Troppe nozioni, pochi pensieri "Google ci fa diventare più stupidi"
Molti studiosi di varie materie ritengono che sia diminuita la loro
capacità di apprendimento: "Siamo diventati meri decodificatori"
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SAN FRANCISCO - Che Google ci stia facendo diventare tutti più stupidi? Pensiero imbarazzante, domanda controversa. Mormorata a mezza bocca da più di un ricercatore ma mai formulata esplicitamente, la tesi è stata avanzata di recente da una storia di copertina del mensile The Atlantic Monthly, uno dei maggiori periodici progressisti statunitensi ed ha immediatamente fatto il giro delle prime pagine dei media americani.
Ripresa tra gli altri dal Washington Post, dal rotocalco online News. com di CNet e da ValleyWag, la si potrebbe definire (parafrasando una delle metafore formulate da Nicholas Carr, autore dell'articolo), una sorta di 'Sindrome di 2001 Odissea nello Spazio'. I lettori familiari con il film di Stanley Kubrick ricorderanno che Dave Bowman, astronauta e protagonista della storia, verso la fine del film stacca i contatti di HAL, il supercomputer che controllava la nave spaziale sulla quale viaggiava con i suoi colleghi. Bowman si era appena salvato da un attentato orchestrato dallo stesso HAL e i suoi compagni di avventura erano tutti morti. "Dave fermati", invocava HAL, cercando di convincere un Bowman mortalmente determinato a metterlo fuori uso. "Ti puoi fermare Dave?... Ti puoi fermare?... La mia mente se ne sta andando, Dave", concludeva fiocamente HAL.
Nel suo articolo Carr, che è anche autore di "The Big Switch", "Our New Digital Destiny", "Rewiring the World from Edison to Google", confessa di sentirsi proprio come HAL. Che il suo avere sempre a portata di polpastrello tutto lo scibile umano, un sapere che per raccoglierlo una volta gli ci sarebbero voluti anni di ricerca, sta in qualche modo compromettendo la sua capacità di pensare e di criticare. E per sua sorpresa ha scoperto di non essere l'unico a sentirsi in questa maniera. Docenti Universitari, giornalisti, muscisti anche medici gli hanno scritto a decine confessandogli di non riuscire più a leggere un libro, di scorrere solo tra le righe di un articolo e di essere difficilmente in grado di andare al di la del secondo o terzo paragrafo di un blog, non importa quanto bene o male questo si stato scritto.
E' come se per queste persone il sapere fosse improvvisamente diventato un universo a due dimensioni. Immenso lungo gli assi orizzontale e verticale ma senza profondità. Perché l'altro dato preoccupante che li accomuna è l'incapacità di assorbire concetti complessi e teorie evolute, se non nella forma di piccoli frammenti per volta, nella forma cioè di piccole manciate di bit.
La conferma che il suo sospetto fosse fondato, che l'uso costante dell'Internet e di Google stesse riconfigurando in qualche maniera l'assetto neuronale del cervello dei webnauti, Carr lo ha trovato in una serie di ricerche. Una della University College London.
Di durata quinquennale e condotta sugli utenti online della British Library e quelli di un consorzio di istituzioni educative inglesi, la ricerca Britannica denota che gli user non leggono i materiali in una maniera tradizionale. Che una nuova forma di lettura sta emergendo e che è fatta dal veloce scorrimento orizzontale degli articoli alla ricerca di parole chiave. "Pare quasi che vadano in linea per evitare di leggere", concludono i ricercatori inglesi. Un'altra fu condotta un paio di anni fa dal mensile scientifico Discover e stabilì che le e-mail riescono ad anestetizzare il cervello in maniera più profonda di quella della marijuana.
Marianne Wolf, una psicologa evolutiva della Tuft University e autrice di "Proust and the Squid: The Story and Science of the Reading Brain", ritiene che noi non siamo solo quello che leggiamo ma "siamo come leggiamo".
Secondo la Wolf, Internet pone l'efficienza e l'immediatezza al di sopra di qualsiasi altra cosa, indebolendo di conseguenza la nostra capacità di leggere profondamente, come facevamo invece quando la carta stampata aveva fatto delle opere letterarie prodotti di largo consumo tra i lettori di tutti gli strati sociali. "Siamo diventati meri decodificatori di informazioni", conclude la Wolf.
Per quelli che tendono a liquidare la tesi di The Atlantic in maniera sommaria, classificandola come sospetto vecchio e mai provato, Carr indica uno studio di James Olds, professore di neuroscienza e direttore del Karsnow institute for Advanced Study della George Mason University. Olds sostiene che il cervello adulto è molto malleabile. Fino a pochi anni fa si pensava che le connessioni neuronali delle persone fossero tutte stabilite tutte durante l'infanzia e che rimanessero immutate nel corso della vita, adesso abbiamo le prove che i neuroni rompono continuamente le vecchie connessioni per formarne delle nuove. "Il cervello" asserisce Olds, "ha la capacità di riprogrammarsi al volo, modificando la maniera in cui funziona".
Così Carr fa notare che se si coniuga questo postulato con quello formulato da Daniel Bell, sociologo della Harvard University, si deve concludere che in breve finiremo tutti col pensare come Google, conversare come le e-mail e parlare come Twitter. Secondo Bell le persone finiscono inevitabilmente con l'assumere le qualità delle tecnolgie intellettuali che utilizzano. Le tecnologie intellettuali sono quelle che, come fa l'internet, estendono le nostre capacità mentali ma non quelle fisiche.
La prova che questo possa veramente avvenire? Carr la trova nel carteggio che correva tra Friedrich Nietzsche e un suo amico compositore. Oramai vecchio e debole di vista, Nietzsche acquista una macchina per scivere. All'amico che gli fa notare che questa sta cambiando il suo stile Nietzsche risponde: "E' vero, gli strumenti con i quali scriviamo prendono parte alla formazione dei nostri pensieri". La prosa di Nietzsche era passata dalla retorica allo stile telegrafico, dagli argomenti agli aforismi e dal ragionamento alla battuta.