. In quanto minoranza, gli immigrati subiscono infatti direttamente la pressione dei modi di vita della maggioranza. Votata alla cancellazione, o al contrario esacerbata in modo provocatorio, la loro identità il più delle volte non sopravvive che in maniera negativa (o reattiva) in ragione dell’ostilità dell’ambiente d’accoglienza, o addirittura del supersfruttamento capitalista che si esercita su lavoratori separati dalle loro naturali strutture di difesa e protezione. Si è d’altra parte colpiti nel vedere come la problematica dell’identità sia posta, in certi ambienti, solo in correlazione con l’immigrazione. Ciò vuol dire non tenere conto dei fattori che, ovunque nel mondo, nei paesi che contano una forte manodopera straniera come in quelli che non ne comportano alcuna, inducono una disgregazione delle identità collettive: primato del consumo, occidentalizzazione dei costumi, omogeneizzazione dell’assiomatica dell’interesse, ecc.
(Alain de Benoist – “Le sfide della postmodernità”, Arianna Editrice)"
E perchè, scusa, non vale anche al contrario? Se noi occidentali emigriamo in Paesi con culture diverse, non ci dobbiamo integrare? Perchè dipingere sempre e comunque gli Occidentali come imperialisti cattivi? Non l'ho mai digerita bene sta cosa...cos'è, noi siamo gli unici che, ma guarda un po' che fessi, vogliamo che gli immigrati non si isolino in comunità-stato, ma che si integrino nella nostra società?
Premetto innanzitutto che Monbiot è di sinistra.Originariamente inviata da darkness_creature
è una riflessione che condivido in parte. Se una teoria presenta lacune occorre rivisitarla o respingerla. Quella di Marx, attraverso un'attenta opera di rivisitazione, diversa di caso in caso, poteva andare incontro a miglior fortuna.
A mio avviso scagliarsi velenosamente contro Marx è scorretto, mentre trovo legittimo muovere critiche a coloro che a lui si sono richiamati distorcendo il suo pensiero e o prendendolo alla lettera.
Occorreva adattarlo di caso in caso.
Personalmente ritengo che Marx abbia partorito pensieri interessanti, ed è a questi che mi richiamo, non certo all'intero blocco della sua filosofia
Se un individuo è intollerante ti metti al suo livello? Sè è aggressivo idem? Se è ignorante scendi dalla tua posizione per battagliare con la sua ignoranza? Se qualcuno vuole a fare a pugni con te cerchi di dirimere la questione civilmente o ti metti al suo livello?Originariamente inviata da darkness_creature
Non capisco proprio questo bisogno di reciprocità a tutti i costi, che nei fatti si tramuta in un continuo livellamento verso il basso.
Preferisco comportarmi con rettitudine, dando il buon esempio, e senza pretendere nulla.
Condivido in toto il pensiero di De Benoist, che, ironia della sorte, è un pensatore di destra
Perchè, con la tolleranza che cosa stiamo ottenendo, se non di farcela mettere lì?....stiamo teorizzando regolarizzazioni di massa, chiusura dei cpt, i più estremisti auspicano l'apertura totale dei confini...ma cosa vi credete, che così ci guadagnamo il loro rispetto? Ingenui...l'unica cosa che ci guadagnamo è il fatto che potranno plagiarci più facilmente e farci adattare alle loro ideologie....si stanno semplicemente sfregando le mani perchè la facilità con cui si stanno espandendo supera le loro più rosee speranzeOriginariamente inviata da filosofo
Ma DI PRECISO allora cos'è che ti va bene e cos'è che non ti va bene di Marx? Io ti dico che una versione BLANDA delle teorie di Marx è realmente servita per togliere dalla schiavitù vera e propria molti operai dell'epoca, ti assicuro che lo penso davvero e penso che i primi sindacati siano stati un fenomeno di portata grandiosa. Ma penso altre due cose: la prima è che non siamo più nel 1800, la seconda è che per come sono fatto io e per quelle che sono le mie idee, "Il capitale" non deve uscire dalle mura delle sedi sindacali...e anche lì, ripeto, dovrebbe essere adottata solo una versione notevolmente edulcorata...Originariamente inviata da filosofo
Marx ha colto l'importanza dell'economia per capire la storia (merito riconosciutogli perfino da un liberale moderato come Croce) ma tuttavia, come tutti i pionieri che scoprono qualcosa di importante, ha finito per dare più peso alla sua scoperta di quanto ne avesse realmente.Originariamente inviata da darkness_creature
L'antropologia che possiamo ricostruire dalle sue opere è imperniata sull'economia, per cui non viene sviluppata un'adeguata analisi delle dinamiche psicologiche dell'uomo, il cui comportamento è determinato dalle condizioni materiali in cui è immerso; la struttura (l'economia) determina la sovrastruttura (la politica, la cultura, l'arte, ecc.) pur con qualche eccezione.
Solamente l'uomo del futuro (a seguito dell'instaurazione del comunismo) si potrà dire effettivamente libero. Questo è chiaramente un punto che critico fortemente.
Gli scritti marxiani sono innervati delle dimensioni eterogenee della scienza e della speranza: da un lato, infatti, diagnostica, col piglio dello scienziato, il tramontare del capitalismo per mezzo di una rivoluzione proletaria; dall'altro lato, poi, si spoglia della veste scientifica e si lascia trasportare dalla passione politica e dall'afflato morale, inneggiando alla rivoluzione, e proclamando ingiusta, e pertanto da superare, la società capitalistica.
Che vi sia una dimensione scientifica mi sento di contestarlo almeno in parte: anche nel Capitale, l'opera in cui il suo studio della realtà economica trova la massima espressione, l'economia viene coniugata con la dialettica hegeliana.
E come ha fatto sapientemente notare il filosofo della scienza Karl Popper, non si può vedere nel marxismo una teoria scientifica perché non è falsificabile.
Marx tuttavia ha offerto contributi importantissimi, introducendo i concetti di pluslavoro, plusvalore, feticcio della merce, valore d'uso, valore di scambio, ha reinterpretato il concetto di alienazione, ha operato una rivisitazione della dialettica hegeliana facendola poggiare non più sulla "testa" bensì sui "piedi", cioè non più sulle idee ma sulla prassi. Marx ha risvegliato la coscienza del mondo operaio, ha sbandierato a gran voce la sua posizione irrimediabilmente subordinata agli interessi dei capitalisti.
Ma il lascito più grande a cui mi richiamo è la speranza. Marx è il filosofo della speranza: ha sperato e ha insegnato a sperare... In cosa? In un mondo migliore.
Con la caduta del Muro di Berlino è calato il sipario sul marxismo.
E' crollato l'orizzonte comune della speranza, con la conseguenza che la poca speranza rimasta oggi si è frammentata in un numero sterminato di speranze individuali, del e in favore del singolo.
Ci troviamo di fronte a una "desertificazione dell'avvenire", giacché il presente pare eternizzarsi.
Io dico che Marx, seppur debole, non è morto.
Sta a noi ritrovare il suo spirito, liberarci dalla "paralisi dell'immaginazione" che pare affliggerci, e cominciare a tracciare il disegno di una società più giusta.
Tu disapprovi il fatto che la speranza globale si sia frammentata in piccole speranze individuali...quindi auspichi una società con uguaglianza globale Come si concilia questa cosa con l'atteggiamento che per esempio anche tu stesso hai nei confronti di quel falso amico? Tu stesso hai ammesso che in risposta al tuo atteggiamento anche tu ti servivi di lui...tu stesso hai ammesso che vuoi farti largo nel mondo dell'università...hai ammesso quindi di essere ambizioso. Niente di male in questo...ma come si concilia con la filosofia marxista che dici in buona parte di apprezzare?Originariamente inviata da filosofo