Conclusa l'inchiesta della Procura di Paola, in provincia di Cosenza, sulla Marlane - Il lavoro dei magistrati è durato anni. Il primo fascicolo nel '99, un altro nel 2006.
PAOLA - Ne sono morti quaranta di cancro. Altri sessanta hanno lo stesso male e sono ancora vivi. Erano tutti operai, colleghi, per anni fianco a fianco nell'azienda tessile Marlane, in provincia di Cosenza, a Praia a Mare. La Procura di Paola ha concluso le indagini, durate anni, e ha ipotizzato i reati di omicidio colposo dei dipendenti, la cui morte è stata attribuita alle condizioni di lavoro, e inquinamento ambientale.
Sono stati anni difficili per i parenti delle vittime, difficili per gli ex operai che dopo anni di lavoro in fabbrica combattono contro tumori che hanno colpito la vescica, o i polmoni, l'utero o la mammella. Le fasi delle indagini sono, per il momento, concluse, si attende ora la decisione di rinvio a giudizio di una decina di indagati.
Ci sono voluti anni e anni di indagini, prima lungo un doppio percorso, poi riportate in un unico fascicolo, per dimostrare la connessione tra i decessi e l'uso di alcune sostanze usate nella fabbrica di coloranti azoici, che contengono "ammine aromatiche", indicate da una ampia letteratura scientifica come responsabili delle insorgenze tumorali.
Tre procedimenti - il primo iscritto nel '99, il secondo nel 2006 (con sette indagati) e il terzo nel 2007 (con quattro indagati) - che il Procuratore Capo Bruno Giordano ha fatto confluire in un unico fascicolo. Più di mille operai hanno lavorato nell'azienda fondata negli anni '50 dal conte Rivetti. Si producevano tessuti di vario tipo, per lo più divise militari. Fino alla metà degli anni Sessanta, nella Marlane esistevano dei muri divisori tra i reparti.
Poi l'azienda passò dal Lanificio Maratea, nel 1969, all'Eni - Lanerossi. In quell'anno i muri che dividevano i reparti furono abbattuti e così la fabbrica diventò un unico ambiente di lavoro: la tessitura e l'orditura, trasferite dal lanificio del vicino comune di Maratea, vennero inserite tra la filatura e la tintoria, senza alcuna divisione fisica. E così i fumi saturi di sostanze chimiche di coloritura, provenienti dalla tintoria si espandevano ovunque. Una nube permanente e densa sugli operai.
A chi lavorava su certe macchine, alla fine della giornata veniva donata una busta di latte per disintossicarsi. Era l'unica contromisura proposta, che evidentemente non poteva bastare. I coloranti - quelli che generalmente vengono contenuti nei bidoni con il simbolo del teschio - venivano buttati a mano dagli operai in vasche aperte, dove ribollivano riempiendo di fumi l'ambiente e le narici dei lavoratori.
Senza aspiratori funzionanti. Gli operai tossivano e i loro fazzoletti diventavano neri. E poi c'era l'amianto. L'azienda dice di non averlo usato, ma chi ha lavorato nello stabilimento sa bene che i telai avevano freni con le pastiglie d'amianto, che si consumavano spesso e dalle quali usciva polvere respirata da tutti.
Nel corso del 1987 il gruppo tessile Lanerossi - già appartenente al gruppo ENI, di cui faceva parte la Marlane di Praia a Mare - venne ceduto alla Marzotto di Valdagno, che ne detiene ancora la proprietà. Negli anni '90 la svolta: arrivarono le vasche a chiusura, dove i coloranti potevano ribollire senza riempire l'aria di vapori. Ma per molti operai fu troppo tardi, dopo decenni di inalazioni tossiche. Nel 96 la tintoria è stata chiusa. Oggi l'azienda è vuota. Dismessa.
"Le indagini sono praticamente chiuse - ha dichiarato il Procuratore Capo di Paola, Bruno Giordano - recentemente abbiamo richiesto un ultimo sequestro preventivo che il gip ha emesso relativo all'area circostante lo stabilimento e credo che sia stato l'ultimo passo istruttorio da parte nostra.
Ora aspettiamo solo di chiudere formalmente le indagini". La Procura di Paola ha infatti sequestrato il terreno circostante l'azienda: sotto, tonnellate di rifiuti industriali. Sostanze che erano nocive ancora prima di diventar rifiuti e che per questo avrebbero dovuto seguire l'iter di smaltimento secondo legge. Ma evidentemente qualcuno ha preferito seppellirli lì. Per questo, all'indagine iniziale sulle morti bianche se ne è aggiunta una seconda: non si indaga solo sulle modalità del ciclo di produzione ma anche sull'interramento dei rifiuti. Così oggi la fabbrica, chiusa da cinque anni, non è sotto sequestro ma i terreni circostanti sì.
Secondo la Procura, gli operai deceduti potrebbero essere più di ottanta: non tutte le famiglie dei deceduti infatti hanno sporto denuncia. Per questo il dottor Giordano ha costituito un gruppo di lavoro per individuare tutte le eventuali parti offese. Per molti operai, tuttavia, sarà dificilissimo avere giustizia: tanti sono i casi caduti in prescrizione. Con la legge Cirielli, infatti, solo i decessi a partire dagli anni '90 possono rientrare nella vicenda giudiziaria in corso.
Le prime morti risalgono agli inizi degli anni '70. Tra i primi, nel '73, due trentenni che lavoravano con gli acidi. E così via. Qualcuno sostiene che i morti siano un centinaio, ma secondo l'azienda sarebbero "solo" una cinquantina. Dato, questo, che rivelerebbe un rischio pari a un caso su un totale di 1058 operai, nell'arco di 40 anni. Motivo per cui l'azienda non vuole riconoscere il nesso di causalità tra le morti e le sostanze lavorate in fabbrica per decenni.
Non è dello stesso avviso il prete del paese, che ha celebrato più di ottanta funerali di operai. E non lo sono neanche le vedove, gli orfani di padri morti dopo una vita trascorsa in fabbrica. E poi c'è la storia di un operaio ammalato di cancro, Luigi Pacchiano, che ha trovato il coraggio di far causa alla Marlene - e che ha denunciato di aver ricevuto minacce per la sua azione legale - ma a cui poi l'Inail ha riconosciuto la malattia professionale ed ha ottenuto dal tribunale di Paola un risarcimento di 220 mila euro.
Ma le questioni sulla Marlene non finiscono qui. Ci si interroga sui finanziamenti dall'Unione europea e dalla Regione, sulle storie di precariato e cassa integrazione, sui sindacati e sui partiti e persino, come si può leggere nei rapporti del Ministero della Sanità, sul mare non balneabile di fronte alla fabbrica, nonostante ci fosse un depuratore.