“La riforma degli atenei statali in corso di approvazione alla Camera rappresenta un ottimo esempio di come non si debbono fare le riforme.
In primo luogo non dimostra di poter realizzare un miglioramento rispetto ad uno status quo ritenuto insoddisfacente (mentre un buon progetto di riforma deve provare di poter realizzare un nuovo stato che sia superiore e dominante, possibilmente in maniera netta, rispetto a quello corrente). Per dimostrare di poter superare gli aspetti problematici della situazione esistente deve essere in grado di identificarli e quantificarli con esattezza: prima di individuare la terapia occorre una diagnosi accurata.
La riforma, invece, è una terapia senza diagnosi (secondo difetto).
Cosa si imputa infatti all’università pubblica? Una scarsità di risultati solo in assoluto o anche in rapporto alle risorse consumate? Si tratta di due ipotesi molto differenti dato che nel primo caso la colpa è delle risorse insufficienti e nel secondo dell’inefficienza del sistema che, invece, spreca risorse. Nel primo caso occorre dare più risorse per ottenere risultati migliori, nel secondo caso le risorse si possono anche ridurre all’accrescersi dell’efficienza del loro utilizzo.
Nel nostro paese vi sono 12 adulti laureati ogni 100 abitanti, nei paesi sviluppati dell’area Ocse 26 ogni 100 abitanti; in Italia coloro che hanno conseguito un dottorato di ricerca sono 16 ogni 100 mila abitanti, in Europa 50, negli Stati Uniti 48. Il minor output totale nel tempo del sistema universitario è dunque provato, tuttavia il rapporto output/input segnala per l’Italia un valore superiore alla media europea: d
a noi vi sono circa 30 studenti iscritti per docente di ruolo, ricercatori compresi (60 mila docenti per 1,8 milioni di studenti), nell’area Ocse 15,8 studenti per docente, poco più della metà. Se escludiamo dal numeratore i fuori corso, che esistono solo in Italia e che tuttavia non sono iscritti ‘in sonno’ ma consumano risorse, il rapporto docenti studenti scende in Italia a 21,4, rimanendo comunque più elevato del 35% rispetto alla media Ocse. Inoltre, se escludiamo dal denominatore i ricercatori, i quali non sono tenuti dalle norme vigenti a svolgere attività didattiche (sino al decennio ’90 non potevano essere titolari di insegnamenti ma solo di attività didattiche integrative), e vi lasciamo i soli professori ordinari e associati, il rapporto studenti docenti sale a 35 se escludiamo i fuori corso dal numeratore e a 48 se li includiamo.
Per quanto riguarda la spesa pubblica per la formazione superiore essa è pari in Italia allo 0,8% del Pil, nei paesi Ocse all’1,3% del Pil. Essa è inoltre pari in Italia al’1,6% della spesa pubblica totale contro il 2,9% nell’Unione Europea.
Sul fronte della ricerca in Italia vi sono 82 mila addetti (universitari e appartenenti ad altri enti), in Francia e Gran Bretagna oltre 160 mila, in Germania oltre 250 mila, in Giappone oltre 600 mila, negli Stati Uniti più di 1,2 milioni. La spesa complessiva per la ricerca è pari in Italia all’1,1% del Pil ed essa è per oltre metà a carico del settore pubblico; in Europa è pari all’1,9% del Pil. L’Italia e gli altri paesi europei si erano impegnati a raggiungere il 3% del Pil entro il 2010. Pur essendovi indubbi margini di miglioramento di efficienza (rimando al mio ‘progetto liberale’ di riforma degli atenei) è evidente che
la scarsità di risultati complessivi del sistema di formazione universitaria e della ricerca sia soprattutto conseguenza della scarsità di risorse messe a disposizione.
I dati precedenti sono noti (debbono ragionevolmente esserlo) ai ministri che hanno promosso la riforma dell’università, essendo riportati a pag. 37-38, in una scheda curata dal Ministero dell’Università, Istruzione e Ricerca, dell’Allegato al Documento di Programmazione Economico-Finanziaria per gli anni 2010-2013 presentato dal Ministro dell’Economia e dal Presidente del Consiglio il 15 luglio 2009.
Come si può deliberare senza conoscere? Come si può deliberare ignorando ciò che è noto? … come se le soluzioni non maturate e non ragionate non partorissero necessariamente nuovi grovigli e rinnovate urgenze di porre rimedio a peggiori mali.”
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