he la nostra civiltà sia fragile tutti lo sanno bene; ma è necessario mettere l’accento sul fatto che è
fragile soprattutto a causa dei suoi stessi valori principali: il cristianesimo, la libertà, la indulgente benevolenza tipica del carattere degli italiani.
Sia il benvenuto quindi questo sussulto perché, se ci muoviamo subito,
forse siamo ancora in tempo a salvarci. Prima di tutto cerchiamo di guardare la realtà in faccia senza gli accomodamenti di maniera. I musulmani che si riuniscono nelle piazze per pregare e per manifestare i loro sentimenti c
i turbano perché sono tanti, visibilmente troppi perché noi si possa tenerli a bada.
Il grande spazio vuoto davanti a una cattedrale o alla chiesa principale di un paese segnala la sua sacralità,
il «limite» oltre il quale si addensa la presenza divina che risiede nel tempio con l’eucarestia. In termini etnologici,
diciamo che la piazza davanti al Duomo non è stata creata come luogo di riunione ma per porre una distanza «di rispetto» fra il profano e il sacro.
Naturalmente tutto questo non ha alcun senso per
i musulmani ai quali è sufficiente un tappetino e volgersi in direzione della Mecca per pregare. Si riuniscono in piazza Duomo perché è al centro della città, è un luogo molto grande e perché comunque
percepiscono, sia pure inconsapevolmente, la positività della risonanza culturale, storica, sacrale di cui i luoghi si impregnano attraverso il vissuto degli uomini.
Possono imparare ad andare in orario al posto di lavoro anche se la percezione del tempo è diversa da cultura a cultura; possono imparare, sia pure con molta fatica, a parlare la nostra lingua, a mangiare qualcuno dei nostri cibi, a vestirsi come noi, ma i tratti che fondano una cultura non si possono cambiare. E non esiste cultura senza religione, o meglio: sono le religioni che fondano le culture.