848-silvio-berlusconi-thumb.jpgQuesta sera, uscito di casa per la mia passeggiata serale consueta, ho trovato una cosa che non vedevo da molto tempo, le lucciole. Erano date per sparite secondo le celebri parole di Pier Paolo Pasolini, eppure io le ho ritrovate. No, non è un impazzimento momentaneo dello Scrivente (le lucciole in gennaio, ma quando mai?). Queste sono le parole con cui Leonardo Sciascia, con il suo stile lirico eppure miracolosamente antiretorico, iniziava il suo Affaire Moro nel 1978. Cosa motivava questa celebre operina dello scrittore di Rocalmuto? Solo l’intenzione di predisporre un’analisi della tragica vicenda dello statista democristiano, ma avendo come filo conduttore, non l’analisi politica, né storica, quanto lo specialissimo punto di vista (a mò di “io lirico”, di “io narrante”) del Medesimo Sciascia. Sciascia sentiva la maledizione di Moro misteriosamente legata alla sua opera, specialmente all’ultimo romanzo di massimo successo Todo Modo scritto nel 1974. Nell’incredibile vicenda dei notabili cattolici che si ritrovano quasi ad uno ad uno impallinati mentre all’Eremo Zalfer svolgono gli esercizi spirituali (fino all’incredibile finale dove viene ucciso il Padre Spirituale di tutti don Gaetano), Sciascia vedeva con sgomento la parabola della fine e del declino inesorabile dell’ultimo riferimento tradizionale che aveva sin lì accompagnato l’Italia, dopo lo sfacelo del post-fascismo, la Chiesa Cattolica. Nella vicenda della morte e dell’omicidio Moro e nel conseguente travaglio democristiano, nel 1978, Sciascia intuì che la DC stava conoscendo il suo … Eremo Zalfer, ovvero la sua fine. In questo, mai fu più appropriato quell’esordio così terso e limpido delle lucciole, ripreso ironicamente e affettuosamente da Pasolini. Se le “lucciole” servivano a Pasolini da metafora per parlare di un mondo italiano tradizionale e contadino allora in declino, in Sciascia le “lucciole” sembrano ricordare (come la “luna” del “pastore errante” di leopardiana memoria) la timida luce della ragione rischiarata dalla corretta riflessione. Perché una cosa è certa: quando l’arte, la letteratura arrivano alle vette, al culmine delle loro possibilità espressive, esse diventano profezia del presente. Anche Brecht ha molto sognato di coltivare un’arte simile: dove la narrazione dei drammi, delle commedie escono dalla scena, e prefigurano eventi o narrazioni di eventi della storia reale, incisa nella carne del Pubblico (che, in questo modo, diventava soggetto vivo e non soggetto esterno all’opera d’arte). Questo è stato Todo Moro per Sciascia (e lui, consapevole e anche sconvolto, ne diede testimonianza con l’Appendice dell’Affaire Moro). Ma questo è anche il caso del film In nome del popolo italiano(1970) di Dino Risi con Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman. Film sconvolgente, perché porta in finzione una vicenda che ieri sembrava appartenere al novero della sola finzione grottesca da Commedia all’Italiana: nella vicenda di Vittorio Gassman businnes man di successo immanicato con la politica condannato dal Giudice Istruttore (ideologicamente orientato) Ugo Tognazzi a causa dello sfruttamento sessuale di una escort (poi morta in circostanze misteriose), è infatti impressionante ritrovare (nella trama di un film di 40 anni fa) la trama dell’attuale vicenda Ruby. No, non è il mio il solito “pistolotto” Politica-Magistratura Comunista; come non intendo assolutamente prendere posizione nella vicenda Ruby, nella quale io non so dire nulla. Mi permetto solo di dire che Gasmman-l’Imprenditore di Successo e Tognazzi-Giudice Ideologizzato diventano i due “poli simbolici” di una lotta all’ultimo sangue tra due tipi ideali e costanti della storia politica e sociale italiana recente degli ultimi quarant’anni, prima e dopo la fine dei partiti e dei riferimenti tradizionali (vedi la Chiesa e la DC in Todo Modo). Declinata prima e poi crollata la Politica con la P maiuscola, in Italia in fondo hanno preso piede solo due forme di Antipolitica: l’Antipolitica che esalta l’Economico, la logica del laissez-faire, del “far soldi” (anche “ungendo le ruote”) come panacea di tutti i problemi sociali (quanto della mitologia del “miracolo economico” degli anni ‘60, quanto del mito della “Milano da Bere” degli anni ’80, quanto dello spirito leghista e settentrionale in particolare si ritrova?); dall’altro, l’Antipolitica Giustizialista, che affonda per lo più nel senso di impotenza dell’Uomo della Strada che si sente dominato da un sistema affaristico senza scrupoli e da un sistema politico e legislativo capace solo di favorire i furbi, gli insiders, anziché essere al servizio dei cittadini, degli outsiders. I riferimenti nel presente di queste due tendenze sono noti e non mette conto di illustrarli. Ma il film è qualcosa di più: il film è il disperato e folle “sogno ad occhi aperti” (che allora pareva “fantapolitica” ma oggi è tragica realtà) del Giudice Bonifazi-Tognazzi di “dare una spallata” al sistema attraverso “pene esemplari”. E’ il sogno degli eterni Masanielli, degli eterni Cola di Rienzo della storia italiana, dell’Italiano-Bertoldo che sogna la rivincita dai Potenti, con … una “spallata”. Che porta il Giudice-Tognazzi alla folle speranza di condannare Gassman per sfruttamento della prostituzione di una delle sue escort, nonostante le prove contrarie, dopo aver addirittura distrutto le prove dell’innocenza di Gassman (e addirittura enfatizzandone il coinvolgimento nell’omicidio della stessa), nella speranza di liberare le leggi e lo Stato dalla sudditanza degli eterni “padroni del vapore” italiani. Una decisione disperata e drastica che il Giudice prende dopo una celeberrima e memorabile kermesse romana, ovvero l’allucinata visione di Gassman, moltiplicato in un’incredibile carosello di tipici e “trucidi” personaggi dell’Italia del Boom (un modo per dire che la corruzione dei dirigenti dell’Italia è lo specchio della corruzione della sua gente: il solito mito dell’inferiorità etico-politico dell’Italia, qui reso comunque con una evidenza artistica notevole!). Uno stravolgimento artistico e grottesco del mito dell’imparzialità del Giudice: ma in quel momento, Tognazzi non è tanto un Giudice, ma un cittadino indignato e disperato che cerca un Nemico rappresentativo dell’infamia e della corruzione del sistema Italia, in modo da colpirlo, ma non tanto sulla base di una colpevolezza fondata sui fatti, ma con l’infamia e la denigrazione morale. Ditemi: quanti non sognano (in Italia e non) che i potenti facciano una simile fine? Quanto questa “mitologia della forca” può allignare nel popolo specie nei momenti di crisi? Un decorso, come si vede, non tanto dissimile dal Colonnello Bellodi de Il Giorno della Civetta di Leonardo Sciascia che, per sconfiggere una mafia, ritenuta parte integrante ed ineliminabile di un “sistema”, sogna leggi eccezionali e la sospensione della Costituzione. Ma come Sciascia insegna, l’unica via per uscire dall’Antipolitica (nelle due forme: economicistica e Giustizialista); e l’unica luce che abbiamo il dovere di cercare è quella della Politica, della Partecipazione, della Critica; della fede nel dibattito, nel Dialogo e nella Razionalità per costruire nonostante tutto una convivenza e un destino comune. Tratto dal link: Il Giudice, l’Imprenditore, la Escort: quando il cinema italiano è profetico - Arezzo Polis - Cultura politica, dibattito pubblico.