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Frasi tratte dai libri

  1. #451
    blablaologa illusione
    Donna 109 anni
    Iscrizione: 26/5/2007
    Messaggi: 5,697
    Piaciuto: 2007 volte

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    Arrivò a credere che nella storia del mondo forse c'era più castigo che delitto. Ma non ne trasse grande conforto.



    [La strada - McCarthy]

  2. #452
    Maschio Alpha Faster
    Uomo 46 anni
    Iscrizione: 24/2/2011
    Messaggi: 2,828
    Piaciuto: 566 volte

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    "La giraffa ha il cuore lontano dai pensieri,
    si è innamorata ieri e ancora non lo sa"
    D. Pennac
    A Temperance, Something Strange e andras piace questo intervento

  3. #453
    Moderatore 2.0 Canalfeder
    Uomo 28 anni da Barletta-Andria-Trani
    Iscrizione: 27/2/2008
    Messaggi: 12,195
    Piaciuto: 2822 volte

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    "Si deve ricordare che la Chiesa Cattolica, come tutte le altre chiese, è fondamentalmente un business, un'industria, la cui struttura e operatività vanno viste in tale ottica. E' solo una questione di tornaconto. Ciò vale anche per ogni Stato e per il suo governo, non escluso il Vaticano." ["Il libro che nessun papa ti farebbe mai leggere", Tim C. Leedom]
    A andras piace questo intervento

  4. #454
    Moderatrice Holly
    Donna 35 anni
    Iscrizione: 1/4/2006
    Messaggi: 35,150
    Piaciuto: 10123 volte

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    La proibizione dei medici d'uscire dopo il tramonto m'ha costretto da mesi nei confini del mondo diurno. Ma non è soltanto questo: è che trovo nella luce del giorno, in questa luminosità diffusa, pallida, quasi senz'ombre, una oscurità più densa di quella della notte

    Se una notte d'inverno un viaggiatore (sporgendosi dalla costa scoscesa) - Italo Calvino
    A Temperance e Earl88 piace questo intervento
    Difficile dire se il mondo in cui viviamo sia una realtà o un sogno.

  5. #455
    Overdose da FdT Fiona
    Donna 36 anni
    Iscrizione: 12/1/2011
    Messaggi: 8,589
    Piaciuto: 2979 volte

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    Questa vale?

    'Qu’est-ce que le Tiers État? Tout. Qu’a-t-il été jusqu’à présent dans l’ordre politique? Rien.
    Que demande-t-il? À être quelque chose.'

  6. #456
    Pantagruelico
    Uomo 36 anni da Venezia
    Iscrizione: 5/3/2006
    Messaggi: 10,799
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    [...] Qualcosa di terribile stava per accadere, lo si sentiva nell'aria. Il sole era basso nel cielo, una stella minore, un astro morente. Raffiche su raffiche di entropia [...]

    Le correzioni, Franzen J.

  7. #457
    Vivo su FdT andras
    Donna 43 anni
    Iscrizione: 30/9/2004
    Messaggi: 3,697
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    "Facevo pulizia in camera stamattina,rovistavo in una specie di baule pieno di vecchie cose,
    cercando di decidere cosa tenere e cosa buttare.

    Sono sempre stata il tipo che conserva tutto,
    sul genere “teniamo questo scontrino della gelateria pincopallo che c’è anche su la data così quando tra vent’anni lo riprenderò in mano mi ricorderò cosa ho fatto e con chi ero quel giorno”.
    Ovviamente dieci anni dopo ho in mano lo scontrino della gelateria pincopallo e non ho assolutamente idea di cosa ho fatto o con chi ero quel giorno.
    Suppongo questo non giochi a favore dello scontrino della gelateria pincopallo nella mia decisione tra cosa tenere e cosa buttare.
    Insomma sono qui che scovolo tra un vecchio diario e una bomboniera,
    una foto e un biglietto di auguri,
    quando mi capita tra le mani un bigliettino in cartone rosso,
    ritagliato – male, ma in modo da farti pensare che di meglio, date le circostanze, non si sarebbe potuto fare – a forma di cuore, con su una scritta in penna oro, di quelle che al tempo in cui io facevo le elementari erano il non plus ultra dell’esperienza calligrafica, e che tua mamma non ti comprava neanche morta perché punto primo non ho idea di dove le vendano e punto secondo cosa te ne fai di una penna oro quando la maestra per i dettati e i compiti a casa vuole soltanto la replay blu o nera?
    la scritta sul cuore, nel più amorevole dei corsivi, recita:

    vuoi essere la mia valen (a capo, doppia lineetta dopo la enne) tina?

    Mi ritrovo a fissare questo pezzo di carta come Proust a suo tempo deve aver fissato la madeleine,
    aspettando che il ricordo mi passi attraverso la pelle e poi su dritto fino al cervello,
    sperando di non aver dimenticato anche questo oltre alla gelateria pincopallo e al resto delle cose da buttare, scansionando l’hard disk in cerca di un appiglio,
    liceo no ginnasio no scuola media no elementari bingo!

    Eccoti là.

    Eri il ragazzo più grasso di tutta la scuola,
    il più grasso e il più intelligente,
    in realtà non ci voleva molto,
    erano le elementari e gli altri maschi della scuola a tutto pensavano meno che a leggere, ma tu no,
    tu leggevi, e la maestra leggeva sempre il tuo tema a alta voce prima di restituirtelo,
    il mio e il tuo insieme, di solito,
    avevi gli occhi grandi scuri e buoni ed eri proprio tanto grasso
    ma a me non importava niente, mi divertivo più con te che con tutti gli altri,
    ci prendevano anche in giro ma capirai,
    non ero certo una miss universo io,
    con le mie ballerine oro e i vestiti presi in prestito dalle figlie delle zie.

    Era l’ultimo anno, avevamo vent’anni in due, era san valentino e io avevo appena appoggiato la cartella sotto il banco,
    momento, forse era uno zaino, ad ogni modo mi ero appena seduta e sul banco c’era quel bigliettino,
    e io l’avevo guardato e mi ero sentita la cogliona più felice del mondo,
    quella scritta in penna oro che andava a capo perché non c’era spazio abbastanza,
    riprodotta uguale sul retro, giusto tu potevi essere, non era neanche una domanda vera,
    eravamo troppo piccoli per porci il problema,
    eppure c’era questa consapevolezza strana, questo dirsi

    ecco, se a dieci anni esistesse davvero qualcuno per cui perdere la testa o magari tenersela, per una volta, se uno come me, dieci anni e cento chili di peso, potesse anche solo sognarsela una valentina, allora io

    (senza impegno, chiaro, e sperando che tu non scoppi a ridere)

    io vorrei

    (che poi la smetto subito e ricomincio a leggere, c’è questo libro troppo divertente su quattro ragazzi un cane e le loro avventure, se vuoi te lo presto, passi a casa mia dopo la scuola così magari facciamo anche i compiti insieme)

    io vorrei

    (visto, abbiamo di nuovo preso lo stesso voto nel tema, ti volti e sorridi e la maestra ride un po’ anche lei, chissà, forse l’ha visto anche lei il mio cuore)

    io vorrei che la mia valentina fossi tu

    E allora all’intervallo ti ho portato in cortile tirandoti per la maglietta, ti ho portato in fondo dove non c’era nessuno degli altri, a me non importava ma sapevo che tu preferivi non essere visto, e ti ho dato un bacio, tu hai fatto finta di svenire e sei cascato davvero, all’indietro e in un cespuglio, e io ridevo e ridevi anche tu, perché sapevi che non stavo ridendo di te, stavamo ridendo insieme, noi due, di tutto il resto, come sto ridendo io adesso, seduta per terra col tuo bigliettino in mano, un cuore storto e rosso tagliato fuori e dentro i bordi, che è facile immaginarti lì coi tuoi ditini cicciotti e le forbici, attento a non sbagliare, e questo corsivo tremendo, che balbetta come balbettavi tu, ma la scritta in oro, perché in fondo, sotto tutti gli strati, davvero non eri altro, tu, nient’altro che oro.

    Quel che resta è questo biglietto,
    e pensarci mi rende ancora felice,
    quasi vent’anni dopo,
    grazie.

    Per la madeleine, e tutto il resto."


    Da Vienimi nel cuore
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  8. #458
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    Atterdel: -La porterete a Daschenbach, è una spiaggia ideale per i bagni d'onda. Tre giorni. Un immersione al mattino e una nel pomeriggio. Chiedete del dottor Taverner, vi procurerà tutto il necessario. Questa è una lettera di presentazione per lui. Tenete.

    Il barone prese la lettera senza nemmeno guardarla.
    - Ne morirà - disse.
    - E' possibile. Ma molto improbabile.
    Solo i grandi dottori sanno essere così cincamente esatti.
    Atterdel era il più grande.
    - Mettiamola così, Barone: voi potete tenere quella ragazzina qui dentro per anni, a passeggiare su tappeti bianchi e a dormire in mezzo a uomini che volano. Ma un giorno un'emozione che non riuscirete a prevedere se la porterà via. Amen. Oppure accettate il rischio, seguite le mie prescrizioni e sperate in Dio. Il mare vi restituirà vostra figlia. Morta, forse. Ma, se viva, viva davvero.

    Cinicamente esatto.

    Il barone era rimasto immobile, con la lettera in mano, a metà strada tra lui e il medico vestito di nero.

    - Voi non avete figli.
    - Questo è un fatto di nessuna importanza.
    - Comunque non ne avete.

    Guardò la lettera e lentamente la posò sul tavolo.

    - Elisewin rimarrà qui.

    Un attimo di silenzio, ma solo un attimo.

    - Neanche per sogno.

    Questo era Padre Pluche. In realtà la frase che era partita dal suo cervello era più complessa e si avvicinava di più a una cosa come "Forse è il caso di rimandare qualsiasi decisione dopo aver serenamente riflettuto a ciò che.." una cosa così.
    Ma " Neanche per sogno" era chiaramente una proposizione più agile e veloce, e non fece gran fatica a sgusciare tra le maglie dell'altra ed affiorare sulla superficie del silenzio come una boa imprevista e imprevedibile.
    - Neanche per sogno.
    Era la prima volta in sedici anni, che Padre Pluche osava contraddire il barone su una questione pertinente la vita di Elisewin.

    Provò una strana ebbrezza: come se si fosse appena buttato dalla finestra. Era un uomo di un certo spirito pratico: già che era lì, per aria, decise di provare a volare.

    - Elisewin andrà fino al mare. Ce la porterò io. E se ci sarà bisogno ci rimarremo mesi, anni, fino a che non troverà la forza di affrontare il mare e tutto il resto. E alla fine tornerà: viva.
    Qualsiasi altra decisione sarebbe un'idiozia, peggio, una viltà. E se Elisewin ha paura, non dobbiamo averla noi, e non ce l'avrò io. A lei non importa nulla di morire, è vivere che vuole. E quel che vuole, l'avrà.

    Parlava da non crederci, Padre Pluche. Da non credere che fosse lui.

    - Voi Dottor Atterdel, non capite niente di uomini, e di padri e di figli, niente. E per ciò io vi credo. La verità è sempre disumana. Come voi. Io so che non vi sbagliate. Ho pena di voi, ma le vostre parole le ammiro. E io che non ho mai visto il mare, fino al mare me ne andrò, perchè me l'han detto le vostre parole. E' la cosa più assurda, ridicola e insensata che mi potesse capitare di fare. Ma non c'è un uomo, in tutte le terre di Carewall, che potrà impedirmi di farla. Nessuno.

    Raccolse la lettera dal tavolo e se la mise in tasca.
    Aveva il cuore che gli sbatteva dentro come un matto, le mani che gli tremavano e uno strano ronzio nelle orecchie.

    Non c'era da stupirsi, pensò: non capita tutti i giorni di riuscire a volare.

    Poteva succedere qualsiasi cosa, in quell'istante.
    Davvero ci sono momenti in cui l'onnipresente e la logica rete delle sequenze casuali si arrende, colta di sorpresa dalla vita, e scende il platea, mescolandosi tra il pubblico, per lasciare che sul palco, tra le luci di una libertà vertiginosa e improvvisa, una mano invisibile peschi nell'infinito grembo del possibile e tra milioni di cose, una sola ne lasci accadere.
    Nel triangolo silenzioso di quei tre uomini, passarono tutte, le cose a milioni che vi sarebbero potute esplodere, in processione, ma in un lampo, fino a che, diradatosi il bagliore e il polverone, una sola, minuta, apparve, nel cerchio di quel tempo e di quello spazio, sforzandosi con qualche pudore di accadere.

    E accadde.

    Che il barone - il Barone di Carewall - prese a piangere, senza nemmeno nascondere il volto tra le mani, ma solo lasciandosi andare contro lo schienale del suo sontuoso sedile, come vinto dalla stanchezza, ma anche come liberato da un peso enorme.

    Come un uomo finito, ma anche come un uomo salvato.

    Piangeva, il barone di Carewall.
    Le sue lacrime.

    Padre Pluche immobile.

    Il dottor Atterdel, senza parole.

    E nient'altro.

    Da Oceanomare

  9. #459
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    "Ci sono quelli che vengono schiantati dal dolore.
    Quelli che diventano pensosi.
    Ci sono quelli che parlano del più e del meno,
    neanche del morto,
    di piccole cose domestiche,
    ci sono quelli che dopo si suicideranno e non glielo si vede in faccia,
    ci sono quelli che piangono molto e cicatrizzano in fretta
    e ci sono quelli che annegano nelle lacrime che versano.
    Ci sono quelli che sono contenti,
    sbarazzati di qualcuno,
    ci sono quelli che non riescono più a vedere il morto,
    tentano,
    ma non ce la fanno,
    il morto ha portato con sé la propria immagine,
    ci sono quelli che vedono il morto ovunque,
    vorrebbero cancellarlo,
    vendono i suoi tre stracci,
    bruciano le sue foto,
    traslocano,
    ci riprovano con un vivo,
    ma niente da fare,
    il morto è sempre lì,
    nel retrovisore.
    Ci sono quelli che fanno il picnic al cimitero
    e quelli che lo evitano perché hanno una tomba scavata nella testa.
    Ci sono quelli che non mangiano più,
    quelli che bevono,
    quelli che si domandano se il loro dolore
    è autentico
    o costruito.
    Ci sono quelli che si ammazzano di lavoro
    e quelli che finalmente si prendono una vacanza.
    Ci sono quelli che trovano la morte scandalosa
    e quelli che la trovano naturale
    con-l’età-per-cui,
    circostanze-che-fanno-sì-che...
    è la guerra,
    la malattia,
    la moto,
    la macchina,
    l’epoca,
    il destino,
    la vita,
    ci sono quelli che trovano che la morte sia la vita.

    E ci sono quelli che fanno una cosa qualsiasi.

    Che si mettono a correre,
    per esempio.

    A correre come se non dovessero mai più fermarsi."


    Da La fata carabina
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  10. #460
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    - Che succede, Pekish? - Schifezze - rispose. - Cosa sono le schifezze? - Sono cose che nella vita non bisogna fare. - E ce n'è tante? -Dipende. Se uno ha tanta fantasia, può fare molte schifezze. Se uno è scemo magari passa tutta la vita e non gliene viene in mente nemmeno una. La cosa si complicava. Pekish se ne accorse. Si tolse gli occhiali e lasciò perdere Jobbard, i tubi e le altre storie. - Mettiamola così. Uno si alza al mattino, fa quel che deve fare e poi la sera va a dormire. E li i casi sono due: o è in pace con se stesso, e dorme, o non è in pace con se stesso e allora non dorme. Capisci? - Si. - Dunque bisogna arrivare alla sera in pace con se stessi. Questo è il problema. E per risolverlo c'è una strada molto semplice: restare puliti. - Puliti? - Puliti dentro, che vuol dire non aver fatto niente di cui doversi vergognare. E fin qui non c'è niente di complicato. - No. - Il complicato arriva quando uno si accorge che ha un desiderio di cui si vergogna: ha una voglia pazzesca di qualcosa che non si può fare, o è orrendo, o fa del male a qualcuno. Okay? - Okay. - E allora si chiede: devo starlo a sentire questo desiderio o devo togliermelo dalla testa? - Già. - Già. Uno ci pensa e alla fine decide. Per cento volte se lo toglie dalla testa, poi arriva il giorno che se lo tiene e decide di farla quella cosa di cui ha tanta voglia: e la fa: ed eccola li la schifezza. - Però non dovrebbe farla, vero, la schifezza? - No. Ma sta' attento: dato che non siamo calzini ma persone, non siamo qui con il fine principale di essere puliti. I desideri sono la cosa più importante che abbiamo e non si può prenderli in giro più di tanto. Così, alle volte, vale la pena di non dormire per star dietro ad un proprio desiderio. Si fa la schifezza e poi si paga. E' solo questo davvero importante: che quando arriva il momento di pagare uno non pensi a scappare e stia lì, dignitosamente, a pagare. Solo questo è importante. Pehnt stette un po' a pensare. - Ma quante volte lo si può fare? - Cosa? - Fare schifezze. - Non troppe, se si vuole riuscire a dormire ogni tanto. - Dieci? - Magari un po' meno. Se sono vere schifezze, un po' meno. - Cinque? - Diciamo due. poi se ne scappa qualcun'altra. - Due? - Due."

    ...


    "P.S. Ho smarrito un amico che si chiamava Pehnt. Era un ragazzo intelligente. Ne sapete mica qualcosa ?"

    "Vecchio, benedetto, Pekisch,
    questo non me lo devi fare. Non me lo merito. Io mi chiamo ancora Pehnt, e sono ancora quello che se ne stava sdraiato per terra a sentire la voce nei tubi, come se quella arrivasse davvero, e invece non arrivava. Non è mai arrivata. E io adesso sono qui. Ho una famiglia, ho un lavoro e la sera vado a letto presto. Il martedì vado a sentire i concerti che danno alla Sala Trater e ascolto musiche che a Quinnipak non esistono : Mozart, Beethoven, Chopin. Sono normali, eppure sono belle. Ho degli amici con cui gioco a carte, parlo di politica fumando il sigaro e la domenica vado in campagna. Amo mia moglie, che è una donna intelligente e bella. Mi piace tornare a casa e trovarla lì, qualsiasi cosa sia successa nel mondo quel giorno. Mi piace dormire vicino a lei e mi piace svegliarmi insieme a lei. Ho un figlio e lo amo anche se tutto fa supporre che da grande farà l'assicuratore. Spero che lo farà bene e che sarà un uomo giusto. La sera vado a letto e mi addormento. E tu mi hai insegnato che questo vuol dire che sono in pace con me stesso. Non c'è altro. Questa è la mia vita. Io lo so che non ti piace, ma non voglio che tu me lo scriva. Perché voglio continuare ad andare a letto, la sera, e addormentarmi.
    Ognuno ha il mondo che si merita. Io forse ho capito che il mio è questo qua. Ha di strano che è normale. Mai visto niente del genere, a Quinnipak. Ma forse proprio per questo, io ci sto bene. A Quinnipak si ha negli occhi l'infinito. Qui, quando proprio guardi lontano, guardi negli occhi di tuo figlio. Ed è diverso.
    Non so come fartelo capire, ma qui si vive al riparo. E non è una cosa spregevole. E' bello. E poi chi l'ha detto che si deve proprio vivere allo scoperto, sempre sporti sul cornicione delle cose, a cercare l'impossibile, a spiare tutte le scappatoie per sgusciare via dalla realtà ? E' proprio obbligatorio essere eccezionali ?
    Io non lo so. Ma mi tengo stretta questa vita mia e non mi vergogno di niente : nemmeno delle mie soprascarpe. C'è una dignità immensa, nella gente, quando si porta addosso le proprie paure, senza barare, come medaglie della propria mediocrità. E io sono uno di quelli.
    Si guardava sempre l'infinito, a Quinnipak, insieme a te. Ma qui non c'è l'infinito. E così guardiamo le cose, e questo ci basta. Ogni tanto, nei momenti più impensati, siamo felici.
    Andrò a letto, questa sera, e non mi addormenterò. Colpa tua, vecchio, maledetto Pekisch.
    Ti abbraccio. Dio sa quanto ti abbraccio.

    Pehnt, assicuratore."

    Da Castelli di rabbia

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