Momenti in cui viaggiare
L’agente che mi sta di fronte mi guarda come se fossi pazza. Il suo collega, invece, ha lo stesso sguardo di chi si trova davanti ad un cucciolo preso a sprangate. E’ buffo ma tutti gli uomini della mia vita mi hanno sempre visto nello stesso modo, per loro o ero una squilibrata o una povera deficiente indifesa. A trent’anni suonati, ancora devo decidere quale delle due cose sia più irritante.
Entrambi mi fanno domande su domande. Dicono che tutti i dettagli possono essere utili. Dicono che posso farcela, che sono forte, che sono stata brava. Si sbagliano. Sono solo triste e patetica. Cerco di restare concentrata. Restare in questo posto che gli altri chiamano realtà è tremendamente difficile per me. Da quando mi hanno violentata tutto è tremendamente difficile per me. Non sono più una persona, ma un riassunto umano. La versione integrale di me è rimasta lì, in quel vicoletto sporco di ingiustizia e lacrime.
Gli agenti continuano a parlare. Ormai li ascolto a tratti. Mi sento come una televisione rotta che perde il segnale in continuazione. Se c’è una cosa che non mi è stata strappata via quella sera è la mia fantasia. Quando mi assento dalla realtà mi sento protetta. Tutti abbiamo un piccolo rifugio. Un luogo in cui il resto del mondo non esiste. Un piccolo spazio inviolato in cui si sentirsi protetti. Come la mano di un bambino che stringe quella materna, come il caldo abbraccio della persona amata. Un nascondiglio in cui fuggire quando il mondo fa paura. Durante i miei viaggi non può succedermi nulla, ed è solo in quei momenti che riesco a trovare un po’ di pace.
Gli agenti continuano a blaterare. Non riescono a fare a me di parlare della mia forza. Della mia straordinaria capacità di reagire. Che ne sanno loro? Se solo sapessero come cammino per strada. Ho paura. Ho tremendamente paura. Una volta era una persona normale, ora sono solo triste, patetica e paranoica. Cammino guardando male chiunque, persino dei bambini che giocano mi sembrano dei potenziali stupratori. Ogni passo che faccio è incerto. Non importa quale sia la via, io cammino sempre su una fune sospesa per aria. E il guaio è che non ho la minima idea di quando farò un passo falso.
Mi ricollego al mondo reale, ma non vorrei. Alcune domande mi riportano a quegl’attimi. Tremo. E’ buffo come si finisce a pensare alle cose più assurde mentre ti stuprano. Prima di arrendermi definitivamente ho pensato che era assurdo essere violentate in infradito. Sarà che sono particolarmente esigente sul vestire e pretendo l’abito giusto in ogni momento ma, incredibile a dirlo, se mi fosse stata concessa la possibilità di scegliere avrei impiegato un’ora per decidere che scarpe mettere. Questo però lo tengo per me, sono già abbastanza pazza agl’occhi dell’agente.
Ho sempre vissuto nella sicurezza che certe cose accadono in posti lussuriosi, nei viottoli vicino a night-club e localini esotici. A me è successo mentre tornavo a casa dopo aver fatto la spesa. Se questo mi rende ancora più patetica o particolarmente attraente da meritare uno stupro, questo proprio non lo so. Ricordo la lotta, la volontà di sopravvivere. La forza con cui volevo difendere qualcosa che fino a quel momento avevo considerato solo mio. La parte più triste è stata la consapevolezza di ciò che sarebbe successo. Non il dolore, non la paura, a distruggermi è stato il terrore dell’inevitabile, quella sensazione che ti prende quando ti senti assolutamente indifeso. Così mi sono lasciata andare. Mi sono spenta. Ero lì, ma allo stesso tempo viaggiavo lontana, al di fuori del mio corpo, al di fuori di tutto.
Ecco cosa racconto agli agenti quando mi chiedono come sto. Quel giorno sono stata svuotata. Hanno aperto un buco in me e da lì è fuoriuscita la mia anima. Da allora con la testa viaggio alla ricerca di me stessa. Lo so, sono lì, da qualche parte. Magari un giorno mi ritroverò a sedere tranquilla ad un bar. Chissà se avrò un bel paio di scarpe. Del resto, cosa volete che faccia una donna patetica?
Quando il bambino era bambino
“Quando il bambino era bambino non sapeva d'essere un bambino”
Devo averlo sentito da qualche parte e mi sono chiesta come fosse lui da bambino. Se ne stava in riva al mare, con i piedi nudi nell'acqua e lo sguardo perso nel vuoto. Mi ha detto che dovevo spegnere la sigaretta, 'ché fa male. E che non devo stare troppo tempo al telefono, potrebbe venirmi chissà cosa. Eravamo scesi in spiaggia, mi ha portata con lui alla casa al mare.
Quando è iniziata, lo scorso anno, mi chiedevo cosa mai fossero quindici anni di differenza d'età. Ho vent'anni io, lui appena trentacinque. Non sarebbero nulla se lui non avesse perso qualsiasi gioia di vivere e non fosse rimasto il fantasma di un uomo, con lo sguardo vuoto. Nell'ultimo anno ho provato a risvegliarlo ma sembra che qualcosa dentro lui si sia addormentata, forse smarrita. Così l'altra mattina, esasperata, gli ho detto che mi sarei alzata e me ne sarei andata via da casa sua. Sono troppo giovane per stare con un fantasma. E lui, senza battere ciglio, mi ha detto: «Elisa, prepara la valigia, ti porto in un posto speciale». Mi ha portata al mare e mi ha detto: «qui è dove sono cresciuto, c'è tutta la roba di quando ero bambino».
Negli ultimi tre giorni non è cambiato nulla. Ancora assillato da miliardi di dubbi, su tutti i suoi timori, i suoi dubbi su una vita monotona che non gli va bene ma che non è in grado di cambiare perché ha troppa paura, le sue paranoie sui miei vent'anni.
Così l'ho lasciato a meditare in spiaggia da solo con le mani dietro la schiena e sono tornata a casa per fumare di nascosto. Lui dice che fa male e che io non devo.
Sono rientrata e ho trovato un cassetto socchiuso. L'ho aperto ed era pieno di quaderni a righe. Ho aperto il primo:
Marzo 1984
C'era una volta in un posto tutto buio un gattino nero prigioniero di una strega.
In alto, sulla copertina, c'era scritto il suo nome. Ho aperto gli altri quaderni. Aprile 1984. Luglio 1984. Gennaio 1985. Conservate sotto i quaderni, c'erano delle cartelline di carta divise per anni. 1999. 2002. 2006. E l'ultima. 2011. Dentro ogni cartellina c'erano dei fogli dattiloscritti. Mi sono alzata da terra, lasciando fogli e quaderni disordinati a terra e sono andata verso la sua valigia. C'era una cartellina rossa con su scritto 2012.
Questa è la storia di Elisa. Elisa è una fata che vive fra noi mortali e che mi ha salvato da me stesso.
Elisa. Io.
Mentre leggo la storia della fata che porta il mio nome, lui è alle mie spalle e ha in mano la mia agendina rossa.
«Quando il bambino era un bambino, non sapeva di essere un bambino» legge a voce alta.
«L'ho sentita da qualche parte ma non riesco a ricordare dove»
«I bambini non sanno mai di essere dei bambini. Ma gli adulti sanno di essere adulti. E così ho cercato tutte le volte di tornare lo stesso bambino che nel marzo del 1984 ha iniziato a scrivere sul primo quaderno. Lo lascio sempre per primo, quello. Le altre storie sono diventate sempre più pesanti. Insomma, pensa a quella che hai in mano! Un bambino non sognerebbe mai di fare l'amore con una fata. E ormai anche quando l'adulto fa finta di essere un bambino, sa di essere bambino. Non scriverò mai più nulla di così bello come la storia di un gatto che voleva essere libero, perché mia madre che mi chiude in camera non sarà mai più una strega, e io non sognerò più di essere un gatto nero.»
Mi sfila la cartellina rossa dalle mani, la richiude e la posa in fondo al cassetto. Lo seguo in silenzio e sembra quasi di vederlo, il bambino che non sa d'essere un bambino, seduto a terra, che è rimasto a dormire sotto una coltre di ghiaccio nel corpo dell'uomo, che piano piano ho risvegliato su un foglio di carta senza neppure accorgermene...