Il giornalista, scrittore e critico tv si è spento nella sua casa di Cambridge.
Ironico, arguto, erudito, è stato per anni una colonna di "Repubblica".
Americanista, poi storico collaboratore del nostro giornale, tenne per anni
la rubrica di critica televisiva "A parer mio". E quel cameo per Moretti...
ROMA - Il mondo della cultura e del giornalismo piange la scomparsa di Beniamino Placido. L'intellettuale, scrittore e critico cinematografico lucano, che per anni è stato anche una colonna e una firma prestigiosa di Repubblica, se ne è andato dopo una lunga malattia, all'alba di oggi. Era nella sua casa di Cambridge, in Inghilterra, dove si era trasferito circa due mesi fa. Vicina a lui, fino all'ultimo, la figlia Barbara.
Coltissimo, sempre ironico, indagatore curioso dei fenomeni culturali (anche quelli considerati "bassi"), Placido è stato una voce unica, nel panorama italiano. Un uomo capace di interpretare lo spirito del tempo, ma che in qualche modo portava dentro di sé anche lo status di grande intellettuale meridionale. Figlio di quel Sud in cui era nato: a Rionero in Vulture, in Basilicata, nel 1929.
Studi classici, seguiti da una parentesi di lavoro come consigliere presso la Camera dei deputati: poi Placido si specializza in letteratura americana, e consegue la cattedra in questa disciplina all'università La Sapienza di Roma. Ma la sua grande competenza letteraria non è mai stata un "ghetto", per quanto appassionante, in cui la sua intelligenza si è voluta rinchiudere. E così, all'amore per i testi più o meno classici, ha sempre accompagnato l'indagine sui fenomeni di costume, sulla realtà sociale e su pregi e difetti dell'Italia contemporanea.
Doti che si esaltano nella sua lunga, proficua e sempre rimpianta collaborazione col nostro giornale. Cominciata il 20 gennaio del 1976, una manciata di giorni dopo il debutto in edicola del quotidiano fondato e diretto da Eugenio Scalfari in edicola, con Orazio Gavioli capo degli spettacoli ed Enzo Golino capo della cultura. Una novità, quella rappresentata da Repubblica nel panorama editoriale italiano, che al tipo di sensibilità giornalistica di Placido risultava particolarmente congeniale: per nulla ingessata, attenta ai fenomeni nuovi, decisa a imporre uno stile più diretto e meno paludato. Ed è in quest'ottica che, una decina di anni dopo, il giornalista e scrittore inaugura, sulle colonne di Repubblica, una rubrica che ha fatto storia, amatissima dei lettori e seguitissima dagli addetti ai lavori. Era un appuntamento quasi quotidiano di critica televisiva, si chiamava "A parer mio" e ha prodotto circa 1.500 articoli, a partire dal 1986.
Un modo di scrivere di piccolo schermo, il suo, mai gratuitamente snob, sempre attento e informato, ma mai banale. E che poi, dopo che la collaborazione fissa col quotidiano si è esaurita forse perché troppo faticosa, è continuata per altri anni, dalle colonne del Venerdì: a partire dal 1997, quando ereditò da Walter Veltroni (approdato a Palazzo Chigi come vice di Romano Prodi) la sezione "Cinema in tv". Un settore che lui per oltre un anno curò personalmente in tutti i dettagli: comprese le esilaranti "tramine" dei film da lui scritte. Per poi passare, da '98 al 2004, alla rubrica di critica "Belvedere", sempre per il Venerdì.
Difficile individuare, nella marea di articoli scritti per il nostro giornale, le perle rare: ogni suo pezzo è un piccolo gioiello. Due esempi fra i tanti, a proposito di due grandi fenomeni televisivi made in Italy. Il primo riguarda la seconda serie della Piovra (titolo: La nostra Piovra non sarà mai Dallas), in cui lui ironizza anche sulla sua parentela col protagonista Michele Placido (figlio di suo cugino): "Vorrei poter dire tutto il bene possibile di Michele Placido - della sua maschera, della sua faccia - ma non posso farlo. Perché siamo strettamente imparentati (lo si vede dal nome) e se lo facessi cederei ad una solidarietà di famiglia. Cioè di mafia". Il secondo esempio è su Renzo Arbore, che nel 1985 tenne gli spettatori incollati davanti alla tv fino a tarda ora con Quelli della notte, e che terminava così: "Quello di Arbore è un sentimento esemplare, elegante - fatto di partecipazione e di distacco, di passione e di ironia - che va benissimo. Specie di sera, quando dalle cose di questo mondo dobbiamo prendere provvisoriamente congedo. Ed andare a dormire".
Ma Placido di tv e di cinema non ha solo parlato. Le ha anche frequentate, anche se saltuariamente: è apparso in programmi come Serata Garibaldi (1982) ed Eppur si muove (1994). Sul piccolo schermo ha anche scritto dei libri: "Tre divertimenti, variazioni sul tema dei Promessi sposi, di Pinocchio e di Orazio" (1990); e "La televisione col cagnolino". Altrettanto cult, per i suoi amici e i suoi ammiratori, sono i cameo nei film: nel mitico "Io sono un autarchico", fulminante anche se casereccio esordio di Nanni Moretti; e in un'altra pellicola fortemente generazionale, "Porci con le ali".
E forte è il dolore, e il rimpianto, che si respirano oggi nella redazione di Repubblica. In tanti ricordano ancora il suo garbo e il suo humour sottile, così come la ventata di allegria che portava a ogni suo apparire nella redazione degli Spettacoli del quotidiano, nella storica sede di piazza Indipendenza. O quando spuntava allo Sport per parlare della sua amata Juventus. E Placido ha usato spesso le metafore e le cronache sportive per raccontare a modo suo il nostro Paese.
Fino a spiegare, in questo articolo, l'apoteosi e la caduta del Moggismo.