L'odore è buono. Come in ogni casa del mondo, dove c'è una famiglia e un pranzo nel giorno di festa. Il vapore che sale dalla pentola dello stufato di maiale con l'aglio e le cipolle è denso e profumato e Iuliana - Iuliana Dumea è venuta a Roma dalla contea di Piatra Neamt, Romania, quattro anni fa, in settembre - ne è fiera. Sorride e si stringe sulle spalle lo scialletto di lana. Fuori piove. Vuole preparare un caffè tanto per levarsi di dosso l'umidità.
Iuliana racconta di sé senza disperazione, quasi orgogliosa della sua rassegnazione a una vita aspra, della sua capacità di sopportarla con dignità. Dice del suo lavoro di badante a Cerveteri, 650 euro al mese, un posto fisso, un letto caldo per sei giorni la settimana e la famiglia che l'ospita la rispetta e ha fiducia in lei. Dice della figlia Andreea, arrivata in Italia che sono sette giorni: si prepara a diventare "grande", a dicembre finalmente festeggerà i diciotto anni e potrà cercarsi un lavoro. Del marito muratore che guadagna 40 euro a giornata, anche 50, quando è fortunato a trovarlo e, se Dio vuole, quest'anno la fortuna non lo ha mai abbandonato. Dice Iuliana, delle sue preoccupazioni, ma anche della sua speranza di una vita regolare, del desiderio di trovare una casa e non la baracca dove in un angolo ora borbotta - allegra - la pentola dello stufato.
La baracca, quindici metri quadrati, è stata tirata su con gli alberi del parco dell'Aniene, con l'aiuto di Cristian Samoila che ora sta tirando su la sua poco più in là. La baracca ha un tetto di laminato d'alluminio e pareti di cartone, protette da larghi fogli di plastica e cartelloni pubblicitari. C'è anche una finestra, ma non si apre. E' lì per decoro, per simulare una casa vera. Il rifugio di Iuliana è a ridosso dell'argine destro dell'Aniene tra l'ansa di Ponte Mammolo e Casale Rocchi. E' nel mezzo di una fangosa discarica per gran parte annerita dal fuoco - televisori sventrati, marmitte e batterie d'auto, vecchie scarpe, centinaia di bottiglie di vino e di birra, monnezza, bambole, cessi sbreccati, plastica bruciata.
Se guardi il volto di Iuliana, puoi anche dimenticare la baracca e la discarica. E se dimentichi la baracca e dove sei, la vita di Iuliana può anche apparire non disperata - Iuliana non la sente disperata - difficile sì, dura come la pietra sì, ma non disperata. E' una vita che ha ridotto al minimo ogni bisogno di abitazione, di vesti, di vitto ma non l'aspettativa di giorni migliori. E ora, chiede Iuliana, che succederà dopo quel che è accaduto a Tor di Quinto a quella povera signora: noi romeni finiremo tutti nei guai? Ci cacceranno tutti? Pagheremo tutti, i delitti di pochi o di uno? Io ho un lavoro, potrò restare? E Andreea potrà restare, lei che il lavoro non ce l'ha, ma ha me? Perché non li punite? Perché non li tenete in carcere? Perché, se li arrestate, poi li scarcerate?
Può apparire un paradosso e non lo è. I romeni, quei romeni che menano una vita agra lungo l'argine dell'Aniene, in baracche di cartone, legno e plastica, a pochi metri dal fiume - "invisibili" soltanto per chi abita in un'altra parte della città - temono la violenza dei romeni quanto gli italiani. La odiano come loro. Ne sono impauriti come loro e, come loro, chiedono che chi sbaglia paghi duramente. Come duramente pagherebbero in Romania. Se rubi una gallina in Romania, sei condannato a cinque anni di carcere anche se quella gallina ti sfama soltanto per un giorno, dice Cristian - è alto, magrissimo, è un elettricista, ha ascoltato Iuliana, in silenzio, infreddolito e scosso dai brividi. Se hai la droga, puoi essere condannato a quindici anni, dice. Se la droga è troppa per essere soltanto la tua, rischi l'ergastolo. Se hai bevuto anche solo un bicchiere di birra e guidi, perdi l'auto e la patente. Perché da voi non è così?
Lungo il fiume, per chilometri, ci sono soltanto baracche di romeni, di rom, di bosniaci, dice Cristian, vai a vedere: ognuno vive, come può e come sa e, se non ti fai confondere dalla povertà e dal loro aspetto o dalla confusione delle loro baracche, la vita che vogliono fare gliela leggi in faccia. Se hanno voglia di lavorare, se cercano lavoro per mangiare, lo capisci. Se vogliono mangiare e bere senza lavorare, lo puoi intuire. Se vuoi capirlo meglio, guarda se ci sono bambini e donne in casa. Se hanno la responsabilità di bambini e donne, gli uomini non rischiano di finire in carcere per una sbronza violenta. Se ci sono bambini e non ci sono le donne, diffida di quegli uomini: mandano le loro donne a rubare.
Se vedi soltanto uomini in una baracca, stai attento: possono essere loro - proprio quelli - la maledizione che può dannarci tutti. Sono spesso uomini che non hanno nulla da perdere. Venuti negli ultimi mesi in Italia, non dai villaggi ma dalle città, Costanza, Timisoara, Iasi, Cluj Napeca, dai peggiori quartieri di Bucarest, Ferentari, Obor, Pantelimon. Magari in Romania hanno fatto già il carcere e ancora ne devono fare e non hanno nulla da perdere. Sono uomini in fuga e di nulla conoscono il valore, nemmeno della vita umana. Ogni giorno in più per loro è un giorno guadagnato e per trenta euro possono ucciderti, se hanno bevuto; e d'altronde hanno sempre bevuto perché non fanno altro, dice Cristian.
Le acque dell'Aniene, grigie come il ferro, corrono veloci e gonfie. Le baracche sono addossate all'argine melmoso, nascoste dalle canne. L'una accanto all'altra per chilometri. Sono costruite tutte nello stesso modo, più o meno. Una camera, i grandi letti, la cucina a gas, la stufa a cherosene. Una porta che dà sul sentiero interno e un'altra che si apre su una specie di terrazzino "panoramico" che guarda il fiume e l'altra riva. C'è il tavolo, un paio di sedie e, a volte, anche un divano sfondato. Qualche baracca ha il televisore e l'antenna satellitare. Non si ode un rumore, una voce, il pianto o il riso di un bambino.
Gli "uomini soli" li vedi subito, da lontano. Sono in cerchio davanti alla baracca. Fumano, chiacchierano, hanno già bevuto e sono soltanto le undici del mattino. Non hanno voglia di dire il loro nome. Farfugliano se si parla di lavoro. Dicono che sono di Timisoara. Dicono che loro "i romeni cattivi" li prendono a calci nel culo se si fanno vedere da quelle parti. Uno che sembra il capo - è il solo a parlare mentre gli altri al più annuiscono a quel che dice - racconta che l'altro giorno si presentano un paio di loro con un'auto. Vedete, quella Ford laggiù. Vogliono venderla per mille euro. L'uomo chiede i documenti, ma non c'è alcun documento. Allora, giù calci nel culo. Quelli scappano e l'auto resta lì. E' ancora lì. "Che ci posso fare? Magari qualcuno può pensare che l'ho rubata io".
Se si racconta la storia a Essan, ride e ti chiede se l'hai bevuta. Abita più in là, lungo l'argine in una larga area umida e piana. E' un bosniaco, in Italia dal 1969. 43 anni, magro come uno chiodo, otto figli, dieci nipoti. Vivono tutti con lui, in quattro baracche di legno e una roulotte in un lotto recintato da rovi di more e una rete di ferro con su un cartello "Proprietà privata, non oltrepassare". Dice Essan che gli è venuta la pelle d'oca quando ha saputo della signora di Tor di Quinto. Mai, dice, si è vista questa violenza.
Ci sono stati gli albanesi, i marocchini, che non sono roba da poco, e mai la violenza dei romeni, dei romeni sfrizzati. Essan non vuole fare il santo. E' stato un ladro, ammette. Ha rubato, ma era un altro rubare, sostiene. Mai un coltello, mai una pistola e, se entravi in una casa e qualcuno gridava, te la davi a gambe e in fretta. Se ti beccavano e magari dovevi scontare un "residuo di pena", con le vostre leggi strane che prima ti scarcerano e poi, dopo anni, ti chiedono di tornare in galera a scontare la condanna, preparavi la tua valigia e te ne andavi a Rebibbia con le tue gambe. Ma ora, dice Essan, chi ci capisce niente? "Questi t'ammazzano per cinque euro, se sono ubriachi! Io non voglio che i miei figli abbiano a che fare con quella gente lì. Abbiamo il nostro lavoro della raccolta del ferro, e questo ci basta".
Anche Nichita è il capo di una tribù, otto figli, tre generi, cinque nipoti. E' autista e si sente proprietario dello spicchio di demanio pubblico che occupa. Lo ha pagato 11.500 euro, dice. Ha un foglio di carta firmato. Glielo ha venduto un tale di nome Gino che prima aveva lì un orto. Testardo, non vuole saperne di essere stato truffato. Dice che quella terra è ormai sua e da lì non se ne andrà. Perché dovrebbe andarsene, chiede. "Perché sono romeno? E allora stai a sentire? Guarda questa mano. In questa stessa mano, non c'è un dito uguale all'altro. Questo è corto e largo. Quest'altro è lungo e magro. Quest'altro ancora non si sa che farsene se non infilarci un anello.
Un popolo è come una mano. Ognuno è diverso dall'altro. Perché non volete capirlo? Proprio voi dovreste capirlo. Per alcuni, siete tutti mafiosi. Io so che non è vero, ma allora perché, per voi, può essere vero che tutti i romeni sono ladri e assassini e ubriaconi e violenti? Noi romeni siamo come cavalli che sono stati per anni chiusi in una stalla al buio. Poi hanno aperto le porte della stalla e il sole, la luce, l'aria, la libertà ci hanno intontito e turbato. C'è chi quella libertà vuole respirarla a pieni polmoni e corre, corre, corre approfittando degli spazi liberi pensando che la vita che vuole regalare ai figli deve essere diversa da quella che lo ha imprigionato per anni e ci sono altri che non sanno che farsene di quella libertà. Quella libertà non li rende felici. Al contrario, li riempie di rancore. Li fa rabbiosi e pazzi come cani e mordono chiunque li avvicini. Perché volete confondere me, la mia famiglia, con quei cani?".
Oltre la curva dell'Aniene a Ponte Mammolo, c'è una rete di strade e in una di quelle vie cieche che scendono verso l'area di esondazione del fiume, a Pietracamela, dicono che da qualche tempo c'è un nuovo campo di romeni, nelle grotte. Sembra una leggenda metropolitana. Quelle strade sono deserte e di grotte, in apparenza, non se ne vedono. Sarebbe difficile accorgersene se non spuntasse nell'angolo di un costone roccioso una testa per scomparire subito. E' quello l'ingresso delle grotte. Dentro inzuppato in un'umidità quasi solida c'è un intero borgo.
Le baracche appoggiate alla roccia, una larga "piazza" con intorno tavoli e sedie. Nel tavolo in fondo, un uomo allampanato, avanti con gli anni, beve un tè, concentrato nel gioco enigmistico del giornale romeno che lo ha accompagnato nel viaggio dalla Transilvania a Roma. E' arrivato appena ieri, dice Marian. Marian ha 22 anni, è nato e vissuto in un villaggio di trecento abitanti nel distretto di Maramures, in Transilvania appunto. Quando vivi in un posto di trecento abitanti, dice, non sai che cos'è la violenza.
Tutti si conoscono. Qualcuno può stare sul naso di un altro, ma al peggio non gli rivolge la parola ed è il massimo della violenza in un posto così. "Io - dice Marian - la violenza l'ho scoperta qui da voi ed è una violenza figlia delle vostre abitudini. Sono qui per lavorare e il lavoro non mi manca. Non guadagno molto, ma vado avanti. Penso che domani possa andare meglio. Quando mi manca il lavoro a Roma, vado al Nord, da mio fratello, e un lavoretto lo trovo sempre. Ora faccio pubblicità per una discoteca. Cinquanta euro al giorno. Può andare. Non capisco perché vi aspettate che chi non ha voglia di lavorare non procuri guai agli altri. Se non lavori, non mangi. Se non ti cerchi un lavoro, l'unico modo per mangiare è rubare. Se hai rubato una volta, tornerai a farlo. Se hai ucciso, sarai tentato di farlo un'altra volta. C'è un solo modo per risolvere il problema, chiudere in carcere chi fa del male agli altri, come fanno in Romania. Che ci vuole a capirlo?".
Marian alza la voce, senza volerlo, come in preda a una incomprensibile rabbia. Gli viene accanto una ragazza. Si chiama Veronica. E' la sua donna. Veronica prende per mano Marian, che si calma subito. Veronica è stata una schiava. Costretta a prostituirsi, picchiata selvaggiamente quando si rifiutava di passare le notti sulla Tiburtina. Marian l'ha convinta a denunciare i suoi "padroni". Ora vogliono sposarsi, appena troveranno un posto più decente di una grotta.