Originariamente inviata da
camomilla20
Ad un critico che gli domandava perché i suoi film contenessero spesso scene che “creavano imbarazzo”, Wim Wenders pare abbia risposto che – per lui – l’unico cinema possibile, l’unico cinema vero, è quello che crea imbarazzo in chi lo guarda.
Se tale teoria si potesse applicare alla musica, probabilmente Fabri Fibra ne sarebbe un sostenitore. Non che Fabri voglia consapevolmente creare imbarazzo, e d’altra parte i suoi rap non sono – per usare un aggettivo abusato fino alla nausea – “imbarazzanti”. Sono piuttosto pugni in faccia e, più che imbarazzo, creano sconcerto, scandalo, fanno rumore come di denti rotti e di mandibole spezzate, e spesso lasciano intontiti; veniamo aggrediti, assaliti e brutalizzati da una valanga di parole e di metafore che spesso non vengono filtrate né dal buon gusto né, tanto meno, dall’autocensura, ma che ondeggiano tra l’ostentata spacconeria e la vulnerabilità. Una vulnerabilità che si intuisce costantemente, sotto la maschera, come un indivisibile doppelganger.
Quando le parole sconfinano in un delirio di sesso, di violenza, di droga e ribellione, si corre il rischio di non capire la provocazione, e di prendere alla lettera quello che sembra un invito aperto alla perdizione, alla perversione e alla misoginia. Ma è davvero così? Non c’è invece, nelle canzoni di Fabri, un grido disperato? Puoi rimanere insensibile, quando gli senti dire “a parte il rap io sono un fallito/stacchi questa musica e son bello che finito”? Non avverti la necessità – non parliamo di ‘messaggio’, per carità – di esorcizzare il male del mondo, in un tentativo di difendersi con le stesse armi dalla violenza, dalla volgarità, dal rumore che la nostra vita, tutti i giorni, ci sputa addosso?
Allora il sesso senza amore, l’alcol, il fumo, diventano solo antidoti, unico rimedio per chi rifiuta il buonismo dei perbenisti, il moralismo senza morale, “l’ipocrisia di chi sta sempre/con la ragione e mai col torto”. Fabri sembra cercare di rispondere al mondo colpo su colpo, creandosi un’altra identità. E non viene da pensare ad un supereroe, quanto, piuttosto, a quel Rank Xerox inventato da Liberatore per costruirsi addosso un alter ego violento, coatto e iconoclasta, un alter ego da scagliare contro il mondo per risolverne i conflitti e riparare, a modo suo, alle ingiustizie.
Riempire il vuoto diventa l’imperativo categorico (“musica che aiuta/a fuggire dal niente”) se si vuole uscire dalla gabbia contraddittoria della famiglia, se si vuole battere la stupidità, la superficialità della moda, dei festival, della televisione, dei reality (quelli che qualcuno ci vuole spacciare come “i programmi della gente comune”). E quando questa stupidità fa un tutt’uno con l’orrore, in una sorta di abominevole marmellata catodica - Giucas Casella e Pacciani, Erika e Omar, Costanzo, Costantino e i soldati in Iraq – non si può che urlare, per resistere al martirio.
Ma questo urlo sembra uno degli ultimi gesti veri di indignazione – un’indignazione forse sfocata, forse farneticante – comunque degna di rispetto. A pensarci bene questo Fabri Fibra, che commette oltraggio al pudore e fa violenza al buonsenso e al buongusto, andrebbe quasi fatto ascoltare nelle scuole: uno degli ultimi romantici, un malato terminale, un caso disperato di lotta al sistema.