Scienza senza ombra di dubbio.
Riporto i ragionamenti di Odifreddi; costituiscono l'introduzione al libro "La prova matematica dell’inesistenza di Dio":
E’ possibile dimostrare l’affermazione che «Dio non esiste »? Certo, e molto facilmente! Consideriamo infatti quest’altra: «Questa affermazione e la precedente sono entrambe false». Se essa fosse vera, dovrebbe essere falsa (insieme alla precedente), perché è appunto ciò che dice. Questa contraddizione dimostra che la seconda affermazione non può essere vera, e dunque dev’essere falsa. Ma allora è vero il contrario di ciò che dice, e le due affermazioni non possono essere entrambe false. E poiché abbiamo appena dimostrato che la seconda lo è, la prima affermazione dev’essere vera: dunque, Dio non esiste.
Una volta sistemato il principale, possiamo passare al suo sedicente vicario in Terra: sostituendo l’affermazione «Dio non esiste» con «il papa non esiste», si può infatti ripetere lo stesso ragionamento e arrivare alla conclusione che anche questa affermazione è vera. Con un colpo di bacchetta magica abbiamo dunque fatto sparire dalla scena anche Benito XVI (come lo chiamano gli spagnoli, con gran divertimento dei progressisti italiani), e ripetendo il giochetto possiamo analogamente eliminare uno a uno, come petali di una gigantesca margherita, non solo i cardinali e i vescovi, ma addirittura tutti i preti di ogni religione e i credenti di ogni fede. Pensate che meraviglia, per noi che rimaniamo: come aveva infatti predetto José Saramago, «il mondo sarebbe molto migliore se fossimo tutti atei».
C’è solo un piccolo, insignificante problema: basta guardarsi attorno per accorgersi che i credenti non sembrano essere consci di non esistere, e nonostante la nostra inoppugnabile dimostrazione continuano imperterriti a rendere questo mondo molto peggiore con la loro presenza. Anzi, qualcuno di loro versato in queste cose potrebbe addirittura ritorcerci contro i nostri argomenti: non solo dimostrando che siamo noi non-credenti a non esistere, ma addirittura arrivando a provare che «Dio esiste », esattamente nello stesso modo in cui noi abbiamo provato il contrario.
Come si può indurre in generale da questo esempio, gli argomenti a favore o contro l’esistenza di Dio sono controvertibili e controversi. E, soprattutto, lasciano il tempo che trovano, non fosse altro perché si appellano al lato sbagliato del cervello: la religione trova infatti la sua ragion d’essere nell’emisfero destro, sede dell’istinto e della visceralità, e non viene minimamente scalfita dagli attacchi che le vengono sferrati dall’emisfero sinistro, sede della logica e della razionalità. Non è dunque per convincere i credenti che la loro religione non sta in piedi, che un matematico come John Allen Paulos ha scritto La prova matematica dell’inesistenza di Dio : semplicemente, il suo libro vuol essere, ed è, una «refutazione matematica degli argomenti per l’esistenza di Dio».
Anche se non eliminerà né i fedeli né i preti, e meno che mai il papa e Dio, questa decostruzione della teologia non è comunque inutile, ed è anzi molto utile, per almeno tre motivi. Anzitutto, perché mostra come sia vano cercare di stabilire in maniera puramente teorica un fatto eminentemente pratico, come l’esistenza di qualcosa o di qualcuno: solo l’osservazione e gli esperimenti possono farlo, e qui passa il confine tra il razionalismo e l’empirismo che divise la filosofia moderna ai suoi albori, separando Cartesio, Spinoza e Leibniz da un lato, e Locke, Berkeley e Hume dall’altro.
Non a caso, è soprattutto nelle opere dei primi, per esempio nelle Meditazioni di Cartesio e nell’Etica di Spinoza, che ci si appella agli argomenti intellettuali per l’esistenza di Dio, ed è soprattutto nelle opere dei secondi, per esempio nei Dialoghi sulla religione naturale e nella Storia naturale della religione di Hume, che si smontano le credenze popolari e le religioni istituzionali. Ma è nelle grandi opere di Kant, la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica, che sono coniugate al meglio queste due tendenze: la prima, infatti, fa piazza pulita delle argomentazioni «pure», cioè razionali, per credere nell’esistenza di Dio, mentre la seconda presenta le motivazioni «pratiche», cioè irrazionali, per continuare a crederci nonostante tutto.
Il secondo motivo per cui una decostruzione della teologia è utile, sta nel fatto che essa richiede comunque una certa sofisticazione intellettuale: in fondo, già seguire l’argomento che abbiamo proposto nel primo paragrafo non è cosa per tutti i dilettanti, e capire dove sta l’inghippo è addirittura cosa da pochi professionisti. Dietro ai supposti argomenti per l’esistenza di Dio si celano infatti sottili problematiche di tipo logico, la cui analisi è un ottimo allenamento al ragionamento in generale, e un’ottima introduzione alla logica in particolare. (...)
Il terzo motivo, infine, per cui decostruire la teologia è un’attività benemerita, è che in tal modo si smaschera una pessima e diffusa abitudine delle persone: quella di prendere posizione a favore o contro un argomento, senza sapere bene di cosa si stia parlando. Nello specifico, di rispondere «sì» o «no» alla domanda se credono in Dio, senza prima aver domandato a loro volta precisazioni su che cosa si intenda per «Dio», perdio!
E invece, poiché la nozione ha molteplici accezioni, le domande sulla sua esistenza possono avere altrettante risposte diverse. Per esempio, un conto è parlare di un primo motore, e un altro di una causa prima, o di un ente necessario, o di un ente perfetto, o di un fine ultimo: cioè, delle cinque «vie» che Tommaso d’Aquino discusse nella sua Summa Theologiae e che, come anticipò filosoficamente Kant nella sua prima Critica, e come conferma scientificamente Paulos nel suo libro, sono più precisamente delle «vie senza uscita» che non conducono a nulla e da nessuna parte.
Naturalmente, sarebbe comunque un eccesso di stima nei confronti dei credenti pensare che dietro alle motivazioni della loro fede ci siano sempre argomenti sofisticati: nella maggior parte dei casi, essi si riducono infatti a far appello a banalità che non vale neppure la pena di perder tempo a refutare, dall’impersonale «qualcosa ci dev’essere» al personalissimo «sento che qualcosa c’è». E, in fondo, i media prosperano proprio speculando sul fatto che la gente è molto più impressionata dalle sciocchezze che non capisce, che dalle cose serie che potrebbe capire: per questo i giornali e le televisioni eccedono in resoconti di improbabili eventi straordinari, ma difettano di notizie su sicure scoperte scientifiche.(...)
Ma nonostante il rosario di refutazioni e motivazioni snocciolato da Paulos nel suo denso libro, il problema principale rimane irrisolto: non se Dio ci sia, ma perché la gente continui a pensare che ci sia. Mistero della fede, ovviamente, anche se il più grande mistero è sicuramente perché mai la gente creda ai misteri. E non è un mistero senza conseguenze perché, come ha detto Voltaire, «chi crede ad assurdità, finisce per commettere atrocità». O, come ha precisato il premio Nobel per la fisica Steven Weinberg, «con o senza religione, i buoni si comportano bene e i cattivi male, ma ci vuole la religione per far comportare male i buoni».