Ore 9.00. Giovedì 25 marzo 2010.
Appuntamento in un ospedale cattolico di Roma per l’ecografia morfologica al quinto mese di gravidanza. Arriviamo nella piena spensieratezza. Alle 9.30 ci chiamano e inizia la pratica dell’ecografia con l’invito del medico a “svuotare la vescica”. Da questo momento la mia vita non sarà più la stessa. La vita non è mai la stessa, di volta in volta, di respiro in respiro. Ci sono volte però in cui la vita si ferma, si spezza. Il feto è “malconcio”, non si è sviluppato il cervelletto, tetralogia di Fallot e altro. “Correte al San Camillo”. Ventiduesima settimana. Siamo strettissimi per i tempi legali dell’aborto terapeutico ammesso in Italia entro la ventiquattresima settimana. Per chi ne resta fuori un’alternativa è la Spagna. Esco dall’ospedale e dopo mesi che non lo faccio mi accendo una sigaretta e la fumo tremando. La nostra via crucis è iniziata.
Al San Camillo andiamo diretti agli uffici addetti alla 194. Non ci sono responsabili che firmino il ricovero e l’accettazione della “pratica”, non ce ne saranno fino a lunedì. Per ora non capisco bene cosa voglia dire, lo capirò nei prossimi giorni, quando mi imbatterò nel sistema intermittente “obiettori-non obiettori”, quindi nell’applicazione zoppa della 194, che prevede la costante presenza di non obiettori nei luoghi in cui la legge viene applicata. Si aprono le ipotesi, tutte fuori dal San Camillo: il Grassi di Ostia, il San Filippo Neri di Roma. Acquisisco il dato e mi incammino verso il San Filippo Neri. Sono le 13.30 del 25 marzo.
Le infermiere aprono la cartella. La ginecologa ha finito il turno, ma riescono a recuperarla nei corridoi e la portano nella stanza in cui mi trovo. “Se sei un obiettore con te non ci parlo”. E’ il segnale che inizio ad avere paura. Mi prende per un braccio, caccia via tutti e mi invita a sedermi. Erre francese, bella donna, adulta, umana, empatica. Scoprirò poi, con un sorriso, di chi si tratta. “Non si metta mai di traverso agli obiettori. Lo dico per lei [...] Sta per affrontare un’esperienza più grande di lei [...] Stiamo per fare una cosa contro, contro natura. Indurremo il parto e aspetteremo le contrazioni. Metteremo una prima candeletta (il termine sta a indicare l’ovulo vaginale di stimolazione del parto) ma non basterà. Dopo dieci ora inseriremo la seconda candeletta e forse neanche questa basterà”. Vi ricordate la canzoncina “Un elefante si dondolava…”?
“Voglio essere addormentata e risvegliarmi quando tutto è finito.” “In Italia non è possibile anestetizzarla e aspirare il feto.” Per ora penso che il sistema adottato in questo paese sia solo una crudeltà nei miei confronti.
Alle 14.30 scendo di due piani. Reparto pichiatria. Ho bisogno di un certificato che dichiari la mia inabilità psichica a sostenere una maternità come quella che mi è capitata. Il colloquio è una formalità, o meglio, un’ipocrisia. Posso scegliere, e d’altronde nessuno mi ha messa di fronte alla scelta, nemmeno l’ecografista; in realtà però non è che io sia proprio libera di scegliere. Libera di riconoscermi matta. Meno male che da giovane ho letto Foucault. Esco col mio certificato e lo consegno al reparto Ostetricia Ginecologia. Il ricovero è previsto per l’indomani mattina. Torno a casa ed è quasi sera. Mi aspetta la prima delle notti senza sonno. Senza tutto. La mattina dopo io e il mio compagno (rinominato marito in ospedale. Tutti i miei principi, le mie idee su convivenza e matrimonio vanno a farsi friggere e sinceramente non me ne importa niente. Non ribatto nemmeno una volta) prendiamo il trenino che ci porta proprio di fronte al San Filippo Neri. Siamo puntualissimi ma questo serve a poco.
Il medico che mi ha accolta il giorno prima non è di turno. Aspetto che si liberi un letto e non è detto che vada tutto liscio: se arrivasse una partoriente mi scavalcherebbe nel sistema dei codici rosso giallo verde che quasi tutti abbiamo sperimentato al pronto soccorso. Dopo ore di attesa, alle 16.00 del 26 marzo mi ricoverano. Sto tremando, ma non è ancora tempo. Il medico di turno è un obiettore, non inizierà la stimolazione del parto. Dovrò aspettare la sera, quando di turno sarà la ginecologa incontrata il giorno prima, la donna dalla erre francese. Il mio letto si trova nel reparto di Ginecologia, un proseguimento di quello di Ostetricia, due luoghi che si mescolano e si confondono anche nella sistemazione delle pazienti. Mi aggiro tra donne al nono mese in dolce attesa. Meno male gli amici, le amiche, gli affetti che restano fino a tardi con me, quando chiedo di avere un ultimo colloquio con un ecografista. Sono le 22.30 e io e il mio compagno veniamo ricevuti da quello che soprannominiamo Dottor House.
Diretto, quasi crudo, mentre parla mi dà l’idea che nonostante tutto la vita ancora lo appassioni. “Qui arrivano coppie che pensano che il prodotto del loro concepimento sia il migliore del mondo. Ma la vita è una questione di culo.” Sfoglia il referto ecografico. “Quando c’è un tale casino la causa è sempre una cazzata. Non è mai genetica.” La cosa mi rincuora e allo stesso tempo mi mette di fronte alla fragilità dell’esistente, del mio intimissimo esistente. Usciamo dal suo studio e inizia la stimolazione del parto. Non ho scelta, e in questo forse sono stata fortunata. Mai come questa notte l’ho sentito muoversi dentro di me. Faccio finta di non sentirlo, e non è facile perché l’ho amato con tutto il mio cuore. Il mio compagno torna a casa a riposare un po’. Mi addormento anche io e alle 3.00 mi sveglio con i primi dolori, comincio ad aggirarmi per l’ospedale, da una corsia all’altra, da un corridoio all’altro, fino alla mattina.
Mi tengono a digiuno e applicano la seconda candeletta. La ginecologa non obiettrice che prosegue la stimolazione del parto è di turno fino alla sera, mi sistema in sala parto e si prende cura di me; le seguirà un medico obiettore, cioè se la stimolazione non sarà stata sufficiente dovrò resistere ai dolori delle contrazioni che non si fermeranno e aspettare che arrivi il turno di un nuovo non obiettore. Per me il tempo si sospende. Lentamente vado in trance e tutto il mondo si chiude nel cerchio di ciò che sto vivendo. Arriva l’obiettore ma io ho “fortuna”. Le due candelette sono sufficienti e alle 2.15 avviene “l’espulsione”. Poi il raschiamento, poi crollo e mi addormento fino alla mattina. Tutto è finito, ma i termini legali dell’operazione rimandano le mie dimissioni a 24 ore dalla piccola anestesia fattami per il raschiamento. Ho perso il mio vecchio letto in Ginecologia e vengo sistemata in Ostetricia, cioè dormirò insieme alle puerpere. Sono incazzata nera e voglio firmare, ma la fortuna mi abbandona e mi capita una ginecologa di turno che senza ammettermi a colloquio fa sapere all’infermiera che non posso andarmene dall’ospedale per un’ecografia che in realtà non devo fare. Ha da passa’ la nottata e la nottata passa. Il giorno dopo, finalmente, torno a casa. E’ lunedì 29 marzo.
Nei giorni che seguono scopro chi è la ginecologa dalla erre francese che mi ha accolta e ha messo a disposizione la sua umanità e la sua professionalità nel sistema delle disfunzioni dell’applicazione della 194. Mirella Parachini, una donna che dagli anni settanta lavora in difesa della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza. Per quanto mi riguarda, penso che il sistema italiano di aborto terapeutico sia stato per me la via migliore, perché non ho dormito, sono rimasta lucida, l’ho fatto io, ne sono stata consapevole, col corpo e con la mente. Eppure, mi chiedo, se una donna fosse davvero psichicamente inabile a sostenere una maternità insostenibile, come è possibile chiederle di sostenere lucidamente, col corpo e con la mente, un dolore come quello che ho affrontato io? Le mie riflessioni sull’interruzione di gravidanza non si fermeranno qui, continueranno a fare i conti con le contraddizioni umane, sociali, sanitarie, ideologiche, politiche. Mi domando: non bastava il mio intimo strazio? Disfunzioni e contraddizioni sulle carne viva. La mia e non solo.
Monica Micheli
Rimasi allibita, qualche anno fa.
Non avevo mai parlato con donne costrette all'aborto terapeutico.
Successe ad una mia conoscente. Quando mi disse che fu costretta a partorire il figlio morto, al 6° mese di gravidanza, rimasi così
Questa è pura crudeltà.