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Pentole & provette

  1. #41
    Sempre più FdT
    Uomo 39 anni da Catania
    Iscrizione: 21/2/2008
    Messaggi: 2,410
    Piaciuto: 0 volte

    Predefinito

    Figaaaaaaaaata!!!


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  3. #42
    Sedobren Gocce
    Ospite

    Predefinito Segreti e virtù dell'avocado

    Apprezzato già degli Aztechi, che lo consideravano un afrodisiaco,
    oggi è diventato un ingrediente comune anche nelle cucine di casa nostra
    .

    Ormai anche nei nostri mercati è possibile acquistare frutta che una volta si incontrava solo durante un viaggio in paesi lontani. Uno tra i più curiosi è l'avocado, usato prevalentemente come un ortaggio: in insalata, come condimento o per preparare salse.
    L'avocado è originario del Messico meridionale e dell'America centrale.
    Gli Aztechi lo consideravano un afrodisiaco e lo chiamavano ahuacatl, che significa testicoli, sia per la forma del frutto sia per il modo in cui pende dall'albero. Gli spagnoli ne deformarono il nome in aguacate, modificandosi poi in avocado nelle altre lingue.



    Pur essendo un frutto fresco, ha la particolarità di esser molto ricco di grassi e piuttosto povero di carboidrati: 100 g di un avocado maturo contengono mediamente 8 grammi di carboidrati e 10-20 g di grassi, ma la percentuale di grassi, principalmente monoinsaturi, può arrivare al 30% a seconda della varietà.

    Persea americana, questo è il nome botanico della pianta, comprende tre varietà principali: la Antillana, la Messicana e la Guatemalteca.
    La maggior parte delle varietà commerciali sono ibridi. Le due principali sono la varietà Fuerte e la Hass, la cui differenza fondamentale è nella buccia quando il frutto è maturo. La Fuerte, di forma allungata simile a una pera, mantiene la buccia verde, mentre la Hass, varietà più pregiata e della buccia corrugata, a maturazione avvenuta diventa viola scuro o addirittura nera.

    Un'altra peculiarità dell'avocado è che, a differenza di altri frutti, dopo aver raggiunto la maturità fisiologica può rimanere sulla pianta anche vari mesi. Solo una volta staccato dall'albero si innescano i meccanismi enzimatici che portano alla maturazione completa del frutto, con un ammorbidimento della polpa e, nel caso della Hass, un annerimento della buccia.

    Una volta raccolto, a temperatura ambiente, l'avocado comincia ad aumentare la respirazione e inizia a produrre etilene in quantità. Questo ormone segnala al frutto di entrare nella fase finale della maturazione.
    I frutti che si comportano in questo modo sono chiamati climaterici e possono maturare anche dopo esser stati recisi dalla pianta. Molti frutti sono climaterici e producono etilene: per esempio mele, banane, kiwi, pere, pesche, meloni e pomodori (che botanicamente sono dei frutti). Questo è il motivo per cui se nel cesto della frutta c'è una mela matura, si accelera la maturazione dei frutti climaterici vicini.
    I frutti non climaterici, come fragole, ciliegie, mirtilli, uva, arance e limoni, devono invece esser colti dalla pianta a maturazione completa: una volta recisi la qualità può solo diminuire.

    Un avocado è pronto per esser consumato quando è leggermente morbido alla pressione delle dita.
    Un avocado non maturo si può conservare a 5-12 gradi Celsius.
    Per accelerare la maturazione completa lo si tiene a temperatura ambiente: quando è maturo, lo si può conservare al freddo (1-6 gradi) per qualche giorno.

    Io (lDario Bressanini, ndr) acquisto gli avocadi duri, evitando quelli con abrasioni o che hanno subito colpi.
    Per accelerarne la maturazione li metto in un sacchetto di carta, magari insieme ad una mela. L'etilene prodotto dalla mela e dall'avocado stesso rimane parzialmente nel sacchetto di carta accelerando la maturazione.
    Non usate sacchetti di plastica, perché impedirebbero la diffusione dell'ossigeno necessario alla respirazione dei frutti e causerebbero una ritenzione di umidità.

    Quando l'avocado è maturo potete tagliarlo a dadini per una fresca insalata mista oppure preparare il guacamole, una tipica insalata messicana da gustare con le tortillas, schiacciandolo con del pomodoro maturo e aggiungendo succo di lime, cipolla rossa tagliata finissima, coriandolo fresco tritato, sale e peperoncino verde dolce.

  4. #43
    Sedobren Gocce
    Ospite

    Predefinito Questioni di zucchero

    Da diverso tempo ormai al posto del saccarosio si può usare il fruttosio, per esempio in un caffé. Ma non sempre la scelta tra i due zuccheri è indifferente.

    Fino a pochi anni fa l'unico zucchero puro presente nelle dispense era il saccarosio, estratto dalla canna da zucchero oppure dalla barbabietola. Il saccarosio è un disaccaride, cioè è composto da due zuccheri più semplici, detti monosaccaridi, legati tra di loro. Questi due zuccheri sono il glucosio e il fruttosio, noti anche come destrosio e levulosio. Nel nostro organismo, il saccarosio viene scisso nei due zuccheri che lo compongono. La scissione che i chimici chiamano idrolisi, avviene grazie agli acidi presenti nello stomaco e soprattutto grazie ad alcuni enzimi dell'intestino.




    Il fruttosio si trova in grandi concentrazioni nel miele, dove può anche rappresentare la metà del peso totale e, come suggerisce il nome, ma in concentrazioni molto più basse, anche nella frutta. Per questo motivo a volte viene chiamato “lo zucchero della frutta”. Un po’ impropriamente poiché solitamente la frutta contiene una miscela di saccarosio, glucosio e fruttosio dove questi ultimi due sono spesso presenti in percentuali simili.

    Il fruttosio ha molta affinità per l’acqua ed è molto difficile da cristallizzare. Solo recentemente si sono trovati dei metodi efficaci per la sua produzione su grande scala e quindi lo possiamo trovare sui banconi di negozi e supermercati.


    Il fruttosio, sia quello ingerito tal quale che quello che il nostro corpo ricava dal saccarosio, viene metabolizzato dal nostro organismo in modo completamente differente rispetto al glucosio. Viene assorbito più lentamente del glucosio dal tratto gastrointestinale, viene però metabolizzato velocemente dal fegato. A differenza del glucosio ha un basso indice glicemico ed un effetto modesto sulla secrezione di insulina, di cui non ha bisogno per entrare nelle cellule. Per questi motivi viene a volte consigliato nella diete di alcuni diabetici in sostituzione del saccarosio.


    Sempre più spesso però anche persone non affette da diabete hanno iniziato a consumare fruttosio per motivi puramente dietetici. Un grammo di fruttosio contiene praticamente le stesse calorie di un grammo di saccarosio, tuttavia è molto più dolce. Il fruttosio infatti è, tra gli zuccheri in natura, quello più dolce: a seconda di come viene misurata la dolcezza alla temperatura corporea risulta tra il 20 per cento e il 50 per cento più dolce del saccarosio. Quindi per ottenere la stessa sensazione di dolcezza è possibile usare meno fruttosio, e quindi ingerire meno calorie.


    Non è possibile, tuttavia, sostituire completamente in molte ricette il saccarosio con il fruttosio, ad esempio nelle torte, perché lo zucchero ha spesso anche una funzione strutturale, aiutando a formare e mantenere la giusta consistenza del prodotto. In più il fruttosio è molto più affine all’acqua del saccarosio, e la sua completa sostituzione porterebbe a dei prodotti più umidi.


    In attesa che vengano messe a punto ricette casalinghe adatte al fruttosio, come è accaduto ad esempio in gelateria dove da tempo oltre al saccarosio vengono utilizzati glucosio, fruttosio e altri dolcificanti, il suo utilizzo resta confinato a dolcificare bevande.
    Anche in questo caso però ci sono delle complicazioni: il fruttosio, sciolto in acqua, assume tre strutture molecolari diverse in equilibrio tra loro, e solo una di queste, con una struttura ciclica a sei atomi, è dolce. Con l’aumentare della temperatura la proporzione di molecole con la struttura ciclica responsabile della dolcezza diminuisce, mentre tutto questo non accade per il saccarosio. Questo significa che a 40 °C fruttosio e saccarosio hanno più o meno la stessa dolcezza, mentre a 60 °C il fruttosio, per molte persone, risulta circa il 20 per cento meno dolce del saccarosio.


    Ricordatevene la prossima volta che dovete scegliere il tipo di zucchero per dolcificare un caffè bollente o un té .


    Alla prossima.
    Dario Bressanini

  5. #44
    Sedobren Gocce
    Ospite

    Occhiolino Il segreto del buon bollito

    Per cucinare bene le carni ricche di tessuto connettivo, come quelle dei bolliti e dei brasati, servono un ambiente acquoso, fuoco basso e una lenta cottura.




    Pensate in quanti modi diversi potete cucinare la carne: arrosto, soffritta, alla griglia, brasata, stufata, lessa e così via. Può sembrare incredibile ma tutti i possibili modi di cottura della carne si basano su pochissimi principi scientifici. Uno di questi è che la carne ricca di tessuto connettivo deve essere cotta a lungo a temperature non troppo elevate e in ambiente acquoso.
    Le fibre muscolari sono tenute insieme del tessuto connettivo, a volte visibile ad occhio nudo a volte estremamente sottile e trasparente. Inframmezzate a volte da un po’ di grasso, un certo numero di queste fibre singole sono tenute insieme in un fascio da un foglio più grande di tessuto connettivo. Tanti fasci vengono tenuti insieme da uno strato più spesso di tessuto connettivo e formano il muscolo che a sua volta è attaccato alle ossa sempre grazie questo tipo di tessuto.





    Più i muscoli devono sopportare peso e fatica, più vengono esercitati e più sono ricchi di tessuto connettivo. Questo è costituito da tre proteine: il collagene, la reticolina e l’elastina. Il collagene è la più comune, ed è l’unica delle tre che si scioglie in acqua. La temperatura a cui questo avviene è diversa per specie differenti: per i pesci è circa 45 °C mentre per i mammiferi è 60-65 °C. Il collagene è costituito da tre “fili” arrotolati come in una fune. Fili diversi sono legati tra di loro con dei legami, tanto più forti quanto più è vecchio l’animale. Quando il collagene si “denatura”, cioè altera la propria struttura, le fibre si districano e si accorciano e, se il processo avviene in presenza di acqua, si sciolgono formando la gelatina. L’elastina e la reticolina invece, presenti anche nei legamenti e nei vasi sanguigni, non si sciolgono in acqua, si denaturano molto lentamente e a temperature superiori ai 90 °C.
    Il tessuto connettivo è troppo duro da masticare, e ben poco appetibile, e quindi va ammorbidito. Più collagene è presente e più dura risulta la carne. Ecco quindi che, per ogni taglio di carne, con una determinata percentuale di grassi, muscoli, e tessuto connettivo, è sempre una questione di trovare il giusto compromesso tra il desiderio di sciogliere il collagene, e quello di mantenere morbide le fibre muscolari. Se una bistecca di filetto andrà cotta velocemente ad alta temperatura, il cappello del prete, ricco di tessuto connettivo, è più adatto ad una cottura umida e lenta, per sciogliere il collagene e formare la gelatina che lubrifica le fibre muscolari rendendo la carne morbida al palato.
    La carne meno tenera, che però spesso è anche la più saporita, si cuoce normalmente in presenza di acqua e questa oltre che dal rubinetto di casa può provenire dal latte, dal vino, dalla birra, dal brodo, persino dai succhi della frutta. E nel corso dei millenni anonimi cuochi hanno inventato un’impressionante varietà di piatti succulenti basati su questo principio: spezzatini, stufati, brasati e così via. Se ne preparate uno abbiate cura che l’acqua non raggiunga mai l’ebollizione! Come abbiamo detto il tessuto connettivo si deve sciogliere, e questo processo inizia attorno ai 60 gradi. Aumentando la temperatura il collagene si scioglie più velocemente, tuttavia le proteine dei muscoli si accorciano, “strizzando” fuori dalle fibre l’acqua e i succhi, facendo indurire e asciugare la carne. Paradossalmente cuocendo male la carne in ambiente acquoso si corre il rischio di ottenere della carne asciutta. Compito del cuoco è bilanciare i due effetti: cuocere la carne ammorbidendola, sciogliendo il tessuto connettivo, ma senza indurire troppo le fibre muscolari. É per questo motivo che questi piatti vanno cucinati a “fuoco basso”, serve giusto la temperatura per sciogliere il collagene. Quindi non fate bollire mai l’acqua, ma lasciatela sobbollire dolcemente mettendo cioè il fuoco al minimo. Dovreste vedere solo qualche bollicina ogni tanto che raggiunge la superficie. Ancora meglio se vi procurate un termometro.


    Dario Bressanini

    p.s. In alcune zone d’Italia il termine “Cappello del prete” identifica un salume e non un taglio di carne bovina.

  6. #45
    Sedobren Gocce
    Ospite

    Predefinito Le ricette scientifiche: il maiale alla birra

    Abbiamo parlato spesso di come cucinare correttamente la carne di manzo, sia per preparare succulente bistecche che per gustosi spezzatini. Abbiamo indagato i misteri del suo colore e le reazioni chimiche che si svolgono in padella durante la cottura.
    In periodi di crisi economica come questo è bene ricordarsi che esistono altri tipi di carne oltre al manzo (e ovviamente non sto parlando del vitello ) solitamente più a buon mercato. Ad esempio il maiale.
    Generalmente utilizzato per produrre salumi, questo animale offre anche dei tagli da cucinare in padella o al forno. Lonza, stinco, braciole e filetto sono i tagli che più comunemente si trovano al supermercato o dal macellaio. Ho acquistato d’impulso a 9.9 euro al chilo ( sono spesso impulsivo quando faccio la spesa) un filetto di maiale. Avendo anche acquistato due bottiglie di birra, ho deciso di utilizzare entrambi gli ingredienti per un piatto.



    Schema tratto da Gran Suino Padano
    Come al solito vi ricordo che le ricette che vi presento non hanno nessuna pretesa culinaria. Mi servono solo per illustrare la scienza coinvolta. Che cosa dobbiamo sapere dunque dal punto di vista scientifico per cucinare il maiale?
    La cosa più importante da sapere, esattamente come per il manzo, è la temperatura che la carne di maiale deve raggiungere internamente. Solo che a differenza di quando cuciniamo il manzo, trattando di maiale è opportuno fare delle considerazioni sanitarie.


    La trichinellosi

    Consumando carne di maiale cruda o poco cotta si corre il rischio di contrarre la trichinellosi (in passato chiamata trichinosi). Questa malattia infettiva è causata da un parassita che si localizza inizialmente nell’intestino per poi trasferirsi nei muscoli. L’uomo la può contrarre esclusivamente per via alimentare, attraverso il consumo di carne cruda o poco cotta che contiene le larve di questo parassita. In Italia il veicolo di trasmissione è tipicamente la carne di maiale o di cinghiale.
    In Sardegna, ad esempio, nel 2005 sette persone hanno contratto questa malattia mangiando salsiccie preparate da un animale allevato allo stato brado e macellato clandestinamente.
    Cosa possiamo fare per proteggerci da questo parassita? Un articolo pubblicato sulla “Settimana Veterinaria” ce lo illustra:
    Salagione, affumicatura, conservazione sott’olio o sotto strutto sono inefficaci a devitalizzare il parassita. Il congelamento (-30 °C) uccide il parassita solo se la bassa temperatura raggiunge il cuore del prodotto carneo per almeno una settimana.
    La cottura a 65 °C nel cuore del prodotto, per almeno un minuto, uccide il parassita.
    L’unione europea ha valutato i pericoli relativi alla trichinellosi e ha deciso di focalizzare i controlli sugli animali effettivamente a rischio quali sono i suini provenienti da piccoli allevamenti o da allevamenti “biologici”, oltre che i cavalli e la selvaggina. Al contrario, ha deciso di “allentare” la pressione dei controlli sugli animali provenienti dagli allevamenti industriali dove esiste un rigoroso controllo veterinario.
    Quindi, se non vogliamo correre rischi, il nostro filetto di maiale dovremo cuocerlo almeno a 65 °C. A questa temperatura infatti le larve vengono inattivate o distrutte.
    La USDA americana ha un approccio ancora più cautelativo e raccomanda di cuocere la carne di maiale a 71 °C. Gli americani sono spesso più cautelativi degli europei per quel che riguarda il cibo (forse troppo). Ad esempio, a causa della salmonellosi, considerano le uova quasi come delle “bombe biologiche”, da trattare con i guanti di lattice
    Questo dal punto di vista sanitario. E quello gastronomico? A 65 °C la carne di maiale è ancora rosa e succosa mentre a 70 °C ha perso molti liquidi e può essere ancora leggermente rosata, ma non è ancora completamente asciutta come capita alla carne di maiale troppo cotta. Il filetto di maiale è un taglio estremamente povero di grassi quindi se lo cuociamo a temperature molto superiori ai 70 °C lo rendiamo asciutto e ben poco appetibile. E’ per questo che molte ricette di maiale prevedono il taglio del pezzo, dopo la cottura, e la successiva reidratazione delle fette con una salsa o un fondo di cottura.
    Io personalmente non apprezzo il maiale “rosato”, e quindi lo cucino a circa 70 °C.




    Gli ingredienti:

    • un filetto di maiale
    • una cipolla
    • una bottiglia di birra
    • semi di cumino




    La marinatura

    La carne di maiale, a differenza di quella di manzo, ha spesso bisogno di un aiuto per poter far avvenire la reazione di Maillard in modo efficace. Per questo motivo molte ricette che utilizzano la carne di maiale prevedono una marinatura iniziale in un liquido aromatico contenente un acido e degli zuccheri.
    La componente acida ammorbidisce la superficie del pezzo di carne immerso nella marinata. Questa azione ammorbidente è più utile per carni più dure di quella di un maiale di allevamento, ad esempio per del cinghiale selvatico o altra selvaggina.
    Gli zuccheri della marinata invece, oltre a modificare il sapore, possono partecipare alla reazione di Maillard combinandosi ad alte temperature con le proteine della carne producendo moltissime sostanze chimiche saporite e gustose. E’ per questo motivo che mariniamo la carne di maiale, oltre a sfruttare l’effetto aromatizzante.
    In questa ricetta ho scelto di utilizzare la birra come liquido per la marinatura. Contiene infatti sia acidi che zuccheri. Ho anche aggiunto alla marinata dei semi di cumino per aromatizzare ulteriormente, anche se la mia famiglia non lo ha apprezzato molto. La prossima volta provo con dei semi di finocchio.
    Poiché l’effetto della marinatura è per lo più superficiale non è necessario tenere la carne a lungo immersa nel liquido.
    E’ buona norma tenere la carne in frigorifero durante la marinatura per limitare eventuali proliferazioni batteriche.
    Ho messo il filetto in un sacchetto con chiusura a zip e l’ho coperto di birra e aggiunto un cucchiaino di semi di cumino. Marinare in un sacchetto di plastica permette di utilizzare solo il liquido necessario.





    Ho marinato il filetto per un’ora, mentre preparavo delle patate arrosto e facevo rosolare una cipolla tagliata fine. Tolto il filetto dal sacchetto l’ho sgocciolato ben bene.
    Il filetto spesso ha una delle due estremità più assottigliata. Questo significa che durante la cottura la temperatura interna nelle varie zone sarà diversa, correndo il rischio di avere una parte del filetto stracotta quando il resto è ancora crudo. Per evitare questo è preferibile legare il pezzo di carne, ripiegando su se stessa l’estremità in modo tale da avere, approssimativamente, un cilindro.





    Ho fatto rosolare il filetto con un po’ di olio. Potete vedere la brunitura esterna, risultato della reazione di Maillard.





    Aggiungo ora la cipolla parzialmente rosolata prima e la birra rimanente (circa 400 ml).


    Giriamo ogni tanto il filetto.



    Teniamo controllata la temperatura, ogni tanto infilando il termometro al cuore. Quando avrà raggiunto i 68-69 °C possiamo toglierlo dalla pentola e metterlo su un tagliere. La temperatura interna continuerà a salire ancora per un po’, raggiungendo i 70-71 °C. Questo succede perché le parti esterne, a temperatura più alta, continuano a trasmettere calore verso l’interno.





    Mentre aspettate che la carne si raffreddi un poco per poterla affettare, passate la cipolla nella pentola al fine di preparare una salsina.


    Affettate





    Vedete come la carne sia ancora parzialmente rosata e umida.
    Servite ricoprendo della salsina che avete ottenuto dal fondo di cottura.


    Alla prossima
    Dario Bressanini

    Bibliografia
    Trichinellosi, un problema irrisolto, La settimana veterinaria
    Trichinella: Istituto Superiore di Sanità

  7. #46
    Sedobren Gocce
    Ospite

    Predefinito Le difficoltà del pane biologico

    Come vi ho raccontato in un articolo precedente, ho cominciato a fare degli esperimenti di panificazione. E come ogni buon pasticcione casalingo che si rispetti, ho iniziato a cercare informazioni in vari siti web, italiani e stranieri. Stavo leggendo per curiosità il sito americano “The Artisan”, di panificatori appassionati di pane italiano, e mi sono sorpreso di leggere questa frase sulla qualità della farina biologica
    “La farina biologica non produce necessariamente un pane migliore. Addirittura potrebbe essere difficile trovare una farina biologica per panificare che soddisfi in modo consistente le richieste qualitative del panificatore”
    Incuriosito, mi sono messo a cercare nella letteratura tecnica per capire se questo fosse vero o meno. Ora vi racconto quello che ho trovato.

    Forza e carenza di azoto


    Nei paesi occidentali negli ultimi anni è cresciuto l’interesse, e la propensione al consumo, per i vegetali coltivati in maniera biologica, soprattutto perché spesso l’immaginario collettivo li percepisce come “più sani”. Nel 2006 in Italia sono stati dedicati a colture biologiche più di un milione di ettari, e precisamente 1.148.162 ettari. Nonostante le rese siano mediamente inferiori rispetto alle stesse colture coltivate in maniera convenzionale, il prezzo maggiore che una fetta di consumatori è disposta a pagare e i finanziamenti elargiti dalla UE e da altri enti pubblici fanno si che gli agricoltori guardino con interesse a questo metodo di coltivazione. Noi italiani siamo dei grandi consumatori di pasta, pane e riso, non stupisce quindi che sul ventuno per cento della superficie agricola italiana dedicata a colture biologiche si coltivino cereali, e precisamente 117.686 ettari a grano duro, 32.834 a orzo, 24.578 ad avena, 20.599 a grano tenero, 13.670 a riso, 13155 a mais e 1315 a segale.
    Da tempo gli scienziati di tutto il mondo hanno iniziato a studiare in che modo questo metodo di coltivazione influenza le proprietà dei vari prodotti agricoli, e in particolare di quelli, come il grano, che devono subire una lunga serie di trasformazioni tecnologiche e lavorazioni prima di finire sul nostro piatto. Vari articoli apparsi negli ultimi anni hanno messo in evidenza come le condizioni di crescita con minori quantità di azoto messe a disposizione dalla concimazione biologica si riflettano in modo significativo nella crescita e nel metabolismo del frumento e quindi nelle percentuali relative dei suoi componenti nutritivi.
    Un recente studio effettuato da ricercatori dell’INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) ha messo a confronto sei varietà di frumento tenero coltivandole sia in modo convenzionale sia in modo biologico. L’analisi chimica ha mostrato come il contenuto di minerali non sia collegato al metodo di coltivazione prescelto e neppure il contenuto di un enzima, l’α-amilasi, importante nella panificazione. Il contenuto di proteine invece dipende direttamente dalla quantità di azoto fornito dal terreno: tutte e sei le varietà di grano coltivato a biologico hanno mostrato percentuali inferiori di proteine, in particolare di gliadine e di glutenine: le proteine che formano il glutine. Questo ha delle conseguenze importanti sulla qualità della farina diretta alla panificazione: la farina biologica ha un minor contenuto di glutine, assorbe meno acqua ed è, come dicono in gergo i panificatori, “più debole”, perché costruisce un reticolo meno sviluppato di una farina ottenuta da un grano coltivato con fertilizzanti chimici. Ha quindi un W inferiore (vi ricordare l’articolo sulla forza della farina?)



    Il grafico che vedete, tratto da un articolo citato in bibliografia, riporta visivamente l’influenza sulla forza della farina del tipo di coltivazione. Vedete come le farine biologiche prese in considerazione dagli autori abbiano un contenuto proteico inferiore alle farine da grano convenzionale, e una forza mediamente più bassa, anche se mediamente sufficiente per la panificazione.
    I ricercatori dell’INRAN per verificare direttamente l’influenza della qualità della farina hanno confezionato del pane e verificato che il pane biologico ha un volume minore, risultando più denso di quello convenzionale. Le loro conclusioni confermano studi analoghi effettuati da altri studiosi, sia in Italia che all’estero. Ad esempio ricercatori dell’Università di Pisa hanno trovato come il grano biologico abbia una resa per ettaro del 50 per cento inferiore, e un contenuto di proteine minore del venti per cento. Il pane prodotto è stato sottoposto ad un panel di assaggiatori che ha riscontrato differenze giudicando il pane biologico più aromatico ma anche più duro.
    Gli assaggiatori dovevano classificare il pane usanto una scala qualitativa: eccellente, buono, accettabile, scadente. La cosa curiosa di questo studio organolettico è che mentre il pane convenzionale ha registrato dei giudizi abbastanza concordanti (il 60% lo definisce buono e il 40% accettabile) il pane biologico invece mostra una variabilità molto maggiore nei giudizi (il 19% lo classifica eccellente, il 55% buono, il 16% accettabile e il 10% scadente).
    Anche uno studio canadese del 2007 ha trovato una differenza di volume nel pane, che potete vedere qui sotto



    e conclude
    “Uno studio della Soil Association [nota di D.B. l’associazione per l’agricoltura biologica britannica] riporta che il cibo biologico “ha un sapore migliore” del cibo convenzionale. Poichè noi non abbiamo riscontrato differenze nell’intensità di nessuno degli attributi aromatici e gustativi, non possiamo confermare che il pane biologico sia più gustoso o che possa essere interpretato come di qualità superiore. I risultati di questa ricerca rivelano che le differenze nel profilo gustativo del pane biologico e convenzionale sono limitate solamente alle caratteristiche di consistenza”
    E aggiunge
    “le differenze percepite dai consumatori tra pane biologico e convenzionale possono essere influenzate da fattori non sensoriali come il contesto della presentazione o le caratteristiche del consumatore”.
    Cosa significa? Lo vediamo fra un attimo. Prima vediamo l’effetto della macinazione.

    Macinato a pietra? No no no….


    Come se non bastasse il minore contenuto di azoto, a quanto pare c’è un altro fattore che rema contro l’uso della farina biologica: la tecnica di molitura. In un molino moderno il chicco viene sottoposto all’azione, in una specie di laminatoio, di vari cilindri di macinazione consecutivi che gradualmente riducono la dimensione dell’endosperma alla grandezza desiderata. Il prodotto finale è solitamente ottenuto miscelando frazioni di farina con granuli di dimensione diversa. La granulometria è importante anche perchè influisce sulle particelle di amido e su come queste vengono danneggiate durante la macinazione. Più amido danneggiato significa maggiore capacità della farina di assorbire acqua. Secondo uno studio di un gruppo di scienziati svedesi del 2004 le vecchie macine a pietra invece, che spesso nell’immaginario popolare riportano ai bei tempi andati e alla “farina genuina” portano ad una farina meno capace di assorbire acqua, e con una diversa distribuzione granulometrica che influenza le caratteristiche del pane
    “i campioni di pane ottenuto con una farina macinata a cilindri erano generalmente caratterizzati da una intensità superiore di aroma di grano, dolcezza, succosità e una consistenza più compatta rispetto al pane prodotto con farina macinata a pietra”
    Lo studio ha considerato del pane ottenuto con farina integrale. Il tipo di macinazione del grano influiva, sul gusto, più dell’origine, biologica o convenzionale, del grano. Questo significa, visto che lo studio non è certo esaustivo e si è limitato a considerare poche varieta di grano, che usando una farina di questo tipo quanto meno si deve riformulare una ricetta per venire incontro alle diverse caratteristiche della farina macinata a pietra.

    Mangio pane biologico perché…


    Siamo di fronte ad un apparente paradosso: nonostante la qualità inferiore media della farina il pane biologico viene prodotto, acquistato e apprezzato regolarmente. Come mai? Il fatto è che l’apprezzamento di un cibo non dipende solamente dalle sue proprieta sensoriali oggettive. La percezione della qualità di un alimento dipende anche dall’idea che il consumatore ha di quell’alimento e delle sue aspettative.
    Negli ultimi anni sono apparsi vari studi che indagano il perché molti consumatori acquistino cibo biologico e come l’ideologia e il proprio sistema di valori influenzino il modo in cui apprezziamo il cibo.
    Uno studio svedese del 2005 ha indagato proprio sul pane biologico e sul ruolo che le informazioni hanno nell’apprezzamento gustativo del pane, in particolare per chi compra cibi biologici, perché
    “alcuni acquirenti di cibi biologici hanno una speciale ideologia connessa ad un particolare sistema di valori che influenza il comportamento”
    “Scopo dello studio era di stabilire come l’apprezzamento delle qualità sensoriali del pane sono influenzate da informazioni riguardanti temi con possibili connotazioni affettive”
    Questi studiosi hanno preparato quattro tipi di pane: simili ma con delle differenze significative in modo tale che fosse facile per gli assaggiatori stabilire una scala di preferenze. Le quattro farine utilizzate erano 1) grano convenzionale 2) grano biologico 3) grano convenzionale + amaranto 4) grano biologico + amaranto
    Sono stati sottoposti al test 480 svedesi durante la loro spesa al supermercato. Scopo del test non era stabilire se preferissero il pane biologico o quello convenzionale, ma come le loro preferenze fossero influenzate dalle informazioni ricevute.
    Ai partecipanti venivano sottoposti i quattro pani e per ogni tipo venita dato un foglio con una frase del tipo “Quanto ti piace questo pane fatto con farina biologica, che riduce il colesterolo e contiene amaranto?” oppure “Quanto ti piace questo pane fatto con farina convenzionale?”. Dopo aver letto la frase il consumatore assaggiava il pane e dava il suo giudizio tracciando una linea su un foglio: più lunga la linea più il pane gli piaceva. Le informazioni che ho scritto in corsivo potevano cambiare o essere assenti, e riguardavano l’origine della farina, presunte proprietà salutistiche e la presenza o meno del cereale amaranto, scelto perché probabilmente sconosciuto ai più, con l’idea di capire come avrebbero reagito i consumatori ad un ingrediente sconosciuto.
    I foglietti letti dai partecipanti non necessariamente corrispondevano al pane assaggiato: il testo poteva affermare che il pane era convenzionale anche se preparato con farina biologica o viceversa. Questo perché lo scopo dello studio era capire come le convinzioni cambino il gusto percepito.
    Veniva poi sottoposto un questionario contenente domande come “quanto spesso mangi cibo biologico?” , “sei preoccupato per i residui di pesticidi nei cibi?” e altro, per raccogliere informazioni sull’assaggiatore e correlarle alle sue risposte.
    La scoperta interessante è che l’informazione sull’origine della farina cambia significativamente le preferenze delle persone che comperano cibo biologico. In particolare i dati
    “mostrano una chiara tendenza verso l’aumento della preferenza quando viene citata la provenienza biologica della farina”
    e ancora
    “quei consumatori che mangiano cibo biologico ogni giorno hanno mostrato l’incremento più grande nella preferenza del pane quando è stata citata la provenienza biologica della farina”
    Addirittura, i test mostrano come il miglioramento del punteggio sia maggiore per i campioni meno apprezzati senza l’informazione aggiuntiva. Insomma, se il pane non è oggettivamente molto buono ma la frase letta rafforza le tue convinzioni, allora il tuo cervello “inganna” il senso del gusto e ti fa apprezzare di piú quel pane.
    I consumatori che mangiano cibo biologico tutti i giorni hanno dato 63 punti (su 150) al pane senza informazioni sull’origine, ma il punteggio sale a 82 se viene detto che la farina è di origine biologica. Questo effetto psicologico è molto interessante perché mostra una influenza sulle capacità gustative dovuta all’informazione aggiuntiva ed era già stato osservato in precedenza, ad esempio, sui pomodori, dove l’informazione sulla provenienza biologica dei pomodori influenzava positivamente il giudizio gustativo
    “L’informazione sull’origine biologica della farina ha un effetto positivo sull’apprezzamento gustativo del pane, in particolar modo per i campioni meno apprezzati, e un effetto più grande per i consumatori abituali di cibi biologici rispetto a coloro che non ne consumano”
    Esiste anche una correlazione con le preoccupazioni sulla sicurezza alimentare dei cibi:
    “consumatori che erano preoccupati della sicurezza alimentare dei cibi (residui di pesticidi, etc..), al contrario di quelli che non erano preoccupati, hanno mostrano di apprezzare di più il pane quando veniva affermato che la farina aveva una origine biologica”
    Ricordo che la descrizione letta dall’assaggiatore non necessariamente corrispondeva a verità, per cui le differenze di apprezzamento del pane sono dovute all’informazione (creduta vera) e non a differenze gustative reali.
    Questo può spiegare in parte, a mio avviso, il recente trend verso cibi con l’etichetta biologica e il fatto che la GDO (Grande Distribuzione Organizzata) sia entrata di peso nel settore: il consumatore crede che questi cibi “facciano bene” (che sia vero o meno non ha importanza, l’importante è l’immagine mentale che il consumatore si fa) e quindi mangiandoli gli piacciono anche di più di quello che verrebbero apprezzati se non ci fosse l’informazione sull’origine biologica. Questo permette al venditore di vendere questi prodotti ad un prezzo maggiorato, molto di più di quello che sono i costi aggiuntivi dovuti alla sola coltivazione biologica.
    Gli studiosi volevano anche generare una risposta negativa introducendo un ingrediente sconosciuto ai più: l’amaranto. Contrariamente alle loro aspettative, l’informazione del contenuto o meno di amaranto non ha generato differenze. Diciamo che i consumatori (almeno quelli Svedesi di quei supermercati) non sono così prevenuti rispetto alle novità come invece supponevano gli ideatori del test. Le informazioni sui vantaggi salutistici di riduzione del colesterolo invece influenzano il test, ma meno di quanto faccia l’origine della farina.

    Le biotecnologie e il sistema di valori dell’agricoltura biologica


    I ricercatori dell’INRAN citati prima concludono il loro articolo dicendo
    “Sulla base di questi risultati concludiamo che non è consigliabile utilizzare per l’agricoltura biologica, dove il fertilizzante organico è l’unico possibile, delle cultivar tipiche dell’agricoltura convenzionale, ma forse si dovrebbero usare cultivar selezionate appositamente per l’agricoltura biologica”
    Che fare quindi per aumentare la qualità del glutine del grano biologico? Visto che l’agricoltura biologica esclude il ricorso ai fertilizzanti di sintesi una possibilità è quella di cercare di selezionare delle varietà di frumento che possano sfruttare meglio l’azoto messo a disposizione, utilizzandolo per aumentare le proteine del glutine rispetto ad altre proteine presenti. In questo possono aiutare le biotecnologie. L’agricoltura biologica non permette l’utilizzo di tecnologie transgeniche, quindi si sta cercando di ottenere modifiche genetiche utilizzando tecniche meno controverse, come la selezione assistita da markers molecolari (senza entrare nel dettaglio tecnico, i markers molecolari sono delle sequenze del DNA che indicano la presenza di un particolare gene che codifica una certa caratteristica della pianta in questione). Servono per capire se un dato incrocio ha trasferito o meno il gene che ci interessava.
    La necessità di migliorare la qualità e la varietà di piante a disposizione dell’agricoltura biologica è ben presente nel settore, e vengono dedicati dei convegni appositi. Ad un convegno tutto dedicato a come migliorare geneticamente i cereali utilizzati in agricoltura biologica, per migliorarne la qualità, dei ricercatori dell’INRA, un prestigioso istituto di ricerca francese, fanno proprio il punto della situazione per quel che riguarda l’uso di questi nuovi metodi selettivi biotecnologici applicati al frumento. E’ molto curioso il commento finale dell’articolo:
    “Non mi è chiaro se questi incroci molto ampi potrebbero essere accettati in agricoltura biologica. Allo stesso modo la maggior parte degli aploidi nel grano sono generati da una impollinazione ampia del mais per indurre la ginogenesi. Poiché aploidi e diploidi permettono una maggiore efficienza nella selezione, particolarmente quando combinati con l’uso di marcatori molecolari, spero che questa tecnica non sia esclusa dai selezionatori biologici e biodinamici come succede alla coltura di antere e alla maschiosterilità, tra le altre. Fortunatamente le tecniche a marcatore di DNA sono accettate se gli enzimi sono OGM-free e non viene usata la radioattività, come è il caso dei marcatori descritti in questo articolo, che quindi potranno essere utilizzati nei futuri programmi di selezione genetica per l’agricoltura biologica”
    Lasciate perdere i dettagli tecnici (mi ci vorrebbero due articoli per spiegarli ), il senso della frase mi pare sia “ci sono delle tecniche per fare incroci con piante geneticamente distanti che sarebbero utili all’agricoltura biologica, magari dei parenti selvatici di grano, ma tecnicamente appartenenti ad un’altra specie. Non mi è chiaro se l’agricoltura biologica permetterà l’utilizzo di queste tecniche o se le vieterà come gia’ succede per altre tecniche. Speriamo di no. Fortunatamente i marcatori, da soli, sono ammessi”
    Devo dire che trovo tremendamente ironico il fatto che l’agricoltura biologica chieda aiuto alle biotecnologie per migliorare la qualità dei propri prodotti, ma poi queste tecniche rischino di non essere utilizzate perché rigettate “per principio” dall’ “ideologia biologica”. Dal loro punto di vista infatti, certi modi di incrociare specie diverse (anche se non utilizzano tecniche transgeniche) sono ideologicamente inaccettabili.
    Se volete avere un’idea più chiara della “filosofia” che sta alla base dell’agricoltura biologica e dei problemi che questo presenta quando si vogliono applicare le biotecnologie vi consiglio la lettura di alcuni articoli del convegno sul miglioramento genetico dei cereali che ho citato prima (e messo in bibliografia)
    Queta frase è emblematica:
    “Uno può essere contro gli OGM in linea di principio, anche se i rischi possono essere controllabili in pratica. Sarà difficile per l’IFOAM (International Federation of Organic Agriculture Movements) provare scientificamente che gli ogm in generale causano “rischi inaccettabili alla salute umana” o un “impatto irreversibile all’ambiente””
    È chiaro che con questi presupposti la rotta di collisione tra le biotecnologie e la “filosofia biologica” è inevitabile. E voi lettori sapete che io, da buon “riduzionista estremo e razionalista militante” (nonchè “scienziato scientista” ) , non posso accettare una posizione “a priori” contraria alle biotecnologie. Questa posizione a mio avviso ha qualche analogia con l’opposizione all’uso delle cellule staminali, ad esempio. Ha un non so che di “religioso”
    Ancora
    “Sulla base del rispetto dei valori della naturalità l’ingegneria genetica potrebbe essere rigettata per essere “innaturale” poichè disturba l’armonia e l’equilibrio del tutto, poichè i costrutti del DNA utilizzati non sono sostanze naturali, non stimolano processi autoregolatori, e oltrepassando le barriere delle specie, non rispettano il modo caratteristico di essere, la “natura”, degli organismi viventi. L’ingegneria genetica è basata su un modo di pensare meccanicistico della vita, non un modo olistico”
    Io sono un feroce riduzionista e ovviamente rifiuto in toto questa visione.
    È chiaro quindi che se si adotta questa “filosofia/religione/ideologia/sistema-di-valori” anche altre tecnologie corrono il rischio di essere rifiutate. Ad esempio c’è chi pensa che anche l’uso degli ibridi sia contrario ad uno dei principi fondanti dell’agricoltura biologica (chiamato il principio di integrità). E c’è anche chi pensa che neanche la selezione assistita da marker sia da utilizzare in agricoltura biologica:
    L’agricoltura biologica può attribuire il suo successo, in larga parte, alla sua immagine di “metodo naturale” per la produzione di vegetali e cereali. La sua “visione olistica” dell’agricoltura e il suo ecosistema cotruito dall’uomo la rende diversa dall’agricoltura industriale/chimica che predica una visione riduzionistica. L’agricoltura biologica si è già posizionata contro lo sviluppo biotecnologico come ad esempio la modificazione genetica. I consumatori hanno apprezzato questo messaggio chiaro. L’introduzione di una tecnologia che torni a focalizzarsi solo sui geni e sul DNA potrebbe confondere i consumatori e suggerire che l’agricoltura biologica si sia convertita ad una visione tecnologica. Il pieno potenziale della selezione assistita dai marcatori (MAS) è associata alla coltura di tessuti come la coltura di antere, di polline e alla fusione di protoplasma (nota di D.B: tutte tecniche per ottenere piante con geni provenienti da organismi geneticamente distanti). L’agricoltura biologica non può danneggiare la sua immagine “naturale”, cosa che è facile accada una volta che più tecniche molecolari verranno introdotte nei programmi di selezione.
    Sperando di non avervi annoiato troppo con questo lunghissimo articolo vi saluto. Alla prossima


    Una versione molto piu’ breve di questo articolo e’ apparsa sul numero di Marzo 2009 di Le Scienze.


    Dario Bressanini


    Riferimenti bibliografici


    Influence of growing conditions on the technological performance of bread wheat (Triticum aestivum L.) Marina Carcea, Simona Salvatorelli, Valeria Turfani and Francesco Mellara
    International Journal of Food Science & Technology, Volume 41 Issue s2, Pages 102 - 107


    Use of molecular markers to improve wheat quality in organic farming systems, G. Charmet, F-X. Oury, C. Ravel Workshop on Organic Plant Breeding Strategies and the Use of Molecular Markers 2005


    Organic Vs Conventional Winter Wheat Quality and Organoleptic Bread Test, M. Mazzoncini, P. Belloni, R. Risaliti, D. Antichi, 3rd International Congress of the European Integrated Project Quality Low Input Food (QLIF)


    Effects of information on liking of bread, KIHLBERG Iwona; JOHANSSON Lisbeth ; LANGSRUD Øyvind ; RISVIK Einar. Food quality and preference 2005, vol. 16, no1, pp. 25-35


    Confronto fra varietà di frumento tenero, Perenzin M., et al., Bioagricultura n° 108, 2008


    Sensory qualities of whole wheat pan bread—influence of farming system, milling and baking technique. Kihlberg I; Johansson L.; Kohler A.; Risvik E. Journal of Cereal Science, Volume 39, Number 1, January 2004 , pp. 67-84(18)


    Sensory Profiles of Bread Made from Paired Samples of Organic and Conventionally Grown Wheat Grain, L.E. Annett, D. Spaner, W.V. Wismer, Journal of Food Science Volume 72 Issue 4, Pages S254 - S260 (2007)


    Workshop on Organic Plant Breeding Strategies and the Use of Molecular Markers.


    Organic values and the use of marker technology in organic plant breeding, H. Verhoog


    Field selection and marker-assisted breeding, to do or not to do in organic breeding programmes? M. Haring

  8. #47
    Sedobren Gocce
    Ospite

    Predefinito Biowashball, birra e l’esperimento di controllo



    In questi giorni in casa sto investigando sull’affermazione che un cucchiaino inserito nel collo di una bottiglia di birra o Champagne aperta ne previene la perdita di anidride carbonica. Ne parlerò diffusamente in un prossimo articolo, riportando anche i risultati di altri ricercatori che hanno effettuato indagini sul presunto fenomeno (grazie al lettore yopenzo per avermi mandato un articolo al riguardo).
    Mentre aprivo bottiglie di birra ho letto della polemica riguardo ad una palla detergente miracolosa, chiamata Biowashball, di cui parla Beppe Grillo nel suo spettacolo. Secondo i produttori, e secondo Grillo, la pallina permetterebbe di lavare senza detersivi (vendute dalle perfide multinazionali bla bla bla). Paolo Attivissimo nel suo blog Il disinformatico ha smontato il mito di questa palla, così come la rivista Il Salvagente, e la trasmissione Mi manda raitre. Insomma, pare essere una bufala. Grillo non ci sta, grida al complotto, alle perfide multinazionali ecc.


    Cosa c’entra con il cucchiaio nella bottiglia di birra, direte voi? Il fatto è che sempre, prima di cominciare a cercare spiegazioni scientifiche di qualunque fenomeno, si deve essere certi che il fenomeno esista davvero. E’ per questo che sto facendo gli esperimenti. Ma questi vanno fatti con cura: se pensate che basti prendere una bottiglia mezza vuota, inserirgli il cucchiaino, metterla in frigo una notte e il giorno successivo assaggiare la birra per verificarne la frizzantezza residua (sì, scoprirete che è ancora frizzante) vi sbagliate. Questi esperimenti hanno bisogno di un controllo, di un “termine di paragone” diciamo così. Qualcosa con cui confrontarsi. In questo caso è semplicemente una bottiglia identica, con lo stesso livello di birra ma senza il cucchiaino.




    In questo Blog ne abbiamo parlato altre volte: volendo mettere alla prova il mito della sigillatura della carne c’è chi ha fatto gli esperimenti con della carne “di controllo”. Quando ho verificato che il sale non serve per montare gli albumi, ho usato un test di controllo e così via.
    Il “gruppo di controllo” è fondamentale ad esempio quando si deve verificare l’efficacia di un farmaco, ed è una delle critiche giustamente rivolte alle cosiddette “medicine alternative”: la mancanza di test di controllo rigorosi per verificarne la presunta efficacia. Altrimenti, parafrasando Mark Twain, potremmo scoprire che il raffreddore, prendendo il medicamento X, passa in 7 giorni. Se però non lo avessimo preso sarebbe passato in una settimana
    Sembra una cosa ovvia ma non lo è: in troppi usano l’approccio “l’ho provato, e con me funziona”. La verità è che spesso non siamo in grado di dare delle valutazioni oggettive, e quindi abbiamo bisogno di un confronto oggettivo. Nel caso della birra sgasata, senza una bottiglia di controllo, assaggiandola la sentiremmo ancora frizzante, e saremmo tentati di dire “il cucchiaino funziona!”. Ma sbaglieremmo. Un test sensato invece è confrontare le bollicine residue con quelle di una bottiglia lasciata aperta senza cucchiaino.
    Grillo dice “io l’ho provata, per noi funziona“. Questo non è un test rigoroso. Qualcuno, in giro per i blog, ha anche abbozzato un test, ma l’ha effettuato nella maniera sbagliata. Dice qualcuno in un commento di un blog
    La prima volta che ho usato la palla lo usata su un bucato “estremo”: le calze bianche di mia figlia che abitualmente cammina scalza in casa, praticamente nere… solo che una l’ho tenuta fuori, l’altra in lavatrice per poter fare il confronto. Bè ho portato a far vedere il risultato alle amiche perché non ci credevo nemmeno io.
    L’unica cosa che questo test dimostra logicamente è che l’acqua ha un certo potere pulente, cosa d’altra parte ben nota. Mi rincuora però vedere che qualcuno ha almeno avuto l’idea di fare dei controlli.
    Le spiegazioni fornite dalla azienda svizzera sul suo presunto meccanismo di funzionamento sono francamente ridicole. Questo
    Sono i potenti raggi infrarossi emessi dalle ceramiche della Biowashball che disgregano le molecole d’idrogeno dell’acqua per aumentare il movimento molecolare. Questa azione dona all’acqua una grande capacità di penetrazione e aumenta il suo potere lavante.
    come direbbe Fantozzi, è una “boiata chimica pazzesca”. Tuttavia, dal punto di vista puramente logico, il fatto che la spiegazione del presunto funzionamento sia priva di senso non dimostra che la palla non funziona, ma solo che i produttori non conoscono la chimica.
    Solo con un esperimento rigorosamente controllato si può verificare se il fenomeno è reale (cosa di cui dubito fortemente).
    Avete presente quella vecchia pubblicità di un detersivo dove una camicia sporca veniva tagliata in due e sottoposta a due lavaggi con detersivi differenti? Ecco! Più o meno.
    Test che, tra parentesi, un chimico (Fabrizio Zago, grazie a Eleonora e Valeria per avermi indicato il forum) ha effettuato su un prodotto simile: le noci del sapone. Niente. Nada. Nisba. Non funzionano.
    Solo una volta verificata la riproducibilità del fenomeno si può pensare alla sua spiegazione scientifica.
    Non vi aspettate però da me il test sulla biowashball: non ho intenzione di spendere 35 euro, e poi ho già il mio daffare con le birre sgasate. Il primo esperimento di controllo infatti è fallito: mia moglie a metà giornata ha pensato bene di bersi un po’ di birra da una sola delle due bottiglie riposte in frigorifero. Si è bevuta il mio test di controllo . Dura la vita dello sperimentatore


    Alla prossima - Dario Bressanini

  9. #48
    Sedobren Gocce
    Ospite

    Predefinito Ricette letterarie: il risotto di C. E. Gadda



    L’avevo promesso tempo fa ed eccovi il risotto alla milanese secondo Carlo Emilio Gadda. Lo scrittore era sicuramente un buongustaio e i suoi scritti sono ricchi di riferimenti gastronomici e descrizioni culinarie, dai piccioni farciti al croconsuelo (il gorgonzola). Ma l’apice gastronomico gaddiano viene sicuramente raggiunto dal risotto alla milanese. Parleremo in un’altra occasione del risotto dal punto di vista scientifico: non voglio “contaminare” la sua ricetta parlando di amidi e gelificazioni
    Lascio subito la parola a Carlo Emilio Gadda




    L’approntamento di un buon risotto alla milanese domanda riso di qualità, come il tipo Vialone, dal chicco grosso e relativamente più tozzo del chicco tipo Caterina, che ha forma allungata, quasi di fuso. Un riso non interamente « sbramato », cioè non interamente spogliato del pericarpo, incontra il favore degli intendenti piemontesi e lombardi, dei coltivatori diretti, per la loro privata cucina. Il chicco, a guardarlo bene, si palesa qua e là coperto dai residui sbrani d’una pellicola, il pericarpo, come da una lacera veste color noce o color cuoio, ma esilissima: cucinato a regola, dà luogo a risotti eccellenti, nutrienti, ricchi di quelle vitamine che rendono insigni i frumenti teneri, i semi, e le loro bucce velari. Il risotto alla paesana riesce da detti risi particolarmente squisito, ma anche il risotto alla milanese: un po’ più scuro, è vero, dopo l’aurato battesimo dello zafferano.
    Recipiente classico per la cottura del risotto alla milanese è la casseruola rotonda, ma anche ovale, di rame stagnato, con manico di ferro: la vecchia e pesante casseruola di cui da un certo momento in poi non si sono più avute notizie: prezioso arredo della vecchia, della vasta cucina: faceva parte come numero essenziale del « rame » o dei «rami» di cucina, se un vecchio poeta, il Bussano, non ha trascurato di noverarla nei suoi poetici « interni », ove i lucidi rami più d’una volta figurano sull’ammattonato, a captare e a rimandare un raggio del sole che, digerito il pranzo, decade. Rapitoci il vecchio rame, non rimane che aver fede nel sostituto: l’alluminio.
    La casseruola, tenuta al fuoco pel manico o per una presa di feltro con la sinistra mano, riceva degli spicchi o dei minimi pezzi di cipolla tenera, e un quarto di ramaiolo di brodo, preferibilmente di manzo: e burro lodigiano di classe.
    Burro, quantum prodest, udito il numero de’ commensali. Al primo soffriggere di codesto modico apporto, butirroso-cipollino, per piccoli reiterati versamenti, sarà buttato il riso: a poco a poco, fino a raggiungere un totale di due tre pugni a persona, secondo l’appetito prevedibile degli attavolati: né il poco brodo vorrà dare inizio per sé solo a un processo di bollitura del riso: il mestolo (di legno, ora) ci avrà che fare tuttavia: gira e rigira. I chicchi dovranno pertanto rosolarsi e a momenti indurarsi contro il fondo stagnato, ardente, in codesta fase del rituale, mantenendo ognuno la propria « personalità »: non impastarsi e neppure aggrumarsi.
    Burro, quantum sufficit, non più, ve ne prego; non deve far bagna, o intingolo sozzo: deve untare ogni chicco, non annegarlo. Il riso ha da indurarsi, ho detto, sul fondo stagnato. Poi a poco a poco si rigonfia, e cuoce, per l’aggiungervi a mano a mano del brodo, in che vorrete esser cauti, e solerti: aggiungete un po’ per volta del brodo, a principiare da due mezze ramaiolate di quello attinto da una scodella « marginale », che avrete in pronto. In essa sarà stato disciolto lo zafferano in polvere, vivace, incomparabile stimolante del gastrico, venutoci dai pistilli disseccati e poi debitamente macinati del fiore. Per otto persone due cucchiaini da caffè.
    Il brodo zafferanato dovrà aver attinto un color giallo mandarino: talché il risotto, a cottura perfetta, venti-ventidue minuti, abbia a risultare giallo-arancio: per gli stomaci timorati basterà un po’ meno, due cucchiaini rasi, e non colmi: e ne verrà fuori un giallo chiaro canarino. Quel che più importa è adibire al rito un animo timorato degli dei è reverente del reverendo Esculapio o per dir meglio Asclepio, e immettere nel sacro « risotto alla milanese » ingredienti di prima (qualità): il suddetto Vialone con la suddetta veste lacera, il suddetto Lodi (Laus Pompeia), le suddette cipolline; per il brodo, un lesso di manzo con carote-sedani, venuti tutti e tre dalla pianura padana, non un toro pensionato, di animo e di corna balcaniche: per lo zafferano consiglio Carlo Erba Milano in boccette sigillate: si tratterà di dieci dodici, al massimo quindici, lire a persona: mezza sigaretta. Non ingannare gli dei, non obliare Asclepio, non tradire i familiari, né gli ospiti che Giove Xenio protegge, per contendere alla Carlo Erba il suo ragionevole guadagno. No! Per il burro, in mancanza di Lodi potranno sovvenire Melegnano, Casalbuttano, Soresina, Melzo, Casalpusterlengo, tutta la bassa milanese al disotto della zona delle risorgive, dal Ticino all’Adda e insino a Crema e Cremona. Alla margarina dico no! E al burro che ha il sapore delle saponette: no!
    Tra le aggiunte pensabili, anzi consigliate o richieste dagli iperintendenti e ipertecnici, figurano le midolle di osso (di bue) previamente accantonate e delicatamente serbate a tanto impiego in altra marginale scodella. Si sogliono deporre sul riso dopo metà cottura all’incirca: una almeno per ogni commensale: e verranno rimestate e travolte dal mestolo (di legno, ora) con cui si adempia all’ultimo ufficio risottiero. Le midolle conferiscono al risotto, non più che il misuratissimo burro, una sobria untuosità: e assecondano, pare, la funzione ematopoietica delle nostre proprie midolle. Due o più cucchiai di vin rosso e corposo (Piemonte) non discendono da prescrizione obbligativa, ma, chi gli piace, conferiranno alla vivanda quel gusto aromatico che ne accelera e ne favorisce la digestione.
    Il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! solo un po’ più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de’ suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe schifenza. Del parmigiano grattuggiato è appena ammesso, dai buoni risottai; è una banalizzazione della sobrietà e dell’eleganza milanesi. Alle prime acquate di settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo S. Martino, scaglie asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetto-trifole potranno decedere sul piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente remunerato a cose fatte, a festa consunta. Né la soluzione funghi, né la soluzione tartufo, arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile significato del risotto alla milanese.


    C. E. Gadda


    Gli appassionati di Gadda possono trovare un altro scritto di Gadda nell’archivio de Il Gatto Selvatico, rivista aziendale dell’ENI: “Una fornitura importante


    Litigate pure se sia meglio, come usa Gadda, usare il Vialone nano piuttosto che il Carnaroli, ma se osate confessare che il risotto alla milanese lo fate con l’olio di oliva extravergine vi bacchetto . Burro, burro e ancora burro: quantum prodest e quantum sufficit.
    Dario Bressanini
    p.s. ovviamente qui niente margarina, ma lo dice anche Gadda

    Bibliografia




  10. #49
    Sedobren Gocce
    Ospite

    Freccia Per un cucchiaio di zucchero

    Grezzo, raffinato o una via di mezzo? Quando dobbiamo decidere quale zucchero usare per un caffè o un dolce siamo certi di fare la scelta giusta?

    Confessatelo: quando la mattina al bar prendete il cappuccino o il caffè e volete aggiungere dello zucchero esistate: "Prendo la bustina con quello bianco o con quello bruno? Si dice che quello di canna sia meglio...".

    Il saccarosio, lo zucchero da tavola, si ottiene sia dalla canna da zucchero sia dalla barbabietola da zucchero. La molecola estratta è la stessa, diversi però sono i residui che, prima della raffinazione finale, sono ancora presenti nel prodotto grezzo e che alla fine rimangono nella melassa. I residui della barbabietola non sono molto gradevoli, e il saccarosio viene purificato. Quelli presenti nella canna da zucchero invece sono apprezzabili al palato.

    Lo zucchero di canna quindi può subire vari gradi di raffinazione e portare a prodotti leggermente diversi. Quello in bustine che troviamo al bar è del tipo denominato "demerara", e ha una percentuale molto alta di saccarosio cristallino: 98 - 99%. Dal punto di vista calorico è praticamente identico al normale zucchero bianco, dal quale a volte viene addirittura prodotto, aggiungendo a posteriori una piccola percentuale di melassa per colorarlo. Lo si fa per controllare meglio la dimensione dei cristalli. Fermandosi a uno stadio iniziale della raffinazione si ottiene lo zucchero del tipo "muscovado", più scuro e contenente circa il 95% di zuccheri. Se non lo trovate al supermercato provate a cercarlo nel circuito dei prodotti equi e solidali.

    A volte si legge che lo zucchero di canna non raffinato sarebbe ricco di minerali per cui bisognerebbe preferirlo a quello raffinato. In realtà le differenze nutrizionali sono assolutamente trascurabili. Per esempio 100 g di zucchero grezzo contengono circa 130 mg di potassio, praticamenta assente nello zucchero bianco. Tuttavia la dose giornaliera suggerita (RDA, da recommended daily intake) di potassio è di 3500 mg. Ciò significa che per raggiungere la dose suggerita, mangiando zucchero grezzo, dovreste mangiarne più di due kg!

    D'altra parte 100 g di banana contengono 358 mg di potassio. Per assumere la stessa dose con lo zucchero grezzo dovremmo mangiarne 270 g di zucchero, sufficienti a zuccherare almeno un centinaio di caffè. La situazione non cambia se analizziamo altri minerali: a fronte degli 83 mg di calcio contenuti in 100 g di zucchero grezzo la dose giornaliera suggerita è di 1000. Per raggiungerla dovreste mangiare 1,2 kg di zucchero di canna. Se invece mangiate un etto di parmigiano assumete già più della dose suggerita, mentre un etto di mozzarella ne contiene mezzo grammo.

    Anche analizzando la presenza di altri minerali, vitamine o nutrienti si conclude che la superiorità nutrizionale dello zucchero non raffinato è solo un mito. Dal punto di vista culinario invece possono esserci motivi per preferirlo. Innanzitutto lo zucchero integrale ha retrogusto e aroma differente, dovuto alla presenza della melassa. Quel gusto leggero simile alla liquirizia può dare un tocco particolare ai vostri dolci. Le differenze più importanti tuttavia si osservano quando lo zucchero bruno sostituisce quello bianco nei biscotti o nelle torte.

    La melassa contiene altri zuccheri oltre al saccarosio, in particolare glucosio e fruttosio. Questo rende lo zucchero bruno ancora più igroscopico: assorbe cioè più acqua, mantenendo più umide le torte. Allo stesso tempo biscotti che con lo zucchero raffinato sarebbero friabili e rigidi diventano morbidi e leggermente gommosi usando lo zucchero integrale. In più quest'ultimo è leggemente acido, e quindi è opportuno tenerne conto nel caso la ricetta preveda un bilanciamento tra sostanze acide e sostanze alcaline ai fini di una corretta lievitazione, soprattutto se si usa lievito chimico.

    Dario Bressanini

  11. #50
    Sedobren Gocce
    Ospite

    Predefinito

    L'absinthe, in italiano assenzio, fà parte delle mode che caratterizzarono la fine dell'Ottocento; già noto dal medioevo, la diffusione era iniziata verso il 1830 quando iniziò il trionfante ritorno in patria delle truppe francesi che avevano conquistato l'Algeria. Si vociferava che l'assenzio diluito in acqua, li aveva preservati dal tifo, dal colera, dalla dissenteria e perfino dalla malaria. In Francia la strana bevanda dall'amaro gusto di anice diventò rapidamente una moda, quasi un rito sociale. La chiamavano Le péril vert, il pericolo verde, o anche La fée verte, la fata verde, con riferimento al colore della bevanda e all'atmosfera "magica" in cui si perdevano le persone che lo consumavano. L'assenzio è un liquore ad alta gradazione alcolica 68º, che si presenta in colore verde smeraldo o verde chiaro ottenuto dalla Artemisia Absinthium, una pianta spontanea che cresce in gran parte dell’Europa e particolarmente in Italia, dove è nota anche come "artemisia maggiore o romana". Le proprietà officinali di questa pianta erano conosciute fino all’antichità, infatti è citato in un papiro egiziano risalente al 1600 a.C. ; alcuni racconti si trovano addirittura nelle sacre scritture, e secondo Plinio e Plutarco fu utilizzato nel 150 a.C. anche come insetticida per i campi. Lucrezio scrisse dei canti su questa bevanda; in una raccolta tedesca di erbe medicamentose di età rinascimentale (Eicones plantarum) è consigliato alle persone di "cattivo carattere". Tuttavia è talmente amaro che nelle Sacre Scritture simboleggia i dolori della vita, tanto che si usava dire di qualcosa "è amaro come l'assenzio".

    Verso la fine del diciannovesimo secolo, in Francia, l'Absinthe divenne una bevanda in gran voga e raggiunse l'apice del successo: il suo uso accomunava il ricco borghese, l'artista e il proletario; il suo alto gradimento tra il popolo ne fece la bevanda più consumata, a discapito delle aziende vinicole che persero grandi percentuali di vendita.
    L'Absinthe, infatti, poteva costituire un'economica alternativa per sbronzarsi, ed altre aziende (oltre alla Pernod di Pontarlier) iniziarono a produrre il loro Absinthe con componenti a bassissimo costo per battere la concorrenza con il prezzo più basso a discapito della qualità. Infatti, questi prodotti erano adulterati e molto pericolosi per la salute del consumatore, giacché diversi produttori non esitavano a mescolare nel loro Absinthe il solfato di rame per conferirgli un colore più accattivante, e spesso veniva utilizzato alcol di grano al posto di quello ottenuto dalla fermentazione dell'uva.
    Questi piccoli produttori vendevano molto per l'economicità dei loro prodotti, mentre la Pernod-Fils che produceva un assenzio di ottima qualità era essenzialmente rivolto ad una clientela di gente benestante, la minoranza della popolazione francese.
    Non ci volle molto perché questo aperitivo dal gusto di anice si diffondesse in tutta Europa e successivamente anche negli Stati Uniti.
    L'assenzio fu l'ispirazione del modo di vivere bohemiènne ed era la bevanda preferita di artisti famosi come ad esempio Vincent Van Gogh, Toulouse Lautrec ed Ernest Hemingway, che dichiarò di amare l'assenzio per i suoi effetti di far cambiare le idee. Essendo una bevanda che è sempre stata rinomata per la sua potenza, i gentiluomini di cattiva reputazione al Moulin Rouge erano famosi per servirsi dell'assenzio per convincere le signore a condividere le loro idee.
    Oscar Wilde, riferendosi ai bicchieri bevuti con acqua e zucchero (non a quello non diluito che ha un sapore amarissimo), scriveva:
    "Un bicchiere d'assenzio, non c'è niente di più poetico al mondo. Che differenza c'è tra un bicchiere di assenzio e un tramonto? Il primo stadio è quello del bevitore normale, il secondo quello in cui cominciate a vedere cose mostruose e crudeli ma, se perseverate, arriverete al terzo livello, quello in cui vedete le cose che volete, cose strane e meravigliose".

    Verso gli inizi del ventesimo secolo già si vociferava che l'assenzio avesse delle proprietà non del tutto controllate: il suo abuso, nonché la assuefazione che dava ai suoi consumatori iniziò a far sospettare che fosse una sorta di droga (ancóra oggi, qualcuno crede che sia un liquore contenente oppio).

    D'altra parte, i suoi effetti sono del tutto particolari: il moderato bevitore di vino tende all'allegria, alla socializzazione, il bevitore di birra ha una ubriacatura più profonda; il bevitore di assenzio è invece perso nelle sue fantasticherie, la sua creatività aumenta ed anche per questo divenne la bevanda preferita fra gli artisti.
    Lo scrittore Émile Zola (Parigi 1840-1902) ne descrisse gli effetti devastanti sulle classi sociali più umili e la piaga sociale che ne derivava:

    "Finisce sempre con uomini ubriachi e ragazze incinte".

    Il poeta Ernest Dowson, morto a 33 anni a causa dell'alcolismo, in una lettera scritta ad un suo amico commentava l'assenzio:

    «In realtà è un errore invaghirsi dell'assenzio. Come alcol robusto, è inferiore al nostro vecchio scotch. Io stamattina mi sono svegliato con i nervi a fior di pelle e un alito pestilenziale. Capisco che l'assenzio aumenta l'acidità [absinthe makes the tart grow fonder]. È estremamente nocivo per la pelle. Non ho mai avuto un aspetto così vizioso come questa mattina»

    A fronte di questo enorme successo, il declino dell'assenzio fu altrettanto rapido: scomparve da tutti i mercati d'Europa e d’oltre oceano in poco più di un decennio.
    Le ragioni di questo oblìo sono essenzialmente riconducibili a tre: innanzitutto il forte movimento che si batteva contro l'alcolismo e che attraversò tutta l'Europa nei primi anni del Novecento; poi gli studi scientifici che individuavano il tujone quale neurotossina responsabile di provocare convulsioni e morte negli animali da laboratorio; infine, la pressione esercitata dai produttori di vino francesi preoccupati dalla crescente popolarità dell'assenzio.

    Nel 1905, a queste cause, il 28 agosto si aggiunse un fatto di cronaca che fece grande scalpore: in un cantone svizzero, un contadino di 31 anni dopo aver abusato di alcol in grande quantità, tra cui due bicchieri di assenzio, tornò a casa ed uccise a colpi di fucile la moglie e le due bambine. Proprio ai 2 bicchieri di Assenzio, sospettato di proprietà allucinogene, venne dato grande risalto. Così, questa efferata follia diffuse il terrore nel cantone svizzero, nel quale la gente vide materializzarsi l'incubo che in realtà l'assenzio non fosse una Fata Verde, ma un veleno verde.

    Nel 1907, la Ligue National Contre L’Alcoolisme (Lega Nazionale contro l'Alcolismo) francese iniziò una campagna contro il consumo di alcol in generale, ma con l'obiettivo principale della proibizione dell'assenzio (dopo i fatti di cronaca del 1905), che schernivano come la causa di un delirio allucinogeno che avrebbe portato ad une correspondance pour Charenton (un biglietto per Charenton, il manicomio alla periferia di Parigi). In tutta la Francia, spuntò una campagna a base di cartelloni: alcuni promuovevano l'assenzio, altri ne mettevano in guardia dai suoi mali e nel 1915 venne soddisfatto il desiderio dei nemici dell'assenzio. Con la guerra mondiale l'absinthe precipitò lentamente nell'oblio.

    Nel 1998, Radomir Hill nella Repubblica Ceca, alla ricerca di idee per rilanciare la distilleria di famiglia ormai in declino, rivolse la sua attenzione ad una bottiglia di Absenta importata dalla Spagna, ed ebbe così l'idea di produrre l'Hill's Absinth. Benché la singolare bevanda avesse poco ha a che vedere con l'antico absinthe consumato dagli artisti, non ci volle molto per diffonderla: la frenesia e la curiosità degli abitanti e dei turisti di Praga, ha fatto sì che l'Hill's Absinth pur non essendo un vero Absinthe ha ottenuto un successo strepitoso, allargatosi anche a Londra.
    Con l'unione Europea, altre ditte come la Pernod hanno ripreso a produrre Absinthe, limitando con mezzi moderni la concentrazione di tujone, l'alcaloide contenuto nell'assenzio responsabile delle allucinazioni e dell'assuefazione.
    Il fascino dell'assenzio è anche legato al suo particolare modo di consumarlo, che ne costituisce un rituale. In effetti, esistono diversi modi per berlo ed il sapore varia di conseguenza; quindi, la scelta del modo preferito è a discrezione del consumatore.




    liscio - alla francese - flambè o bohemiènne

    liscio:
    si beve direttamente come tale, preferibiolmente servendolo in un bicchierino da liquore.

    alla francese: è il rituale classico. Si versa nel bicchiere una dose di assenzio, si appoggia un cucchiaino apposito, forato con una zolletta di zucchero sopra, e con una brocca, si fa gocciolare dell'acqua ghiacciata (5 parti per 1 parte di assenzio) sullo zucchero per stemperarlo dolcemente.
    L'acqua e lo zucchero hanno la funzione di diluire ed addolcire la proverbiale amarezza dell'assenzio, e si dice, anche di aumentare gli effetti del tujone (ma questo è più verosimilmente un effetto dovuto alla suggestione indotta da quello che è considerato un rituale).
    L'assenzio bevuto in questo modo, rimane fresco e con un gusto dolce al punto giusto; inoltre, diventa bianco trasparente... diversamente, non è assenzio: questa è una proprietà degli alcaloidi dell'artemisia, ed è l'unico vero metodo per scoprire se quello che si stà bevendo è assenzio o un surrogato. Dopo aver fatto scivolare lo zucchero in fondo al bicchiere si deve agitare un po' e sorseggiare pian piano.

    flambè o bohemiènne: si mette prima di tutto il cucchiaino con lo zucchero sopra il bicchiere, si versa l'assenzio bagnando la zolletta di zucchero e successivamente avvicinandola al liquore. Fatto questo si incendia la zolletta in modo che il fuoco caramelli lo zucchero che gocciolando infiamma anche l'assenzio. Fatto caramellare per una quindicina di secondi si spegne il fuoco e si allunga la miscela con acqua. Questo metodo rende l'assenzio caldo e inebriante.


    L'assenzio (Arthemisia absinthium), detto anche erba santa per le sue proprietà medicamentose, cresce in pianura e bassa montagna, nelle zone del centro e del sud Europa, anche in luoghi incolti. E' un vegetale di tipo composito, perenne e deciduo, aromatico, della famiglia delle Asteracee, con fioritura a luglio, impianto a marzo, su terreno comune purché giovane, leggero ed asciutto, ed esposizione a pieno sole.
    Cresce in forma cespugliosa alta e larga circa un metro. I fiori sono piccoli, a forma di capolini riuniti a pannocchia, di colore giallo. Vengono poi raccolte le sommità fiorite e lasciate seccare all'ombra.
    La foglia è pelosa, divisa, bi- o tri-pennata, di lunghezza fino a 10 cm e di colore verde-grigio argento. In Italia sono comuni due specie di assenzio: l'assenzio di siepe, o selvatico (Artemisia vulgaris), usato in erboristeria, e l'assenzio gentile (Artemisia pontica), sfruttato per i liquori; altre varietà sono l'alpino (vallesia), e l'estragone (Artemisia dracuculus ), ma il più famoso è quello maggiore (absinthium).
    Il nome Artemisia deriva da Artemide, dea della fertilità, e ricorda le proprietà emmenagoghe della pianta, mentre l'etimologia di absinthal - absinthium viene dal greco "privo di dolcezza", cioè amaro, fino al termine latino absentium (assenzio, appunto). Per il suo particolare odore pungente e sapore amaro, viene impiegato come aromatizzante di amari oppure altri liquori dolci (Vermouth e Pastis in Francia, Patxatran in Spagna), ma anche di cibi, vini (vino artemisia) ed aceti.

    La magica pozione venne commercializzata da Henri-Luis Pernod che, nel 1805, aprì la famosa distilleria Pernod-Fils Absinthe a Pontalièr, in Francia, e venne chiamato Absinthe, Assenzio in italiano. La ricetta di questa prima proposta commerciale della "Fata Verde", risale al 1855:

    Mettete a macerare per un minimo di 12 ore, in 95 litri di alcol (85 per cento di gradazione), le seguenti piante essiccate: 2,5 kg di artemisia absinthium (assenzio maggiore o romano), 5 kg di anice e 5 kg di finocchio - altre fonti aggiungono issopo, succo di limone, angelica, anice stellato (che, all’epoca, contribuì alle fortune del mistrà marchigiano), dittamo (pianta erbacea aromatica della famiglia delle Rutacee), ginepro, noce moscata e veronica. Aggiungete 45 litri di acqua e distillate. Dal liquido ottenuto (circa 95 litri), prelevatene 40 litri, e aggiungete un altro chilogrammo di assenzio, un chilogrammo di issopo e 500 chilogrammi di succo di limone; scaldate a moderata temperatura, filtrate, e aggiungete i rimanenti 55 litri di distillato. I circa cento litri finali di assenzio saranno ricondotti a una gradazione alcolica di 75 per cento con un’ulteriore diluizione in acqua.

    Quando la clorofilla delle piante non era sufficiente a conferire al prodotto la giusta tonalità di verde, si aggiungevano solfato di rame, anilina verde, curcumina e altri coloranti, non tutti genuini e quindi corresponsabili della tossicità della bevanda.

    Il liquore può essere preparato:

    • per distillazione del decotto;
    • tramite decantazione dei rami in soluzione alcolica di qualsiasi tipo (solitamente liquori aromatizzati simili alla Grappa alla Ruta);
    • mediante la macerazione delle piante durante il processo di distillazione, che non è il modo più rapido ed economico di produrre assenzio, però è fedele alla ricetta originale.

    L'ingestione del decotto di Assenzio, ottenuto per ebollizione e successivo riposo dell'infuso o tisana, successivamente filtrata, non deve superare i 10 g di pianta fresca di Assenzio per dose singola giornaliera del decotto stesso, per non incorrere in sovraccarico epatico o addirittura tossicità.

    Anticamente il decotto era utilizzato nei pediluvi come analgesico per rinfrancare dopo un lungo cammino. Viene utilizzato anche come antipulci per i cani, come antitarmico per la lana e contro le cocciniglie parassite da giardino.

    Le proprietà officinali trovano largo impiego nei soggetti inappetenti (è un forte stimolante dell'appetito), con problemi digestivi e come vermifugo (insieme all'aglio).
    Le molte specie del genere Artemisia hanno uno spettro d'azione comune: tonico-stimolante generale, eupeptico, emmenagogo. Si è notato un effetto protettivo dell'Assenzio sull'epatotossicità animale; esperimenti dimostrano che esso cura i danni da intossicazione con acetaminofene e CCl4 nel ratto (tale effetto sembra dovuto all'inibizione da parte dell'assenzio degli enzimi microsomiali epatici metabolizzanti i farmaci).
    E' controindicato per chi soffre di ulcera, infiammazioni gastriche o soggetti tendenti a congestione, donne in gravidanza e allattamento (il latte è amaro), soggetti biliosi e sanguigni.
    Sia l'olio (molto volatile) che l'essenza madre di Assenzio sono del colore dei marroni, e vengono solitamente solubilizzate in farmacologia ed in omeopatia con etanolo al 20% ca.
    Comunque, ha una discreta solubilità anche in acqua, e deve essere conservato ben sigillato, al buio ed in luogo fresco. La densità è circa 1 - 1.03 g/ml, residuo secco 8-13 % p/v e pH tra 4 e 5.5. La dose massima è 20-40 gtt ai pasti (l'effetto tossico è certo sopra una soglia di 60 gtt al giorno), sciroppo 2%, tintura 20%.

    L'assenzio, è un liquore con delle proprietà particolari, dal momento che l'erba utilizzata è una sostanza psicoattiva. L'Assenzio è presente nell'allegato (Legge del 6 gennaio 1931, n°99) delle piante officinali non vendibili in erboristeria.
    La dose varia da soggetto a soggetto, ma non si devono superare l'equivalente di due bicchierini colmi di wisky che diluiti (come nel rituale classico) diventano una quantità notevole. Occorre tenere a mente che si può avere intossicazione da assenzio, e quindi si deve evitare di abusarne, anche perché un solo bicchierino dovrebbe essere sufficiente a produrre gli effetti attesi.

    I princìpi attivi dell'assenzio sono: il tujone ed il glucoside amaro (che hanno proprietà alteranti bipolari del sistema nervoso centrale, leggermente psicotrope, con effetto permissivo sulle catecolamine, midriasi, aumento del battito cardiaco, euforia, proprietà afrodisiache), il guaranolide dimerico, ed alcuni narcotici analgesici quali la codeina e l'idrobromuro desotrometorfano (Romilar).



    Il principio attivo è α- e β-tujone, il nome scientifico è: 4-methyl-1-(1-methylethyl)biciclo[3.1.0]hexam-3-one, la formula: C10H16O

    Tossicità: LD50 (topo, s.c.) 134 mg/kg

    Meccanismo di azione: antagonista serotoninico presinaptico come il THC.
    L'assenzio contiene una sostanza chimica chiamata tujone (contenuto anche nella salvia) che è molto simile alla sostanza chimica attiva nella canapa indiana, THC (tetraidrocannabinolo). Studi effettuati negli anni '60 e '70 mostrano che entrambe le sostanze chimiche sono terpenoidi. Questo - secondo un articolo sulle affinità tra gli effetti psicologici attributi all’assenzio e a quelli della marijuana - significa che sia tujone sia THC esercitano i loro agenti psicotomimetici interagendo con un recettore comune nel sistema nervoso centrale.
    Il tujone agisce sul sistema nervoso centrale contrastando l'azione dell'acido gamma-aminobutirrico o GABA, un inibitore dell'attività elettrica neuronale. Le cellule nervose, non più protette dal GABA, subirebbero il bombardamento di una moltitudine caotica di impulsi e ciò determinerebbe uno stato di euforia, accompagnato da apparente lucidità, ma anche da allucinazioni, convulsioni e delirio.


    Effetti negativi: disturbi gastrointestinali, gastroenterite, nervosismo, problemi muscolari, convulsioni, stordimento, morte, defecamento involontario, respirazione anormale, schiuma alla bocca, urina rossa, congestione renale, allucinazioni visive ed uditive. L'effetto tossico è certo nell'assunzione cronica a lungo termine, o nell'abuso sopra una soglia di 60 gtt al giorno.



    Effetti "positivi": svariate doti curative (per lo più vantate), poi: afrodisiaco, stimola la creatività, allucinogeno, psicoattivo, vermifugo.

    TESTO UNICO DELLE LEGGI DI PUBBLICA SICUREZZA
    RD 18 Giugno 1931, n. 773 TULPS - pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 26 giugno 1931, n. 146.

    Art. 105 - (art. 103 T.U. 1926)
    Sono vietate la fabbricazione, l'importazione nello Stato, la vendita di qualsiasi quantità ed il deposito per la vendita del liquore denominato in commercio "assenzio".
    Salvo quanto è stabilito dalle Leggi sanitarie, sono escluse da tale proibizione le bevande che, avendo un contenuto alcoolico inferiore al 21% del volume contengono infuso di assenzio come sostanza aromatica.

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