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Tragica fine di un turista italiano a Cuba

  1. #1
    haiko_fujuri
    Utente bannato

    Predefinito Tragica fine di un turista italiano a Cuba

    Agostino Anselmi è un uomo coraggioso. Coraggio che solo la morte improvvisa e assurda di un figlio ti può dare: Carlo, 43 anni, imprenditore, nell’agosto del 2009 è partito per una vacanza a Cuba ed è tornato in una bara. Carlo Anselmi è morto il 28 agosto nell’ospedale di Santa Clara, a duecento chilometri da L’Avana, per choc settico provocato da un batterio, l’acinetobacter. Ma il papà di Carlo non si è mai accontentato della motivazione ufficiale, che presenta diversi punti oscuri. A cominciare dalla sera del 18 agosto, quando Carlo, in un residence di Cayo Barcelo, sulla costa est dell’isola, si sente male dopo aver bevuto una lattina di «Cuba Cola», una bevanda analcolica simile alla «Coca Cola» prodotta da un’azienda svedese per il mercato cubano. «Mio figlio stava molto male, ricorda Agostino. Le fitte allo stomaco erano fortissime, così gli amici che erano con lui chiamano il medico dell’hotel e lo fanno visitare. Malgrado cominciasse già a perdere sangue dalla bocca, il medico non si rende conto che Carlo aveva lo stomaco perforato. Così gli somministra due calmanti per endovena. In questo modo le condizioni di Carlo peggiorano subito.» Il medico a questo punto decide di trasportarlo con un furgoncino privo di qualsiasi assistenza all’ospedale più vicino, quello di Santa Clara, a circa tre ore di distanza.

    uesto è solo l’inizio di una storia che assume contorni sempre più assurdi. «Durante il viaggio di quasi tre ore per raggiungere l’ospedale – ricorda Anselmi – l'autista del furgone ha anche dovuto fermarsi in farmacia per acquistare una flebo.» Agostino Anselmi, 70 anni, abita a Seregno in zona Cimitero principale. Ci incontriamo nel suo ufficio, a Capriano, nella sede della sua ditta, la Gavo Srl, che fino a qualche anno fa produceva pezzi di ricambio per auto, moto e soprattutto biciclette («prima dell’arrivo dei cinesi. Adesso ci limitiamo a distribuirli»). Carlo avrebbe dovuto prendere il suo posto alla guida dell’azienda. «A Santa Clara – prosegue il suo racconto – Carlo è operato d’urgenza». E precisa subito: «È la prima delle tre operazioni in sette giorni a cui sarà sottoposto. Per i cubani avere un paziente straniero è come vincere un terno al lotto: a ogni operazione corrisponde una fattura.»


    L’intervento è lungo e, il giorno dopo, intorno alle 7 e mezzo del mattino, Carlo, con un taglio di 50 centimetri nel torace, è messo nel reparto di terapia intensiva. Il suo fisico è forte. Alto più di un metro e 90, non beveva alcolici, non fumava, era appassionato di sport (Anselmi mi mostra alcune foto di Carlo mentre si allena in palestra). «Era sano come un pesce. Andava dal medico una volta l’anno per il certificato per l’attività sportiva», ma le condizioni igieniche dell’ospedale sono disastrose e il rischio di contrarre un’infezione è altissimo. Dall’Italia Agostino si attacca al fax e al telefono: chiama la Farnesina, l’Unità di Crisi, il Consolato a Cuba e l’assicurazione con cui Carlo aveva sottoscritto una polizza, che prevedeva una copertura in caso di ricovero. «In quei giorni ho speso quasi 7 mila euro in telefonate, ma non era un problema di soldi. Chiedevo solo un aiuto per organizzare il trasporto di mio figlio in Italia o in un ospedale più attrezzato, a Miami o al “Ciro Garcia” de L’Avana.» Non succede nulla. Le ore passano, i giorni passano, la febbre sale e Carlo peggiora. La situazione diventa sempre più critica.

    Non si muove nulla, così il 22 agosto, dopo quattro giorni dal ricovero, Anselmi arriva a Cuba, convinto che da lì sarebbe riuscito a portare via il figlio. Era ancora lucido Carlo?: «Si, certo. Da quando sono arrivato all’aeroporto di L’Avana, la sua voce mi ha guidato al telefono durante tutto il viaggio. Mi ha detto di non farmi fregare dal tassista, ‘ti chiederanno 500 dollari, mettiti d’accordo per 200’, di tenerlo sveglio durante il viaggio perché spesso si addormentano al volante, e di non spaventarmi all’arrivo in ospedale. Mi disse che avrei dovuto scavalcare le persone stese a terra, nei corridoi e che sarei dovuto salire al secondo piano.» E l’impatto con l’ospedale è drammatico. Cos’ha provato quando è arrivato a Santa Clara? «Paura». Dopo una breve pausa come se cercasse di rivivere quella sensazione riprende: «La struttura era fatiscente, c’era sporcizia ovunque, la tac e l’ecografia non esistevano, la macchina per i raggi x era del 1949 e il rilevatore sonoro del battito cardiaco era guasto. Sono stato con gli occhi fissi al monitor giorno e notte per avvisare gli infermieri nel caso il battito di Carlo cedesse.» Ma a Santa Clara non mancano solo gli strumenti diagnostici. «Nessuno, medici o infermieri, aveva la mascherina, non c’erano nemmeno le salviette per asciugare il sudore a Carlo. Usavano le lenzuola del paziente morto nel letto accanto. E i bagni, quando si intasavano, e succedeva spesso, “scaricavano” direttamente nel corridoio di terapia intensiva.» E Anselmi fotografa tutto per documentare le condizioni in cui si trova il figlio. Di nascosto perché «un amico di Carlo, il giorno del ricovero, era stato arrestato per otto ore e interrogato solo per aver fotografato l’ingresso dell’ospedale»). E l’Ospedale di Santa Clara era già stato chiuso, nel 2007, per un’invasione di scarafaggi e per i rischi di contrarre infezioni in sala operatoria.

    «Per cinque giorni sono stato accanto a mio figlio. Senza lavarmi, senza farmi la barba, dormendo pochissimo su una sedia e mangiando in ospedale, sempre con gli occhi fissi al monitor. Da solo. Soltanto io e Carlo. E intorno a noi medici, infermieri e persone che parlavano solo spagnolo.» Malgrado le difficoltà, Anselmi si dà da fare: cerca di far parlare i medici di Santa Clara con l’assicurazione e con i funzionari dell’ambasciata. Ma davanti ad Agostino sembra esserci un muro di gomma. La compagnia assicurativa in un primo momento sostiene di non avere l’autorizzazione dei medici cubani per trasferire Carlo, poi che le ambulanze dell’ospedale «Ciro Garcia» non potevano trasportare pazienti stranieri. L’Ambasciata, invece, sembra non esistere.E le parole di Anselmici portano dentro l’inferno che stava vivendo: «Mio figlio stava morendo e io ero accanto a lui e non potevo fare nulla: l’assicurazione ci aveva abbandonati e alla mia ennesima richiesta telefonica di spostare Carlo all’ospedale “Garcia” di L’Avana un funzionario dell’ambasciata mi rispose: “Non siamo qui a cercare ambulanze”. Abbiamo messo a disposizione aerei militari per portare negli ospedali italiani i terremotati di Haiti o, più recentemente, i feriti libici. Perché per mio figlio non sono riusciti a trovare nemmeno un’ambulanza?».

    Basta dargli il là e Agostino ricorda nomi, luoghi, date, persone, conversazioni con precisione e sicurezza. Il tono della sua voce è freddo e profondo e il suo sguardo è fisso su di me, ma mi trapassa. Sembra essere ancora a Cuba. Ha solo un cedimento quando gli chiedo cosa gli disse suo figlio durante la sua agonia: «Papà, se mi porti via ti sarò riconoscente per tutta la vita. Qui mi ammazzano», risponde con la voce spezzata da qualche lacrima. E aggiunge: «Bella riconoscenza. Avrei dovuto prendere un bisturi, puntarlo al collo di un medico e portare via Carlo». È solo un momento, poi Agostino riprende il suo racconto: «I funzionari dell’ambasciata hanno preso contatto con l’ospedale per organizzare il trasferimento solo il 27 agosto. Poche ore dopo Carlo è morto.» Prigioniero della burocrazia in un letto dell’ospedale di Santa Clara. Ma la via crucis di Agostino non è ancora finita. La salma di Carlo è portata in camera mortuaria («una cantina dell’ospedale») e lui è lì, ancora a fianco del figlio, ancora da solo. Arriva un autocarro con una bara. Sei uomini la scaricano, la aprono, estraggono un cadavere e si dirigono verso Carlo per metterlo nella bara «usata». Il papà si oppone, protesta, cerca di farsi capire. Ma la reazione è violenta: calci e pugni. Agostino, un uomo di settant’anni, distrutto dal dolore e dalla stanchezza, viene picchiato da sei uomini. Ma Carlo avrà la sua bara nuova: «solo perché la bara che avevano portato era per un cadavere di 1 metro e sessanta, mentre mio figlio superava il metro e novanta. Carlo non ci stava in quella bara», precisa Anselmi. Con Carlo nella bara nuova, Anselmi lascia Santa Clara a bordo di un furgone guidato da un autista ubriaco. Dopo un viaggio durato tutta la notte raggiunge l’Avana, il Centro di medicina legale, dove incontra, «per la prima volta dal giorno del ricovero di Carlo», precisa, un funzionario dell’Ambasciata, che doveva firmare per la consegna della salma, «infastidito perché erano le 4 del mattino. Ha firmato i moduli e se n’è andato. Non l’ho più né visto né sentito.»

    Anselmi torna in Italia dopo aver pagato 22 mila dollari per far rientrare il corpo di Carlo. Ma il dramma di Agostino sembra non finire mai. La bara, dopo un mese, arriva allo scalo merci di Malpensa, dove resta bloccata per tre giorni. Dopo i funerali, la Procura della Repubblica di Monza ordina la riesumazione della salma e, dopo aver aperto la bara («non sapevamo nemmeno se dentro ci fosse davvero il corpo di Carlo»), Agostino scopre che gli organi erano stati espiantati, «non solo gli occhi, ma anche quelli che solitamente non possono essere utilizzati per i trapianti, come la trachea. Mio figlio era stato svuotato e i resti erano in avanzato stato di decomposizione. Lo abbiamo riconosciuto solo da una ferita che aveva sul ginocchio».

    Da quanto è tornato, Anselmi, ogni giorno, telefona e scrive («non so più quante mail ho mandato») a tutti: dal Presidente della Repubblica, al ministro degli Esteri, dall’ambasciatore a Cuba, all’assicurazione. Così come Giacinto Mariani che, come Sindaco di Seregno, è l’unica istituzione che non lo ha lasciato solo: sono 45 le lettere che finora Mariani ha mandato, una la settimana (a cui si aggiungono due intterrogazioni alla Camera dei deputato Paolo Grimoldi). Ma di risposte nessuna traccia. Che cosa le dà la forza di andare avanti? «L’odio. Solo l’odio verso chi mi ha abbandonato. E ha lasciato morire Carlo». E l’ultimo pensiero di Agostino è la logica conclusione di un viaggio nel dolore iniziato il 28 agosto 2009: «Se non riesco ad ottenere delle risposte, non mi resta che fare come il protagonista di “Un giorno di ordinaria follia". Non posso lasciare perdere, qualcuno deve lasciare un segno.»



    «Mio figlio, ucciso dalla indifferenza»

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  3. #2
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    Quando muore un figlio è sempre un dolore quando si perde in modo assurdo. Questi fatti avvengono anche senza andare troppo lontano dall'italia (vedi Francia) dove ci si accorge che tutto il mondo è paese e non serve andare a cuba per trovare queste situazioni devastanti .
    Per tanto la madre di Anselmi si metta in coda perchè il suo caso è fotocopia di quello che avvenuto alla mamma di Franceschi che a sua volta deve mettersi in coda per il caso Renda ecc.. che ancora stanno aspettando giustizia per loro figlio e non si sono ancora rassegnate.
    Non capisco dove stia lo scandalo visto come vanno questi fatti: stanno diventando ordinaria amministrazione di non giustizia, la indifferenza diventa normalità. Se il nostro stato non sa farsi valere perchè gli altri paesi dovrebbero rispettarne i suoi cittadini?
    Per cui rassegnamoci perchè anche questo caso diventera un numero fra tanti numeri di una lunga macabra statistica.

    Il caso Franceschi
    La signora Antignano cerca, da un anno, di riavere indietro dalle autorita' transalpine gli organi del figlio, tuttora in Francia, dove sono stati espiantati per l'autopsia. Dalle lettere del figlio emergerebbero maltrattamenti subiti nella struttura penitenziaria di Grasse, confermati anche da alcune testimonianze raccolte in carcere. Dall'autopsia eseguita in Francia, Daniele sarebbe morto per cause naturali. Ma la signora Antignano, quando pote' vedere la prima volta il figlio, in quell'occasione, per l'autopsia a Nizza, lo trovo' con il volto tumefatto e il naso fratturato.

    Elementi confermati dall'esame autoptico svolto in Italia. Il problema, tuttavia, e' quello delle probabili lesioni interne, che i medici e le autorita' del carcere francese avrebbero sottovalutato, fino alla morte di Daniele. L'impossibilita' di svolgere un'ulteriore autopsia e la rimozione degli organi interni dal cadavere, il suo stato di elevata decomposizione, non hanno permesso di chiarire i dubbi. ''Io - afferma Cira Antignano - voglio giustizia, anche se so solo che non potro' mai darmi pace''.

    Prima si e' incatenata davanti all'Eliseo, poi e' riuscita a consegnare una lettera per Carla Bruni. ''La speranza e' l'ultima a morire, ma dell'inchiesta non si sa ancora niente'', e' il commento di Cira Antignano, che oggi era a Parigi, in occasione del primo anniversario della morte del figlio Daniele Franceschi, il 36enne di Viareggio (Lucca) deceduto in circostanze mai chiarite nel carcere di Grasse, nel sud della Francia, dove era detenuto con l'accusa di falsificazione e uso improprio di carte di credito in un casino' della Costa Azzurra.

    ''Sono andata all'Eliseo, mi sono incatenata - racconta la donna - Poi sono arrivati i poliziotti. Non volevano che stessi li'. Poi sono venuti due funzionari e mi hanno detto che potevo entrare, e allora ho lasciato una lettera per Carla Bruni'', nella speranza che la 'premiere dame' si attivi per risolvere la vicenda.

    La signora Antignano cerca, da un anno, di riavere indietro dalle autorita' transalpine gli organi del figlio, tuttora in Francia, dove sono stati espiantati per l'autopsia. Dalle lettere del figlio emergerebbero maltrattamenti subiti nella struttura penitenziaria di Grasse, confermati anche da alcune testimonianze raccolte in carcere.

    Dall'autopsia eseguita in Francia, Daniele sarebbe morto per cause naturali. Ma la signora Antignano, quando pote' vedere la prima volta il figlio, in quell'occasione, per l'autopsia a Nizza, lo trovo' con il volto tumefatto e il naso fratturato. Elementi confermati dall'esame autoptico svolto in Italia. Il problema, tuttavia, e' quello delle probabili lesioni interne, che i medici e le autorita' del carcere francese avrebbero sottovalutato, fino alla morte di Daniele.

    L'impossibilita' di svolgere un'ulteriore autopsia e la rimozione degli organi interni dal cadavere, il suo stato di elevata decomposizione, non hanno permesso di chiarire i dubbi.
    Caso Franceschi, madre s'incatena davanti Eliseo: consegna lettera per Carla Bruni - Adnkronos Toscana

    Il caso renda
    Lecce, 20 dic.2011 - (Adnkronos) - Otto rinvii a giudizio in Italia per la morte del bancario leccese Simone Renda, avvenuta nel 2007 in Messico, dopo essere stato arrestato dalla polizia locale. A finire sotto accusa oltre ai poliziotti e ai responsabili del carcere anche un giudice messicano. Una decisione che arriva dopo l'opposizione degli avvocati della famiglia di Simone alla richiesta di archiviazione. Il processo si terrà il 28 aprile davanti alla Corte d'Assise di Lecce.

    Un viaggio, quello di Simone per il Messico, senza ritorno. Arrivato a febbraio, il giovane viene portato via dalla Polizia turistica messicana il primo marzo mentre si trova in albergo a Playa del Carmen ritenendolo colpevole del reato di "disturbo della quiete pubblica". Nella sua stanza il giovane, in realtà, avrebbe avuto un malore. Dopo 42 ore, il 3 marzo, in cella Simone viene trovato senza vita. Qui l'inizio della lotta per la verità portata avanti dalla famiglia.
    Una giornata decisiva, quella vissuta oggi a Lecce. "Importante - spiega all'ADNKRONOS Fabio Valenti legale della madre di Simone Renda - è stato il passaggio dall'accusa di abbandono di incapace a quello di omicidio volontario. Una decisione che può fare scuola per casi simili, dove gli italiani all'estero si sono trovati in situazioni di difficoltà". La procura di Lecce si è avvalsa della Convenzione Onu del 1984 "contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti".

    "La giustizia oggi ha trionfato - ha affermato Cecilia Greco Renda - e ringrazio gli avvocati Fabio Valenti e Pasquale Corleto mi hanno sostenuto. Simone amava il prossimo e spero che il suo nome da oggi possa vivere per sempre aiutando altre famiglie ad avere giustizia per i loro cari".

    La madre di Simone che in questi anni ha sempre portato avanti la sua battaglia ha anche aperto un gruppo su Facebook 'Giustizia per Simone' che conta oltre 1.440 iscritti. "Un modo - dice Cecilia Greco Renda all'ADNKRONOS - per ricordare la storia di mio figlio e per chiedere giustizia. Oggi è stato con il rinvio a giudizio è stato fatto un primo passo in questa direzione". Nel gruppo Cecilia ha raccolto le foto del figlio e i messaggi lasciati in bacheca sono un coro unanime di richiesta di verita' e giustizia per il 34enne leccese.

    Una storia quella di Simone che riporta a quella di Daniele Franceschi, l'operaio di Viareggio 36enne morto il 25 agosto scorso nel carcere di Grasse, in Francia. Secondo le autorità transalpine, Franceschi è deceduto a causa di un infarto, mentre la mamma di Daniele è convinta che il figlio sia morto per maltrattamenti e per mancate cure.
    Bancario italiano morto in cella in Messico: poliziotti e un giudice a processo a Lecce - Adnkronos Cronaca

    l'elenco potrebbe ancora continuare

  4. #3
    Too Many Humans Oregon
    Uomo 33 anni da Venezia
    Iscrizione: 17/10/2006
    Messaggi: 17,172
    Piaciuto: 4931 volte

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    Mi chiedeo se i controlli a queste bevande vengano fatti..

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