Voi cosa ne pensate di tutta la faccenda?Serve una politica ambientale (non industriale)
Il problema dell’Ilva di Taranto ha rinnovato antiche invocazioni sulla esigenza di una «politica industriale». Questo termine, che da noi ha sempre significato tenere aperte fabbriche decotte con i soldi dei contribuenti per salvare posti di lavoro, a Taranto sembra trovare un esempio virtuoso: l’impianto è tra i più competitivi del mondo e la bonifica sembra costare solo 350 milioni, che significa 25.000 euro per addetto (15.000 gli addetti a Taranto, includendo l’indotto), vale a dire due anni di tasse e contributi.
Ma il problema da risolvere non è così semplice: la spesa di 350 milioni serve forse a fare in modo che l’Ilva possa andare avanti, anche perché le emissioni dichiarate oggi sono probabilmente vicine agli obiettivi ambientali, dopo il miliardo e più di investimenti fatti da Emilio Riva dopo esserne diventato il proprietario. Ma negli ultimi 50 anni decine di chili di diossina sono state rilasciate nell’aria e nei terreni e sono progressivamente filtrate nella falda acquifera. La bonifica di un tale disastro è una spesa faraonica, che probabilmente non è fattibile senza chiudere lo stabilimento.
Di siti come Taranto, eufemisticamente chiamati Sin («Siti di interesse nazionale», sarebbe più appropriati chiamarli «Siti di ignominia nazionale») ne abbiamo una sessantina, alcuni per fabbriche chiuse da tempo (come l’Acna di Cengio) e altri che continuano a inquinare alla grande (per esempio praticamente ovunque ci sono raffinerie — l’unica bonificata è quella di Porto Marghera). Le stime epidemiologiche parlano di centinaia di morti per sito. I nostri politici da anni fanno come gli struzzi, senza definire una politica che definisca le priorità di bonifica, decida chi deve pagare e definisca piani di azione per ognuno dei siti. Alla fine arriva il magistrato che se la prende con l’ultimo arrivato, che non c’entra nulla con il disastro combinato prima di lui (nel caso dell’Ilva, Emilio Riva). Il problema delle bonifiche industriali lo hanno anche altri Paesi, ma non li risolvono i magistrati, bensì politiche ambientali locali rigorose: negli Stati Uniti, da noi tanto criticati per non avere ratificato il protocollo di Kyoto, le battaglie tra le comunità di residenti sul fiume Hudson e la General Electric sono avvenute negli Anni 70. E le bonifiche industriali non sono l’unico esempio della spaventosa arretratezza della nostra regolamentazione ambientale: la «monnezza» di Napoli ci ricorda tutti giorni il fallimento regolatorio nello smaltimento dei rifiuti urbani, dopo decenni di discariche abusive gestite dalla criminalità organizzata che hanno raccolto rifiuti industriali tossici del Nord e avvelenato i territori del Sud, inculcando nelle popolazioni l’equazione rifiuti=veleno.
Viene il dubbio che la leggendaria «forza industriale» del nostro Paese vada forse rivalutata, se un recente studio del McKinsey Global Institute dimostra che, a parte le solite straordinarie «nicchie» (esempio macchine utensili e abbigliamento di lusso), siamo deboli nelle industrie «knowledge intensive» (dove conta la miglior formazione e la eccellenza nel valorizzare il capitale umano) e forti in quelle ad alta intensità di capitale (es: impianti siderurgici e chimici) e di lavoro (esempio tessile). Nei Paesi sviluppati molti di questi settori sono «emigrati» da tempo verso Paesi emergenti dove la salute dei cittadini preoccupa meno del lavoro (che costa pochissimo).
Il problema dell’Ilva è stato affrontato in questi giorni dal ministro dello Sviluppo economico e da quello dell’Ambiente, che hanno entrambi auspicato una ripartenza immediata di Taranto per salvare i posti di lavoro negli alti forni, (e quindi Pil e spread) e ridurre la tensione sociale. Si sono comportati esattamente come molti loro predecessori e forse non avevano altra scelta. Ma continua a mancare una strategia che invece di proteggere i posti di lavoro del passato, incentivi la creazione dei posti di lavoro del futuro. Come continuano a mancare le nuove regole per risolvere i drammatici problemi di inquinamento industriale che da 50 anni creano gravissimi danni alla salute di migliaia di italiani.
Roger Abravanel
Fonte: corrieredellasera.it
Da un lato ci sono gli interessi economici e lavorativi della città, dell'azienda e di tutto il Paese ( inteso come Italia) considerando i 30mila posti di lavoro che l'Ilva mantiene, ma dall'altra parte c'è la salute della gente che ha lavorato per anni lì e dell'intera popolazione tarantina.