Originariamente inviata da
Jamila
Eccomi qui. Io vivo per lavorare. davvero credo che se non potessi fare il medico, se non potessi studiare medicina non sarei più io. Non avrei uno scopo nella vita. La medicina è la sola cosa che mi tiene in piedi.
in D La Repubblica delle Donne Settembre 2007 n. 567
leggiamo
Tra gli insegnamenti di Ippocrate leggiamo: "Medico cura te stesso"
di Umberto Galimberti
È noto che il prete che confessa il Papa viene sottoposto a uno speciale addestramento, ma questo non accade per i medici che devono curare i loro colleghi. Nella mia lunga esperienza di oncologo, ho avuto l'occasione di curare diversi colleghi ammalati di cancro. L'opportunità di curare un collega ammalato è generalmente percepita come un privilegio, poiché rappresenta un riconoscimento professionale di competenza, capacità, umanità. D'altra parte, però, rappresenta una difficile esperienza dovuta al fatto che un medico è il paziente peggiore, e la sua competenza gioca spesso come un fattore prognostico sfavorevole all'andamento della malattia. Ma perché trattare un collega ammalato di cancro è così difficile? Occorre innanzitutto osservare che alla base della scelta professionale di fare il medico vi è un potente bisogno di cura in senso ampio, la necessità cioè di essere curati di quella psicopatologia vocazionale autoterapica che è una delle basi di tutte le "helping professions", e che spesso porta a una inconscia possibilità di sentirsi onnipotente. Spesso accade di identificarsi con la professione con poche distrazioni al di fuori di essa. Molti medici si rifugiano nel lavoro per sfuggire ai problemi personali. Questi particolari aspetti del paziente medico sono stati definiti: "la malattia di essere medico", che spesso porta a un ritardo nel riconoscere i sintomi di una propria malattia, o addirittura a negarli per un lungo periodo di tempo, o ancora a minimizzarli per evitare conclusioni serie da parte del collega curante. Il medico paziente molto spesso fa difficoltà a entrare nel ruolo del paziente: "Non trattarmi come un paziente, trattami come un dottore". Questo può avere una serie di conseguenze piuttosto importanti. Se è comprensibile che il medico paziente, come tutti i pazienti, cerchi come medico curante un collega che abbia competenza, prestigio professionale e doti di umanità, è stato visto in uno studio su 468 medici pazienti che in realtà solo il 35% di medici affetti da qualsiasi malattia e solo il 55% da grave malattia sceglieva il medico curante per la sua competenza e prestigio. Spesso si preferiva il collega con cui si aveva un buon rapporto di conoscenza o addirittura amicizia. Questa rinuncia a scegliere il collega di maggior qualità professionale era legata alla necessità di avere il massimo controllo sulla gestione della cura. Essere curati da un collega prestigioso con cui non si ha confidenza rende più probabile il rischio di essere trattati come un paziente. Se si viene curati da un collega con cui si ha confidenza o amicizia è più facile mantenere una relazione di colleganza, evitando di creare una relazione medico-paziente. Per alcuni medici pazienti la perdita della qualità di cura è meno costosa della perdita di rango, autorità e autonomia. Purtroppo il non instaurare un rapporto medico-paziente può generare una serie di problemi e di difficoltà alla corretta informazione sulla malattia e la cura, ma soprattutto può creare molte difficoltà al raggiungimento della condivisione del corretto obiettivo terapeutico. Alcuni medici possono cadere vittime anche della cosiddetta "Vip syndrome", per cui hanno insofferenza a sottoporsi a procedure burocratiche o ad attese più o meno lunghe, e spesso alterano i normali percorsi diagnostici e terapeutici creando imbarazzo, confusione, infine ostilità nel personale infermieristico. Credo allora che quando ci si trova di fronte a un collega paziente bisogna fare lo sforzo non solo di immedesimarsi con il dolore e la paura dell'altro di fronte a un malattia così seria, come peraltro bisognerebbe fare con qualsiasi paziente, non solo comprendere il dramma della scoperta della vulnerabilità e della propria mortalità, ma anche saper riconoscere e capire "la malattia di essere medico", in modo che questa non si frapponga e ostacoli un buon rapporto medico-paziente. Perché alfine il servizio migliore che possiamo fare a un collega ammalato di cancro è quello di trattarlo come il nostro paziente più caro, mantenendo autonomia di giudizio e autorità culturale nel processo decisionale. Claudio Verusio Primario oncologo - Milano Quindi i medici si ammalano più gravemente dei comuni mortali, perché, oltre la malattia, devono curare anche quel trovarsi dalla parte dell'ammalato che mette in crisi la loro identità. Questo conferma quello che ho sempre pensato, ossia che la malattia non è solo un evento organico, ma una radicale destrutturazione della propria identità, dovuta al fatto che il mio corpo non è un più un veicolo per essere al mondo, ma un ostacolo che mi separa dal mondo. Il mondo non è più l'orizzonte in cui si proiettano le mie intenzioni, i miei progetti, le mie ideazioni. Il suo posto viene preso dal mio corpo su cui si concentra la mia attenzione, mentre il mondo va sullo sfondo, come un orizzonte sempre più lontano, che al limite non desta più neppure il mio interesse. Nel caso del medico, questa destrutturazione è ancora più radicale, perché un'i-dentità che si è sempre vissuta come "curante" si trova improvvisamente "oggetto di cure". Io mi auguro che tutti i medici che si ammalano possano guarire, per curare poi i malati avendo attraversato la malattia. Del resto le popolazioni "primitive" - ce lo riferiscono tutti gli antropologi - non consentivano di accedere alle cariche di sovrano o di sacerdote a chi non era stato gravemente malato e a rischio di morte. Che ci sia una saggezza da recuperare nelle pratiche primitive?
pubblicato in
D La Repubblica delle Donne
Settembre 2007 n. 567
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