L'interrogatorio di Gesù davanti al sinedrio si era concluso così come Caifa se l'era aspettato: Gesù era stato dichiarato colpevole di bestemmia, un reato per il quale era prevista la pena di morte. Ma siccome il potere di infliggere la pena capitale era riservato ai Romani, il processo doveva essere trasferito davanti a Pilato e con ciò doveva entrare in primo piano l'aspetto politico della sentenza di colpevolezza. Gesù si era dichiarato Messia, aveva quindi preteso per sé la dignità regale, anche se in modo del tutto particolare. La rivendicazione della regalità messianica era un reato politico, che dalla giustizia romana doveva essere punito.(...) Così Gesù viene dai suoi accusatori condotto al pretorio e presentato a Pilato come malfattore meritevole di morte. È il giorno della «Parasceve» per la festa di Pasqua: nel pomeriggio vengono immolati gli agnelli per il banchetto serale. Per questo è esigita la purezza rituale; i sacerdoti accusatori non possono quindi mettere piede nel pretorio pagano e trattano con il governatore romano davanti all'edificio. Giovanni che ci trasmette tale notizia (cfr 18,28s) lascia con ciò trasparire la contraddizione tra l'osservanza corretta delle prescrizioni cultuali di purezza e la questione della vera, interiore purezza dell'uomo: agli accusatori non viene in mente che non l'entrare nella casa pagana sia ciò che inquina, ma l'intimo sentimento del cuore. Al tempo stesso l'evangelista sottolinea con ciò che la cena pasquale non ha ancora avuto luogo e che l'immolazione degli agnelli deve ancora avvenire. Nella descrizione dell'andamento del processo i quattro Vangeli concordano in tutti i punti essenziali. Giovanni è l'unico che riferisce il colloquio tra Gesù e Pilato, in cui la questione circa la regalità di Gesù, circa il motivo della sua morte, viene scandagliata in tutta la sua profondità (cfr 18,33- 38).(...) Ma domandiamoci anzitutto: chi erano precisamente gli accusatori? Chi ha insistito per la condanna di Gesù a morte? Nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze su cui dobbiamo riflettere. Secondo Giovanni, essi sono semplicemente i «Giudei ».
Ma questa espressione, in Giovanni, non indica affatto – come il lettore moderno forse tende ad interpretare – il popolo d'Israele come tale, ancor meno essa ha un carattere «razzista». In definitiva, Giovanni stesso, per quanto riguarda la nazionalità, era Israelita, ugualmente come Gesù e tutti i suoi. L'intera comunità primitiva era composta da Israeliti. In Giovanni tale espressione ha un significato preciso e rigorosamente limitato: egli designa con essa l'aristocrazia del tempio.(...) In Marco, nel contesto dell'amnistia pasquale (Barabba o Gesù), il cerchio degli accusatori appare allargato: compare l'«ochlos» ed opta per il rilascio di Barabba. «Ochlos» significa innanzitutto semplicemente una quantità di gente, la «massa ». Non di rado la parola ha un sapore negativo nel senso di «plebaglia». In ogni caso con ciò non è indicato «il popolo» degli Ebrei come tale(...). Per quanto riguarda questa «massa », si tratta di fatto dei sostenitori di Barabba, mobilitati per l'amnistia; come rivoltoso contro il potere romano, questi poteva naturalmente contare su un certo numero di simpatizzanti. Erano quindi presenti i seguaci di Barabba, la «massa », mentre gli aderenti a Gesù per paura rimanevano nascosti, e in questo modo la voce del popolo su cui il diritto romano contava era presentata in modo unilaterale.(...) A proposito di queste parole bisogna – come indicato già nella riflessione sul discorso escatologico di Gesù – ricordare l'intima analogia tra il messaggio del profeta Geremia e quello di Gesù. Geremia annuncia – contro l'accecamento dei circoli dominanti d'allora – la distruzione del tempio e l'esilio di Israele. Ma parla anche di una «nuova alleanza»: il castigo non è l'ultima parola; esso serve alla guarigione. Analogamente Gesù annuncia la «casa deserta» e dona già fin d'ora la nuova alleanza «nel suo sangue»: in ultima analisi si tratta di guarigione, non di distruzione e ripudio. Se secondo Matteo «tutto il popolo» avrebbe detto: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (27,25), il cristiano ricorderà che il sangue di Gesù parla un'altra lingua rispetto a quello di Abele (cfr Eb 12,24): non chiede vendetta e punizione, ma è riconciliazione. (...) Pilato - lo ripetiamo - conosceva la verità di cui si trattava in questo caso e sapeva quindi che cosa la giustizia richiedeva da lui. Ma alla fine vinse in lui l'interpretazione pragmatica del diritto: più importante della verità del caso è la forza pacificante del diritto (...). Un'assoluzione dell'innocente poteva recare danno non solo a lui personalmente – il timore per questo fu certamente un motivo determinante per il suo agire –, ma poteva anche provocare ulteriori dispiaceri e disordini che, proprio nei giorni della Pasqua, erano da evitare. La pace fu in questo caso per lui più importante della giustizia.
Il Tempo - Spettacoli - Ponzio Pilato sacrifica la verità sull'altare della convenienza