Ma da quale pulpito viene la predica antiterroristica? È questa la domanda, la prima domanda, che i media occidentali dovrebbero porsi.
Che il terrorismo svolga nel conflitto israeliano-palestinese un ruolo tragico e decisamente condannabile, è del tutto ovvio per ogni persona ragionevole. Seminare morte e dolore tra l’inerme popolazione civile è cosa che non può trovare alcuna giustificazione. Ma da quale pulpito viene la predica antiterroristica? È questa la domanda, la prima domanda, che i media occidentali dovrebbero porsi e che invece evitano accuratamente di porsi poiché, come ha notato Gore Vidal, i giornalisti “sono addestrati ad eludere” le questioni veramente importanti (cfr. La fine della libertà, Fazi). Anche perché sono in genere scomode.
Si rischierebbe infatti di scoprire che, ad esempio, gli Stati Uniti sono l’unico paese al mondo condannato per terrorismo (precisamente, per “uso illegittimo della forza”) dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aia. E che, insieme con Israele, si sono opposti a una risoluzione dell’Onu del dicembre 1987 di condanna del terrorismo. Il passaggio che ha provocato il voto contrario di americani e israeliani è quello in cui si afferma che la lotta al terrorismo non può comunque “in alcun modo pregiudicare il diritto all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza, così come indicato nella Carta delle Nazioni Unite, dei popoli privati con la forza di tale diritto... in particolare i popoli soggetti a regimi coloniali e razzisti e all’occupazione straniera o ad altre forme di dominazione coloniale, né... il diritto di tali popoli a lottare per questo fine e a cercare e ricevere aiuto (in conformità alla Carta e agli altri principi del diritto internazionale)” (cfr. Noam Chomsky, 11 settembre.
Le ragioni di chi? e Sulla nostra pelle, entrambi editi da Tropea). Parlare, rispetto agli Usa, di terrorismo di stato non è quindi vuota propaganda, ma affermazione che trova un preciso riscontro fattuale. La condanna si riferisce alle azioni promosse dalla Cia contro il Nicaragua negli anni Ottanta, azioni che prevedevano di colpire “bersagli morbidi”, ossia strutture civili (scuole, ospedali, cooperative agricole). Gli Usa non solo negarono la giurisdizione della Corte, ma la denunciarono come “tribunale ostile” ed incrementarono il sostegno ai contras, beffardamente spacciato come aiuto umanitario. La giustizia internazionale è dunque impegnativa per gli Stati Uniti e i loro alleati soltanto quando coincide con i loro interessi. In caso contrario, essi rivendicano apertamente il diritto di agire unilateralmente, ossia di fare quello che gli pare. Così, intervenendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’allora segretario di stato Madeleine Albright ebbe a dichiarare che la politica degli Usa verso gli altri paesi sarebbe stata “se possibile, multilaterale; ma in caso di necessità potrà essere unilaterale”.
Concetto ribadito nel 1999 dal segretario alla difesa William Cohen, il quale tenne a precisare che gli Stati Uniti avrebbero fatto ricorso “all’uso unilaterale della forza militare”, allo scopo di garantirsi il libero accesso “a mercati chiave, fonti energetiche e risorse strategiche”. Alla luce di queste dichiarazioni, gli interventi americani in Iraq, nella ex Yugoslavia e in Afganistan andrebbero letti in chiave di Realpolitik, sfrondando l’insopportabile retorica dei diritti umani e della democrazia; ma questo purtroppo accade raramente. Il Nicaragua non reagì ripagando gli Usa con la stessa moneta, portando il terrorismo sul suolo americano, com’è accaduto recentemente, ma in modo pienamente democratico (e purtroppo perfettamente inutile), chiedendo la condanna internazionale degli Stati Uniti.
In molti altri casi, gli americani hanno praticato politiche terroristiche scegliendo di sostenere e foraggiare governi sanguinari come quello dell’indonesiano Suharto - che Clinton definiva “il nostro uomo” nel momento stesso in cui, scrive Chomsky, “perpetrava massacri, torture e violenze tra i più orrendi del XX secolo” - o le dittature militari sudamericane o la Turchia, responsabile del genocidio dei curdi, alla quale gli Usa hanno fornito, negli anni Novanta, l’80% delle armi usate poi in funzione anticurda in una serie di campagne che provocarono “decine di migliaia di morti, due-tre milioni di profughi e tremilacinquecento villaggi distrutti (sette volte quelli del Kosovo sotto le bombe NATO), con ogni immaginabile atrocità” (Chomsky). Gli stessi Saddam Hussein e Osama bin Laden, prima di diventare simboli del Male, erano preziosi alleati.
Saddam lo era a tal punto che Vidal lo definisce “il nostro impiegato”, talmente fedele da ritenere realisticamente “che non ce la saremmo presa se si fosse impossessato delle stazioni di servizio del Kuwait”. Quanto ad Israele, non si trova certo in una posizione migliore. Secondo lo storico israeliano Benny Morris, professore all’Università Ben-Gurion di Beersheba e autore di un’accurata e importante ricostruzione del “conflitto arabo-sionista” (Vittime, Rizzoli), sono stati gli israeliani ad introdurre in Palestina le “tecniche tipiche del moderno terrorismo: la bomba camuffata nella piazza del mercato e nell’autostazione; l’autobomba e l’autocarro-bomba; le raffiche di mitra dalle auto in corsa”. Tali metodi, a giudizio di uno studioso inglese citato da Morris, convinsero i britannici ad abbandonare la Palestina. Erano metodi praticati da Menachem Begin, l’“ex terrorista e famigerato capo dell’Irgun”, come lo definisce Hans Küng nel suo saggio sull’Ebraismo (Rizzoli), un “estremista imbarazzante e imprevedibile” (Morris), poi diventato capo di governo e firmatario del trattato di pace con l’Egitto di Sadat, e da Yitzhak Shamir, membro della LEHI o Banda Stern e anch’egli futuro capo dell’esecutivo. In genere, quando si parla del terrorismo israeliano si citano la distruzione dell’Hotel “King David” di Gerusalemme, che costò la vita a 91 persone, e l’assassinio del conte Bernadotte, inviato dell’ONU in Palestina quale mediatore, cosicché sembra che i sionisti non abbiano fatto altro.
In realtà, fino alla proclamazione dello Stato di Israele, il terrorismo sionista fu una presenza costante e minacciosa, rivolta sia contro le forze britanniche del Mandato, sia contro i palestinesi. E non si può dire che dopo sia finito, giacché gli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi occupati sono altrettante “bombe”, metaforiche ma potenti, che esplodono tutti i giorni, ventiquattro ore al giorno, da oltre trent’anni. Israele ha sempre sostenuto la tesi propagandistica che la sua occupazione era “benevola” e “illuminata”, profondamente diversa da tutte quelle del passato, ma l’analisi storica, oltre alla cronaca spesso drammatica, ci rivela una realtà molto diversa: “Come tutte le occupazioni, quella israeliana si basava sulla forza, sulla repressione e la paura, il collaborazionismo e la delazione, i pestaggi e le torture in stanze chiuse, l’intimidazione, l’umiliazione e la disinformazione quotidiane” (Morris).
In particolare, la pratica della tortura da parte dello Shin Bet, il servizio di sicurezza, contro i prigionieri palestinesi divenne, scrive Morris, una routine a partire dagli anni Settanta. Con questi precedenti, che ci consentono di affermare, di ciascuna delle parti in causa, che la più pulita ha la rogna, è pretestuoso porre come condizione per riprendere le trattative la cessazione delle attività terroristiche di Hamas e della Jihad islamica. Questo è solo un modo diplomaticamente accettabile per dire che non si vuole la trattativa e la pace, che si vuole continuare a percorrere la strada della sistematica distruzione di un popolo, strada che è inscritta fin dall’inizio nel progetto sionista, come era ben chiaro ai padri fondatori del sionismo, che parlavano pudicamente della necessità di “trasferire” i palestinesi, e a Ben-Gurion, che nel 1938, durante una riunione del suo partito, il Mapai, dichiarò: “Quando diciamo che gli arabi sono gli aggressori e noi quelli che si difendono, diciamo solo una mezza verità. Per quanto riguarda la sicurezza e la vita, noi siamo quelli che si difendono... Ma questa lotta è solo un aspetto del conflitto, che nella sua essenza è politico.
E politicamente, noi siamo gli aggressori, loro quelli che si difendono”. Chi, come Rabin, aveva compreso che, per giungere a una pace vera, bisognava spezzare la logica del sionismo - che è poi quella di tutti i nazionalismi - la quale segrega, esclude e distrugge l’altro, il diverso, e che “solo dando di più, e più sollecitamente, ai palestinesi si poteva ridurre il numero di terroristi, bonificando la palude in cui prosperavano” (Morris), è stato eliminato, raggiunto da tre colpi alla schiena sparati da un giovane israeliano fanatico. Per il sionismo del “sangue e della terra”, come l’ha chiamato Zeev Sternhell, “la pace rappresenta un pericolo mortale”. Esso, infatti, “non può immaginare la volontaria restituzione di nemmeno un metro del territorio sacro della terra d’Israele” (cfr. Nascita di Israele, Baldini&Castoldi). C’è in Israele e negli Stati Uniti qualcuno in grado di raccogliere la bandiera della riconciliazione caduta dalle mani di Rabin? A questo interrogativo è legato il futuro del processo di pace.
John F. Kennedy, all’indomani della fallita invasione di Cuba da parte di 1200 esuli addestrati dagli americani, forse il fiasco più colossale della sua presidenza, passato alla storia come “il disastro della Baia dei Porci”, notando che i suoi indici di gradimento erano saliti alle stelle, commentò: “A quanto pare, in questo lavoro più fai cazzate più diventi popolare” (cfr. il citato pamphlet di Gore Vidal). Auguriamoci che, almeno nel caso di Bush e degli eredi di Sharon, tale massima venga smentita, altrimenti dovremo attendere ancora a lungo prima che la questione palestinese possa trovare una giusta soluzione.