ciao a tutti
ogni tanto ritorno a trovarvi ..gli impegni di lavoro e vari mi rendono la permanenza nei forum sempre più difficile.
Comunque vi volevo lasciare questo articolo che spero vi possa servire:
di Lucia Scajola
LAVORO. Sempre più aziende diffidano dei voti troppo alti. E preferiscono assumere quanti hanno terminato gli studi in tempo, anche se con meno punti: sanno sbrigarsela.
Accettate i 23, arrabattatevi e non deprimetevi per una bocciatura. Purché facciate in fretta e facciate anche dell’altro. Stando a quanto sostengono cacciatori di teste, docenti universitari e alcuni responsabili delle risorse umane, sono questi i consigli per gli studenti che, alla vigilia delle sessioni di laurea autunnali, riflettono sulle proprie possibilità di arrivare al 110 e lode. Chi non ha speranze non si deprima: l’agognato riconoscimento non servirebbe più granché e in alcuni casi potrebbe suscitare perfino diffidenza.
«Chi si è abituato ad avere sempre il massimo all’università è poco abile nell’arte dell’arrangiarsi» sostiene l’avvocato Alessia Gelosa, socia dello studio Legeartis di Milano. «Per i ruoli che comportano il confronto con gli altri, meglio chi qualche volta è caduto, ha affrontato una bocciatura e magari si è laureato con 103».
A ridimensionare l’importanza del 110 e lode anche l’opinione di Paolo Citterio, presidente del Gruppo intersettoriale direttori del personale: «Più del voto conta il tempo: meglio 80 nei tempi giusti che 110 e lode in otto anni» spiega. «Le aziende cercano persone che portino a casa il compito in tempo, magari arrabattandosi, non dei perfezionisti che si perdono in presentazioni leccate».
La puntualità, quindi, prima di tutto: «Il tempo è il bene più prezioso: inutile sprecarlo a rifiutare voti» commenta Lorenzo Ait, autore di Trenta e lode senza studiare (Castelvecchi), che di mestiere fa l’«addestratore per colloqui». Per lui, come per Lise-Maïa Nora, professione cacciatrice di teste, meglio investire le ore in più guardandosi intorno già quando si studia. Magari facendo i caffè nel posto in cui si sogna di lavorare.
«È finito il periodo in cui si assumevano i primi della classe» oggi, a dire di Nora, è più interessante la storia personale dei candidati.
In poche parole, vince chi ha carattere ed esperienza maturata oltre i libri. «Nutro diffidenza verso chi è abituato a riuscire sempre benissimo, temo che crolli di fronte alla sconfitta» ammette Claudio Elestici, socio dello studio legale Hammonds Rossotto. «Nel nostro settore conta il temperamento».
A mettere in discussione l’importanza dei «baci accademici», a sorpresa, anche il parere delle università, che intanto hanno ridimensionato il numero delle lodi: l’apice del 21,3 per cento sul totale toccato nel 2002 è sceso al 16,4 per cento nel 2006.
«Il peso di quel voto va riconsiderato» sostiene Luigi Campiglio, prorettore dell’Università Cattolica di Milano. «Il suo valore è cambiato». La colpa sarebbe dell’aumento delle sedi universitarie e dell’ibridazione di molti corsi di laurea.
Sulla stessa lunghezza d’onda, Guido Corbetta, direttore della Bocconi graduate school: «Vorremmo che gli studenti accettassero i 23 senza immolarsi sull’altare del 30. Meglio finire in fretta. Le aziende, del resto, stanno riconsiderando l’importanza dei voti». Quando ne hanno il tempo, infatti, prolungano i colloqui e ricorrono a test sempre più approfonditi (spesso brevettati) per analizzare i candidati nel dettaglio.
Ciononostante, ci sono aziende come la Lvmh, prima multinazionale nel settore del lusso, che puntano comunque sui primi della classe: «La selezione per voto è il criterio più rapido» sostiene Marco Ronchi, direttore delle risorse umane del gruppo «scegliamo i migliori, poi consideriamo anche gli altri parametri».
Più aperte le porte della Ubs: «Il 110 e lode non dice abbastanza, è una valutazione accademica che non necessariamente riflette quella aziendale. Un laureato con 105 potrebbe essere perfino più idoneo di chi ha meritato il massimo» commenta Silvana Fontana, responsabile delle risorse umane per l’Italia. «È più interessante capire il modo in cui il giovane ha studiato e le attività da lui svolte nel frattempo». Come a dire che la laurea della vita vale almeno quanto quella accademica.
Fonte: Panorama 11 ottobre 2007