Di Pietro s’incorona re della casta
Strasburgo - Antonio Di Pietro è sempre più organico alla casta che dice di combattere: dopo aver candidato l’inquisito De Magistris, dopo non aver eccepito a che il suo figlio mantenesse lo stipendio di consigliere provinciale benché inquisito, dopo aver cooptato mezza famiglia in politica, dopo essersi intestato la ricezione di tutto il finanziamento pubblico del partito, dopo tutto questo, ecco la nemesi definitiva a 17 anni da Mani pulite: l’ex pm, è notizia di ieri, si trincera dietro l’immunità parlamentare per non essere condannato in una causa per diffamazione che l’avrebbe sicuramente visto perdente. Il Parlamento europeo, con 654 sì e 11 no e 13 astenuti, ha deciso di non revocare l’immunità che Di Pietro stesso aveva chiesto dopo averlo pubblicamente negato. E non si tratta neppure di un procedimento penale, ma di una causa civile: significa che Di Pietro l’ha fatto solo per non perdere soldi, proprio come i mostri della casta.
Ricostruiamo la faccenda, perché Di Pietro è nei particolari. Nell’ottobre 2002 l’italiano dei valori scrive un articolo sul quotidiano «Rinascita della sinistra», organo dei comunisti italiani: alle battaglie contro le sovvenzioni ai giornali di partito, quelle fatte con Beppe Grillo, mancano ancora sei anni. Di Pietro scrive una serie di sciocchezze more solito e in particolare indica il giudice Filippo Verde come uno degli imputati del processo per il Lodo Mondadori, dipingendolo oltretutto come uno dei giudici che avrebbe influenzato l’annullamento della sentenza favorevole a Carlo De Benedetti. Si leggeva: «Per l’insieme di queste vicende, la pubblica accusa rappresentata dalla tenace Ilda Boccassini ha chiesto pene di tutto rispetto, tra cui 10 anni per il giudice Filippo Verde». Che erano balle, appunto: Filippo Verde non è mai stato coinvolto nel processo Lodo Mondadori: è stato solamente imputato nel processo Imi-Sir e peraltro è stato assolto in primo grado e anche in Appello.
Ma Di Pietro della castroneria neppure si accorge: anzi, nel febbraio 2003 ripubblica lo stesso articolo sul sito internet dell’Italia dei valori. Ed è lì che parte la causa per diffamazione con richiesta di risarcimento, visto che Di Pietro non aveva smentito né rettificato (bensì addirittura reiterato, per usare il suo linguaggio) la falsità del caso. Ergo, i legali di Verde gli chiedono 150mila euro di risarcimento.
Un anno e mezzo più tardi, dopo che la pratica inspiegabilmente si è congelata per un anno e mezzo nella cancelleria del Tribunale di Roma, Di Pietro si costituisce ufficialmente, e presenta la richiesta di immunità: l’avvocato Sergio Scicchitano, legale di Di Pietro nonché deputato dell’Italia dei valori, mette per iscritto che «L’articolo deve intendersi quale espressione di critica politica e dunque si richiede che nel caso di specie venga applicato l’articolo 68 della Costituzione». Cioè: dire che un giudice ha influenzato illecitamente una sentenza, e che per lui hanno chiesto dieci anni di carcere, è una critica politica. Di fronte all’arditezza giuridica il giudice di Roma inoltra la pratica all’apposita commissione di Bruxelles: decide che sarà il Parlamento europeo a decidere se Di Pietro dovrà presentarsi di fronte al giudice come un cittadino qualsiasi. Passa il tempo sinché Paolo Bracalini del Giornale, i primi di febbraio scorso, rivela che Di Pietro ha chiesto l’immunità a fronte della causa intentatagli dal suo ex collega.
Notare che l’ex pm intanto sta girando le piazze italiane per raccogliere firme contro il Lodo Alfano, che definisce «vergognoso» per le immunità che garantisce alle più alte cariche dello Stato. È lo stesso Di Pietro, nota Bracalini, che «quando vuole querelare qualche politico non manca mai di aggiungere: “Mi auguro che, come me, rinunci all’immunità e accetti il giudizio del giudice terzo”. Per poi scoprire che lui è il primo a chiederla». Ma l’uomo più ipocrita del mondo non demorde, e il 6 febbraio scorso spara pubblicamente una falsità delle sue: «Con riferimento alle notizie di stampa che ipotizzano ciò che io andrei a sostenere al Parlamento europeo la prossima settimana, specifico che non chiederò l’immunità, ma che il procedimento civile prosegua. (...) Tale rinuncia all’immunità verrà da me formulata in un atto scritto che pubblicherò sul mio blog, in modo da evitare qualsiasi strumentalizzazione». Come no. S’è visto. La formula con cui Di Pietro si trincerava dietro l’immunità, intanto, continuava a essere perorata in tutti gli scritti difensivi nonché nelle memorie di replica e anche nelle cosiddette comparse conclusionali. Zitto zitto. Di Pietro Di Pietro. E ieri il voto: welcome to the Casta.
Infine: per distrarre il volgo da questa modesta vergogna, per difendersi cioè attaccando come suo solito, proprio ieri Di Pietro si è messo a inveire contro Silvio Berlusconi: «Si avvale del Lodo Alfano anche per sfuggire alla mia querela per diffamazione. Aveva detto di avere a disposizione delle carte che provavano il fatto che la mia laurea non fosse valida. È vergognoso usare il Lodo Alfano anche per difendersi dall’accusa di diffamazione». Già. Molto meglio l’immunità parlamentare. Quella europea. Magari: sperando che nessuno se ne accorga.