Angela Bubba è nata a Catanzaro nel 1989. Nel 2009 ha pubblicato La casa (Elliot edizioni) che ha vinto il Premio Minerva, ed è entrato nei dodici finalisti del Premio Strega 2010.
Ora è da poco nelle librerie il suo secondo romanzo, MaliNati (Bompiani), in cui racconta com’è vivere e crescere nella sua terra, la Calabria.
Qui per noi ha voluto scriverci cosa significa per lei essere una giovane calabrese che studia e lavora a Roma. Possono nascerne degli spunti interessanti: voi cosa ne pensate?
L’università Sapienza, e più in generale l’intera città di Roma, sono posti che letteralmente straripano di ragazzi e ragazze (e non solo) meridionali, e quindi anche di calabresi. Si possono incontrare al bar e nelle pizzerie ad esempio, o nelle strade o sugli autobus, e accanto alle fermate della metro, nei negozi, ai ristoranti, ai concerti, facendo la fila agli sportelli bancomat, nei supermercati.
Credevo – anche fino a qualche giorno dopo il mio trasferimento in questa città - che Roma fosse un posto meravigliosamente grande e anonimo, una specie di dinosauro tatuato di volti che non sapevano niente l’uno dell’altro, un’immensa pozzanghera screziata dove le tinte si mischiavano senza possibilità di scindersi, di riconoscersi. Inutile dire che già a una settimana di distanza le cose apparivano molto diverse.
I meridionali erano, e continuano ad essere, ovunque; e io li riconoscevo, li guardavo e pensavo di non sentirmi poi così sola. Mentre facevo spesa o giravo in libreria, mentre passeggiavo, mentre frequentavo la facoltà di Lettere: mi sentivo quasi a casa
Appunto, quasi. Era infatti, anzi è, una strana sensazione di domesticità quella che provo, non definibile; una sorta di sentimento-cerniera che però non ha la piena consapevolezza di doversi schierare, schierare con tutto se stesso, come una gamba che non riesce a decidere da quale parte della soglia stare: se all’interno o all’esterno, se più verso un punto o più verso un altro. Non riuscivo a definire questa situazione quattro anni fa, e non ci riesco tuttora.
Le cose, le dimensioni, le stratificazioni che vedo e che sento, insieme al mio ancora poco coagulato senso d’estraneità (come d’appartenenza), non sono cambiati. È sempre tutto incerto, precario, sospeso; e quando mi trovo in università soprattutto, la sospensione diviene qualcosa di davvero stridente, surreale, essendo il posto dove più incontro gente meridionale e perciò anche il posto che più mi costringe a razionalizzare la mia condizione, a tentare di decodificarla.
Tuttavia, il risultato che ottengo, non è granché: nella maggior parte dei casi esso si chiama confusione, tristezza, disillusione.
Le giornate universitarie sono infatti veri e propri coma ad occhi aperti, perciò non mi aiutano; sono stati di pura infinita paranoia, d’immersione in una bolgia di corpi di continuo spintonati e schiacciati da questo o da quell’altro governo o ministro o rettore, poco importa. Anche in questo caso il risultato non cambia, non è cambiato
L’ingresso della Facoltà è identico, giornata dopo giornata: una melma luccicante fatta di gente che fuma, beve caffè o ripassa degli appunti, che dipinge e attacca cartelli; di professori, studenti e studentesse; di ragazzi che vendono libri all’ingresso; di avvisi più o meno giganti ma sempre coloratissimi - quasi sembrano pieni di gioia! - , sempre inequivocabili; di striscioni che parlano della mostruosità della politica italiana, del fatto che ormai siamo diventati i prostituti delle banche, della crisi, dell’impotenza, della pena che stiamo vivendo, della nostra morte.
Di norma c’è delusione, c’è anche un po’ di rabbia, nelle parole con cui un ragazzo non meridionale cerca di spiegare questa situazione. Nelle parole di un ragazzo meridionale, invece, magari anche calabrese, c’è qualcosa di più. Di più intenso e doloroso, di accecante, e allo stesso di inespresso. Chi è costretto a partire, ad allontanarsi, verrà ripagato: questo l’augurio. Ma dove finisce l’augurio e inizia la realtà, dove finisce il miraggio e inizia la verità, ovvero l’Italia, credo sia abbastanza evidente
In un pantano soprannominato università, in questo caso specifico Sapienza, non facciamo che augurarci qualcosa e contemporaneamente abortirla, vomitarla. Perché sappiamo già che ne siamo privi.
E la differenza fra un ragazzo meridionale e un ragazzo non meridionale, risiede solo nella maggiore incredulità con cui il primo fatica ad accettarlo. Tutto il resto, tutte le altre dissomiglianze, non sono che impalcature scenografiche. Sono scorze, corazze, difese.
Andare ad abitare in quartieri colonizzati quasi esclusivamente da calabresi, così come organizzare e partecipare a feste per soli calabresi, o ad aperitivi, a riunioni, a circoli, a ristoranti calabresi che servono solo cibo calabrese: tutto ciò è asfissiante, è incredibile ed è vero; tutto ciò è sintomo di grandi fragilità e paure.
A diciotto, diciannove anni certo sei più esposto, quindi più sensibile, affascinabile.
A diciotto diciannove anni non basta un ritrovo trisettimanale coi tuoi corregionali nelle aule accademiche: sei un morto fra i morti in quel posto, e forse a loro neppure ci badi; o forse sì, ci badi e proprio per questo, dopo aver concluso che tu vuoi essere più vivo di loro, te ne allontani: cerchi l’altrove nell’altrove, cerchi la tua casa in un posto che non è la tua casa e non lo sarà mai (in senso stretto), cerchi una sua immagine che sia grande, senz’altro più grande di te. La protezione è un istinto in questo caso, non è egocentrismo.
E ugualmente l’autorelegazione diventa un artificio per prevenire l’eventuale espulsione: è prevenzione. In questo modo tutto pare placato, cauterizzato, vivibile. Una città come Roma si fa meno sinistra e spaventosamente si rimpicciolisce, assume la forma di un parco giochi o di un lunapark che non è pericoloso, non è cattivo, non è nemmeno più estraneo.
È soltanto irreale, è illusione. Il giorno dopo, e probabilmente pure quello dopo e quello dopo ancora, le cose torneranno al loro stato originario: straniere e familiari insieme, poco solide e poco definite, poco chiare.
Molti ragazzi calabresi con cui ho parlato mi hanno detto che non devo preoccuparmi però, che tutto ciò ha a che fare col senso della liberazione e che quindi è normale, è indispensabile che il disorientamento e anche un po’ di malessere siano presenti. «È normale, fa parte della liberazione» mi rispondono spesso.
E mentre pronunciano quell’ultima parola, loro sembrano felici.
Angela Bubba
(Essere giovani e meridionali oggi fa ancora sentire diversi? | Solferino 28 anni)
Stavo spulciando sul sito del corriere qua e là e ho trovato questo articolo.
Mi ha colpito e l'ho postato.
Nel caso qualcuno avesse voglia di leggerlo tutto , potrebbe scrivere qualche esperienza interessante!