Negli occhi di una città vibrano i destini. Negli occhi dei protagonisti lampeggiano furori di autodistruzione. Un coro canta e contrappunta gli snodi, sulla riva del Bosforo, luogo di antica bellezza e civiltà, sull'acqua tranquilla, solcata da gabbiani, che passa e va, incurante, senza tempo. Il determinismo di questa pellicola non concede ammiccamenti al lieto fine. Un quadro perfetto di annullamenti cercati e rinnegati, una danza nervosa e drogata di ferite fisiche e morali. Non c'è spazio per l'amore, almeno nei suoi tempi essenziali e naturali. L'amore arriva quando non lo cerchi, se e perchè non te ne poni il problema, vivido e scottante come la fiamma di un altare rovesciato. E quando l'amore arriva, non c'è più tempo, essendo già stato consumato nell'ansia di vivere, o nella impossibilità di farlo. C'è l'alcool,c'è la droga, c'è il sesso come chiave di volta della disperazione. Ci sono poi i natali, qualificanti galloni che firmano la condanna o l'ascesa al paradiso degli ultimi. Istanbul ci appare come troppo distante dal centro di instabilità permanente dei protagonisti: è il luogo dove il sentimento ha modo di consumarsi e perfezionarsi ma è anche il coacervo ostile di stilemi dimenticati, o mai conosciuti. "La sposa turca" è, nella sua seconda parte, un viaggio senza consolazione in luoghi troppo belli per essere compresi da chi, della bellezza, ha fatto volontariamente, e consapevolmente, a meno. Sempre che, come pure può sorgere il sospetto, bellezza non ci sia nell'incrocio di follie e tristezze, nello scambio sconsolato di esperienze al limite. L'amore non può che colpire chi condivide un tratto di via, seguendo le stesse indicazioni, pur ostinandosi a fingere di non riconoscersi.

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