TARQUINIA (Viterbo)
Lo stupro, gli stupri. Il primo, i successivi, e l’ultimo tre giorni fa. Non tanto per la condanna di quelli del branco che non è arrivata, non tanto per quei 2 anni e 4 mesi di ”messa in prova” degli stupratori di Montalto, che alle orecchie di Caterina, (nome di fantasia), ha un suono spietato, doloroso: vediamo se adesso fate i bravi. Vediamo se d’ora in poi, dopo aver rovinato la vita a Caterina, violentandola in 8 a 16 anni, con altre compagne di scuola non lo farete più. Non è per tutto questo, che lei subisce un nuovo stupro, e piange ancora, come da tre anni: è per il tempo.
Dice a sua madre: «altri 2 anni e 4 mesi di incubi, non ce la faccio, non è finita, non finisce mai». No, non finisce. Quanto dura uno stupro, in che misura può dilatarsi nel tempo della vita di una donna, in quante forme si riproduce e si moltiplica, in quante vessazioni? Ormai ha perso il conto, Caterina. Il conto delle lacrime e del tempo. Tre ore di stupro, tre anni di stupri. Quando dice a sua madre «devo provare ad archiviare tutto almeno nel cervello», Assunta, (nome di fantasia anche questo), le risponde che ce la farà. E poi si sforza di credere alle sue parole. «Lei non sarà mai più la stessa». No.
Seduta su un muretto davanti al duomo di Tarquinia, la mamma di Caterina si stringe nel cappotto, racconta lentamente, con una dolcezza stanca, sfibrata dal dolore: «Siamo indignate, ferite, deluse da questa sentenza. Dopo tutto ciò che abbiamo passato, dopo quel che è costato a Caterina la denuncia, (discredito, isolamento, cattiverie), ci aspettavamo almeno una condanna. Lei si è chiusa in casa, non vuole parlare con nessuno, piange, dice soltanto ”mamma, credevo che finisse, speravo di poter dimenticare. Ma non finisce. Non finirà mai”».
E’ sempre così. Lo stupro, gli stupri non finiscono. Il primo stupro a Montalto, dopo una festa di compleanno, nel buio di una pineta, nel buio della mente di otto giovanissimi uomini col cuore e il cervello da animali. E gli altri stupri, tanti, uno stillicidio nell’arco di tre anni: gli amici che le voltano le spalle; ed un paese intero contro, perché ”portava la minigonna, ed era ubriaca, perciò se l’è voluta” ; e tutti a dire che stava rovinando dei bravi ragazzi per una bravata; e il sindaco di Montalto, Carai, che vuole pagare le spese legali dei violentatori coi fondi del Comune; e quelli del branco che, alle udienze, sghignazzano e motteggiano guardando sfacciatamente lei e sua madre. «Nessuna solidarietà, mai, da nessuno. Ci hanno isolate. Nessuna di quelle madri mai mi ha chiesto scusa. Una soltanto mi si è avvicinata alla fine dell’ultima udienza, l’altro giorno. Mi ha detto: capisco il suo dolore, ma mio figlio non c’entra, è stato soltanto lì a guardare». Assunta avrebbe voluto domandarle tante cose: perché non ha aiutato Caterina mentre la stupravano, suo figlio? Perché le veniva a dire questo dopo tre anni, solo adesso? Ma non le ha chiesto niente.
E non ha detto niente neppure quando quelli, davanti al magistrato, dopo aver negato insinuato screditato insultato sua figlia per tre anni, infine si sono alzati, ed hanno confessato. «Sì, la ragazza non era consenziente, era uno stupro. Eravamo ubriachi». Loro. Non lei. Infine, sollecitati dal giudice, uno per uno, con gli occhi bassi, hanno chiesto scusa ad Assunta. Che cosa fa una madre, se uno, dopo tre anni di menzogne, si alza e le dice «mi scusi se ho violentato sua figlia, signora»? Assunta non ha fatto niente. Ha solo annuito lievemente, con un impercettibile oscillazione della testa. E poi ha pensato che, secondo lei, quelli non erano pentiti veramente. «No, il mio cuore non li vede cambiati». E quindi si è sgranata in mente in pochi istanti il suo lungo rosario di dolori.
Caterina che lascia la scuola perché ha il terrore di incontrare suoi violentatori, e rinuncia al suo sogno di laurearsi in lingue. Caterina che piange vomita e non dorme per molti giorni prima e molti giorni dopo ognuna delle udienze. Caterina che, per tanto tempo, ha paura del buio, e vuole dormire con mamma nel lettone, stringendole la mano. Caterina che, quando intravede i suoi stupratori al processo, sviene e dev’essere soccorsa. Caterina che, quando ne incontra due un sabato sera a Tarquinia, accanto a un pub, scoppia in un pianto dirotto, disperato. «Ha pianto anche quando un amico le ha raccontato che una certa signora, madre di uno degli stupratori, che ha lo stesso cognome del sindaco, Carai, lo aveva chiamato per chiedergli di dire al processo che mia figlia era una ragazza ”facile”, promettendogli, in cambio, dei favori. Lui si è rifiutato e ci ha avvertite. Noi abbiamo fatto una denuncia. L’amico di mia figlia, a verbale, ha confermato. Non ne so più niente».