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Lettere

  1. #1
    Scrivano Lucien
    Uomo 39 anni da Imperia
    Iscrizione: 10/10/2008
    Messaggi: 2,441
    Piaciuto: 655 volte

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    Perlustrando i meandri della mia cartella documenti, ho trovato un paio di lettere-racconti che ho scritto mesi fa ad alcune mie compagne d'università; penso siano abbastanza carine da poterle condividere con voi, sono un semplice divertissement che scrissi per gioco PS: le parole in blu sono citazioni di canzoni di Simon e Grafunkel


    Lucius, indaffarato nel cavar camicie fuori dalle macerie, ossia le pile dei suoi vestiti negli armadi, in cerca di una che fosse sopravvissuta all'entropia regnante, ci vedeva sempre di meno. Finalmente la sera di Sabato veniva a stendere un velo pietoso d'inchiostro nero sulle bassezze dei giorni precedenti. Si preoccupava solo per un fatto, che le serate da troppo attese ed in cui riponeva grandi speranze finivano quasi inevitabilmente per deluderlo. Tutte le migliori avventure gli erano occorse uscendo alla chetichella, decidendolo sul momento. Aveva quindi un sottile pessimismo mentre raccoglieva i suoi talismani per la camera: l'orologio buono, la “Parker”, il blocchetto di fogli. Pareva quasi dovesse andare ad una conferenza, anziché in discoteca. Le bizzarrie non finivano lì: per tenersi i pochi capelli a posto, aveva preso la lacca di sua madre; non amava inzaccherarsi col gel, e il risultato era apparso invero ammirevole, se non fosse stato che ora il suo capo, con le combinazioni precedenti dei profumi dello shampoo e del deodorante alla vaniglia, sapeva di naftalina. Che fare? Scese in bagno e sopraffece l'odore funereo con un'altra ondata di deodorante. E contava andare a caccia conciato così, per quella notte? Pessimismo inconsistente. Con le ragazze italiane diceva d'aver chiuso, non le soffriva più, usciva quasi disarmato e senza rimorsi. Se si premurava di non profumare di DDT, era solo per essere galante con le amiche della compagnia. Andò a Bordighera, e dovendo fare un pezzo di strada a piedi, si trovò a ripassare davanti al Kursaal. Si sorprese constatando che quasi non ci faceva più caso: dov'erano questa volta i fiori e la lettera che sempre era andato a posare sui gradini d'ingresso quando vi passava davanti? Il suo animo si tastò le tasche: non v'erano. Quel santuario aveva perso la sua sacralità, e la fiamma votiva che aveva ravvivato con la lavanda cresciuta sulle rovine del lontano amore, s'era spenta per la sua incuria. Poteva ancora leggere la targa ossidata che, come il braciere spento, le carte sfatte dalla pioggia ed i fiori seccati, solo lui riusciva a vedere: “Su questo gradino, nel giorno 8 di Giugno, A.D. 2003, ore 1.10, combattevi la tua prima battaglia per tentar d'essere amato. Fermati, e rivivi. A perenne ricordo il tuo animo pose.”
    E quanto l'aveva amata Giulia, quello se lo ricordava bene.
    Don't talk of love
    Well, I've heard the word before
    It's sleeping in my memory
    I won't disturb the slumber
    Of feelings that have died
    If I never loved,
    I never would have cried”
    Inquietante che di tutto quel grande sciaratto durato quattro anni non restasse ora nulla, se non qualche maceria. Se pensava a com'era lui stesso ai tempi del Liceo, nessuna meraviglia sulla fine di quella battaglia lo coglieva più. Inabile ad amare, delegittimato dai fatti, aveva voluto partire lo stesso per il fronte.
    Qualsiasi stratega con un minimo di buon senso, incluso lui stesso adesso, avrebbe previsto l'esito dell'impresa. Confidava allora nelle armi che credeva d'avere. Troppo colorata e viva era stata la speranza, e disarmato aveva corso contro la mitraglia, perché quella era una prova inevitabile, che aspettava più di quanto non la temesse ...Dolorosa ci fu la partenza, e il ritorno, per molti, non fu. Ora che ci pensava, ora sì che gli tornava in mente com'era stato, al fronte, quella notte.
    -Pronti alla carica! La speranza c'è! Adesso o mai più!- si ripeteva, scorrendo il rosario dei secondi -ora o mai più, ora o mai più...- Lei era lì a due passi, solo i gradini li separavano. Doveva solo darle la lettera e fuggire via. Pareva che l'aria ferma e calda di quella notte si fosse fatta solida, e la luce gelatinosa gl'impediva la vista. E chi altri poteva sentire l'urlo furente che d'un tratto, salito dal silenzio, lacerò il suo animo? Violenza che rompeva la sua pace, come se non venisse da lui, ma da un'estranea, spietata forza di gravità.
    -BAIONETTA IN CANNA!!!- Sotto la dittatura dell'Impulso si scosse e tirò fuori la busta dalla tasca. -AVANTI!!!- Doveva muovere le gambe, ma non ci riusciva.
    L'Impulso spronò i sentimenti compagni: -Forza, dannati vigliacchi, ORA O MAI PIU'!-
    Mosse allora un primo passo. Poi il torpore sopravvenne, l'inerzia s'esaurì, tutti si fermarono a guardarLa. In nero vestita, eppure così solare. Cincischiava coi suoi compagni di classe (Rompiballe -pensò lui- lasciatemeLa un attimo solo, avrete tutta la notte per chiacchierare!) Ignara di quel che lui stava per dirLe e per darLe. Divina, completa da sola, irraggiungibile ai suoi occhi. Stava amareggiato ed immobile, mentre in lui si combatteva.
    Il lamento querulo della Ragione fece esitare tutti, coprendo l'eco teso dell'ira della volontà: -Non urlate più, compagni, placatevi. Non vedete? Lei non ha bisogno di noi. Sta bene da sola. Perché infrangere quella sua quiete? GuardateLa! E' già perfetta così. Non disturbiamola inutilmente. Le baggianate che hai scritto, volontà, non la sedurranno mai. Ci vuol ben altro per Lei, e noi non l'abbiamo.-
    Punto sul vivo, l'Impulso reagì: -Ah! Ricominciamo con gli ammutinamenti! Mi avete già tradito tutti due notti fa, non vi basta ancora! Ditelo allora, ditelo chiaro che la vigliaccheria è per noi più forte dell'amore! Ma vi avevo giurato, eccome, che sarebbe stato il vostro ultimo voltafaccia! E la vedremo! Voialtri!! Volete voi desistere dall'impresa?!?-
    Tutti gli interpellati fecero sentire la loro scura voce unisona: -NO!! Abbiamo giurato! Si va fino in fondo!!-
    -Sei in minoranza, Ragione -fece l'Impulso, superbo. -Con noi o contro di noi. Lei sta per andare. Anche noi dobbiamo andare. Ora, o mai più.-
    La Ragione si ribellò un'ultima volta: -No, no! E che sia mai più, che importa? Benedetto sia il silenzio! Soffriremmo tutti, noi e Lei, se andassimo avanti! RisparmiamoLe questo male, se è vero che L'amiamo! Lei non ha colpe!! Guarda chi sono i tuoi compari, Impulso, guarda chi è d'accordo con te! Orgoglio, egoismo, istinto, tutto il peggio di noi! E guardiamoci noi stessi, per dio!! E' con questa faccia da fessi, con questi vestiti da pagliacci, che pretendiamo di amare e, ancora più assurdo, essere amati?!?-
    -Ragione, il tuo tempo è venuto. Non ti permetterò di frenarci oltre.-
    L'Impulso le si scagliò addosso e la tramortì. Quindi, rivoltosi agli altri entusiasti o terrorizzati, lanciò l'ultima incitazione: -Per naufragare in quegli occhi verdi! Per provare che non siamo vili! La speranza c'è!! Ora o mai più!! CARICA!!!-
    E lui all'urlo selvaggio dei suoi sentimenti che si lanciavano sull'ignota terra di nessuno si strappò da terra per salire verso Lei. La chiamò. Con una voce che dovette risultare implorante. Lei si voltò sorridente, le prime barricate erano superate. -Ho una lettera per te- passò di mano in mano e nell'istante in cui la tennero entrambi lui prese la scossa, e la Ragione rianimata rivisse per quell'attimo, facendo sentire un flebile -no0Oo...-
    Chissà se Lei aveva capito cosa ci doveva essere dentro... la Sua reazione fu del tutto imprevista: gli disse con la Sua voce dolcemente strascicata: -Graazie Lucioo- ed istintivamente gli porse la guancia per un bacetto. Sarebbe stato il primo e l'ultimo. Lui non riusciva a realizzare cosa stesse accadendo. S'avventò su quella pelle nivea e se ne ritrasse con le labbra brucianti di belletto. Ma si ricordò della raccomandazione che doveva farLe perché non sventrasse subito la lettera, che aveva pensato per essere letta in solitudine ed in silenzio, possibilmente con lo stordimento di una mattina post-discoteca, che avrebbe amplificato l'effetto dirompente della poesia: -Mi raccomando, non aprirla subito, leggila domani...-
    Leggero come un atomo d'ossigeno, si volse di corsa pensando: -E' fatta! E' fatta! Ce l'abbiamo fatta!! Vada come vada, è andata!- La bella Silvia, la sua amica, gli gridò dietro qualcosa per convincerlo a restare: ma lui doveva partire il giorno dopo per un lungo viaggio, minchione com'era pensava di non poter restare. Ed inforcò la sua bicicletta, perché aveva sì 18 anni, ma di patente non voleva sentirne parlare ed in discoteca ci andava con le proprie forze, per sparire in men che non si dica. Gli pareva di lasciare una scia di fiamme, fra il bruciore delle labbra e le esplosioni di gioia per esser finalmente riuscito, dopo quattro anni, a dichiararsi per la prima volta. Quella lunga pedalata verso casa fu la marcia trionfale della sua volontà imperante. E il pensiero che Lei potesse innamorarsi grazie a quella poesia -a tal punto s'illudeva, beata innocenza!- era troppo celestiale, sfuggiva alla sua comprensione ed il solo sfiorarlo era un saltello verso il metafisico.
    Che ne sapeva lui, due volte minchione, che il suo destino si stava compiendo in quel mentre, che Lei stava già leggendo quella lettera raffazzonata e la poesia, tanto storpia che in seguito aveva voluto dimenticarla, tanta era la vergogna di aver potuto scrivere minchionerie simili...
    Perlomeno la Claudia, poveretta, aveva pianto a sentirla, perché Lei, contravvenendo alla preghiera, lesse tutto davanti ai comuni amici riuniti. Quando lui lo seppe, ad affare da tempo sepolto, se ne rallegrò, su qualcuno i versi storpi avevano comunque fatto un effetto, quindi non erano tanto malnati; d'altro canto s'immaginò la figura che aveva dovuto farci con gli amici, e sentì un'abissale voglia di non esser mai esistito. L'esito di tutto, dopo due stagioni d'incontri fortuiti ed ostentate distanze, venne proprio la sera che lui aveva deciso di rilanciarsi, per uscire almeno dall'incertezza in cui era rimasto ed avere una Sua parola definitiva. Quanto a questo, non poté proprio darsi per mal servito.
    Non poteva andare che così; molte erano le potenziali ragioni per cui fu rifiutato, ma tutte erano validissime: difatti non aveva odiato lei, bensì le regole del gioco. Peccato che fra i Caduti della carica suicida ci fosse stata anche la sua verde gioia di vivere, quella vera. E molti altri suoi buoni e rari sentimenti ne erano tornati con le ossa rotte. “Ma -pensava ora fissando il gradino- ricordare cosa, miseria ladra, la sciagura? Perdiamo tempo! Andiamo!”
    -Perché penso sempre al passato?
    -Perché non hai futuro... Una freddura di Garfield che gli era rimasta impressa.
    Con passo svelto passò oltre senza più pensare al passato a doppio taglio. La Tramontana gli scompigliava i capelli tanto curati e portava al mare il suo profumo di caramella. Passava qualche ragazza ed in tutte coglieva il solito senso di paura nei suoi confronti, e se ne rideva. L'appuntamento era al San Marco, come sempre, arrivò con un certo anticipo: non riusciva proprio ad essere puntuale e, potendo scegliere fra gli scompensi temporali, preferiva arrivare prima. I compari erano quasi tutti là; Orecia, così chiamato distorcendo dialettalmente il suo cognome per districare un caso d'omonimia nel gruppo, aveva scordato la giacca e stava congelando. Poi c'era Vanitas, la dedicataria del suo ultimo acrostico: si scambiarono un sincero bacetto sulla guancia. Lei, pur avendogli detto che non c'era storia, gli era grata di averle reso quell'onore; lui invece non le si era dichiarato davvero, non poteva provare niente per lei: era stata un'impresa della disperazione e le voleva bene d'affetto per rimediare al senso di colpa che sentiva. Chissà che lei -non pareva certo una cima, ma l'apparenza inganna- non avesse capito che quelle parole d'amore erano artificiali, e l'avesse perciò disdegnato... Quindi Giulia, omonima della desiderata di cinque anni prima, di quella anche più bella ma come vacua, lontana, virtuale. Tutte ragazzette senza polso e troppo piccole, in tutti i sensi: Debora, la festeggiata, che volle esser ritratta in foto con lui e che si scoprì poi avere un fidanzato dalla bruttezza disarmante (“Bene -pensò Lucius- Allora era vero che ne esistevano di peggio in arnese di me”), Jessica, che aveva inutilmente tentato di sedurre con un discorsone su Dante e che gli disse subito che con la barba pareva ancora di più un professore, ed altre che non valeva la pena tenere in mente. Fortuna che c'erano i suoi amici a tirarlo su di morale, non foss'altro che con la memoria di tutte le passate avventure. In uno slancio di generosità Lucius si tolse la giacca e la buttò sulle spalle di Orecia, a condizione che non ficcasse le zampe nella tasca del portafogli. Alla terrazza esterna del locale, ancora un po' esposti alle intemperie, la prima parte della festa fu la consueta solfa di pacchetti sventrati, auguri, bevute, in attesa che venisse mezzanotte. Mentre le ragazze facevano il diavolo a quattro per i regali, gli uomini stavano in crocchio al divano all'angolo, confabulando come un clan di camorristi di cui Lucien era certamente, con la sua barbaccia nera ed indisciplinata ed i capelli selvatici, il modello più rappresentativo. I pochi scapoli si mettevano d'accordo anche sulla spartizione delle prede, tramite frasi mutilate ma esplicite e linguaggio corporeo. Lucius assisteva divertito a queste brevi contrattazioni, perché facevano i conti senza l'oste. Nel mentre, nel suo circolo interno ed invisibile si discuteva pacatamente davanti ad un calice di spumante. C'erano il Generale Impulso Von Moltke, che aveva le sembianze di un canuto prussiano e portava al collo un proiettile di fucile, e Camillo Benso Conte della Ragione, un grasso bonario con una penna in tasca, occhialini tondi a pince-nez, che parlava quasi solo francese.
    -Così si deve fare, mein freund. Immer drauft! Sempre addosso! Ach! Prendiamo esempio da loro e partecipiamo al congresso, che forse resta qualcosa anche per noi. E poi, stanotte, sul campo...
    -Non, non! Même pas en rêve! Ce serait indigne de nous!
    -Voi, caro Conte, siete sempre tiepido, e la vostra mano pesa troppo sul governo. Il Risorgimento è adesso! Ach! Ficcatevelo bene in quella zucca, che spazio lì ne avete!
    -Vous savez bien... ce n'est pas parce-que l'homme a soif d'amour, qu'il doit se jéter sur la première gourde, mon général...
    -Ach so! Che devo sentire... quali brocche? Voi, Conte, col vostro snobismo siete diventato incontentabile. Ja.
    -Peut-être, peut-être...
    -Promettetemi almeno che questa notte se troveremo un'occasione propizia ci lascerete tornare all'assalto... con le bandiere e carica alla baionetta... come ai bei vecchi tempi...
    -L'on verra... non fatevi fretta né illusioni.
    Deluso ma non troppo, l'arzillo generale col cannocchiale continuava a scrutare il nemico per scovare l'elemento più debole dello schieramento. Ma il Conte venne a battergli una mano sulla spalla: -Il n'y a rien à faire, mon ami... è inutile che guardiate. Pensiamo a divertirci, ora, e per queste tristi incombenze verranno epoche più felici.
    Divertirsi, lo fece eccome: al Bétise di Ospedaletti, anche se curiosamente per questa volta non avevano il tavolo riservato, fu una bella nottata. Era da tempo che non tornava a quel campo di battaglia che, malgrado fosse sempre stato poco fortunato per lui, sentiva familiare più di altri. Ora che veniva in pace, senza alcuna intenzione di fare conquiste, era completamente rilassato.
    Il disastro avvenne alle ultime danze, quando la pista vuota e la musica ancora decente -quella notte il DJ aveva fatto un superbo lavoro- invitavano troppo per non continuare. Il terreno era disseminato dei relitti della lotta: stelle filanti, carte, bicchieri, e una fanghiglia nera sottile data dal ghiaccio e dalle bevande cadute che avevano lavato le suole delle scarpe dei combattenti. Su quella desolazione lui ballava a suo agio. Ma i sensi erano allentati dall'alcool, le gambe meno scattanti per la stanchezza, la volontà di strafare ancora insoddisfatta. E tutto ad un tratto, dopo un passo troppo ardito, sentì l'orrenda sensazione di vuoto che accompagna uno scivolamento inarrestabile, l'impressione del troppo tardi, dura quanto la realtà senza pietà. Col braccio riuscì ad evitare l'affronto di finire col volto nella bruttura del pavimento. E si ritrovò allungato per terra. Si rialzò subito, nondimeno, sentendo dolori migrare in tutto il corpo, dalle giunture ai muscoli. Come per ripicca verso la sua sfortuna, non smise di ballare, prese solo un passo più prudente. Accennò un inchino per scusarsi col pubblico per la sua imperizia, perché ci vuole stile anche nel fare minchionerie. Nessuna delle amiche l'aveva visto, almeno in questo s'era salvato. Il male alla gamba sinistra si faceva più acuto, ma non se ne curava: decise di fermarsi solo dopo essersi ripreso in extremis da un secondo scivolone. Ballava meglio di quanto non potesse camminare: si sentiva come se fosse caduto su un sasso aguzzo. Per marciare normalmente doveva costringere la gamba contusa ad una tortura continua. Si sedette rigido come un pezzo di legno e mezzo paralizzato su una poltrona libera, con gli altri. Solo ora riprendendo fiato gli capitava di ricordarsi che la prima volta che era stato in quel locale, fu proprio in presenza di Lei, per la loro festa dei Cento Giorni al Liceo; con uno dei suoi look impossibili di quei tempi, che inventava non sapeva ora se per ingenua leggerezza, voglia di apparire -poco importava come-, o disperazione noncurante: aveva quella notte una camicia hawaiana a fiori comprata in Giappone su cui mise una cravatta del San Francisco Yacht Club, la giacca buona da sera con la medaglia del campionato del '98 appuntata al bavero, e un vecchio cappello Borsalino, borghesissimo, piuttosto da funerale e di una misura troppo abbondante però molto chic. Metà della storia della sua vita su di sé si portava in manifesto, fra stracci e ferraglia. I pantaloni doveva averceli, ovviamente, ma non ricordava quali. Non fu una grande nottata: le sue orecchie verginali non erano ancora abituate alla durezza della musica Techno, così come l'esofago non l'era alla vodka; se pensava a com'era ora, gli veniva da sorridere. C'era anche Lei ma il suo compleanno, l'occasione in cui dichiarò la fine delle ostilità con essa, ma soprattutto con sé stesso, era già venuto un mese prima. Tutto il male era questione passata.

    ...così astratta dal mio squallore:
    l’amore, per te, non è traditore,
    tu ami, non me, ma che importa?
    Sei felice, e la mia via contorta
    mi dice che il tuo bene è il fine
    ultimo ed unico del mio amarti.”
    Quei versi recenti erano nati in tempi lontani.
    S'era imposto d'essere felice per lei, non potendolo essere con lei: e sentiva davvero, nel vederla serena, nel vedere che non aveva più paura di lui -pur se la confidenza che non aveva mai costruito, non si sarebbe mai più potuta costruire-, uno strano benessere superiore.
    Solo una decina di versi, tanto aveva riesumato dai canti che gli passarono per il pensiero, la notte che per la prima volta era andato a fissare quel mare senza fantasia da dietro le belle vetrate del Bétise: erano andati bene per Cyrielle, ma l'aveva pensato per Giulia: non li aveva scritti allora perché aveva già detto tutto in prosa. La storia s'era ripetuta. “Remember me to one who lives there... She once was a true love of mine”
    Era una strana felicità, quella, carica di violenza che sfogò più tardi, al Liceo, cantando ben forte coi suoi compagni “Faccetta Nera” per i corridoi, per il puro gusto della provocazione.
    Guardava ora le sue “amiche” che per quella sera erano scampate ai suoi inutili, imbarazzanti assalti; disfatte dall'alcool e dalla stanchezza pur non avendo passato che pochi minuti alle danze. Guardava le altre ragazze che vagavano sole per il locale: tutte in attesa di poter rimorchiare una qualche Sua Altezza che le riportasse a casa in Ferrari; un mentecatto come lui che portava sulla Calvin Klein un fazzoletto da marinaio poteva solo ispirar loro il consueto ribrezzo, nei casi migliori un po' d'ironia. Eh già, la fantasia faceva proprio paura. Fosse stato tempo prima avrebbe potuto offenderne qualcuna con una poesia: ora per fortuna aveva perso quella sua ultima arma della disperazione. Disarmati non si combatte, e neppure si perde però. La sua nuova tranquillità gli pareva una vera conquista. Alla sua dignità non c'era stata che la macchia di averci provato con Vanitas, che ormai aveva baciato tutti nella compagnia, tranne lui. Non la giudicava secondo il facile giudizio che la morale gli suggeriva; del resto cercava solo un poco di piacere, come tutti: aveva solo il bell'ardire di farlo senza molti giri di parole. Chissà, forse se lui non avesse avuto la pelle così rovinata lei gli avrebbe ceduto: ma dare il primo bacio ad una così libertina, sarebbe stato calpestare tutta una vita di sogni ed aspirazioni di purezza di cui ogni tanto si faceva un punto d'onore. All'estremo opposto, la consapevolezza che l'amore non era che un'esigenza animale lo rallegrava di non avergli mai ceduto: non era lui che non c'era mai riuscito, era nella sua ottica lui che aveva sempre saputo resistere all'istinto. Una notte del passato era stato davvero il caso, quando una ragazza ubriaca gli si avvinghiò e lui la respinse con ferma gentilezza; fu in effetti l'unico tentativo “serio” di cui era mai stato fatto oggetto: ma non poteva essere così, deluso si rifiutò, ritenendosi beffato dalla vita non volle stare alle sue regole.
    Convivevano così in lui due correnti esattamente contrapposte, quella romantica che viveva di ideali e di valori assoluti, e quella pragmatica che riconduceva l'amore alle regole dell'etologia. Illusione e disillusione, ma quella ed altre notti entrambe lo spingevano a non provarci più, a restare fuori dai giochi, giudicati indegni della sua purezza se visti col romanticismo, della sua intelligenza se visti con la razionalità. E poi, a due sapeva ballare solo il liscio: la minima scusa lo esonerava con tutta tranquillità da “queste stupidaggini”, come le definiva il suo Conte della Ragione. Il Generale Impulso era ritenuto dalla maggioranza del suo governo un vecchietto rimbambito dalle idee pericolose, e nessuno gli dava più retta per le questioni più importanti.
    Solo ora riusciva a convincere a tornare a ballare ancora un po' prima della chiusura: avendo però somma cura di scegliersi un angolo della pista che non fosse bagnato, e saggiando la tenuta delle suole sul pavimento prima di cominciare. Subito prima della chiusura, come ultima canzone il DJ fece passare “A te” di Jovanotti: e fu il vero rammarico della nottata, di non aver avuto qualcuna per ballarla. Prima di uscire lui, Tommaso ed Orecia si fecero fare una foto assieme alle cubiste, per il puro gusto della goliardia.
    Prima di tornare a casa, la comitiva andò dal fornaio a Vallecrosia a comprarsi la colazione; per lui, brioche allo zibibbo e un'altra con la marmellata. Dato che faceva un freddo assassino, invitò i suoi ospiti a mangiare nella sua auto, poco importava per le briciole. I ragazzi facevano il consuntivo finale e lamentavano i loro insuccessi, Lucius rideva sotto i baffi perché, caduta a parte, non aveva nessun fallimento su cui recriminare. Ora gli pareva di capire perché si vestisse e talvolta si comportasse da vero idiota -secondo quel che era il canone comune, non certo secondo il suo-, era forse per tenersi lontane le ragazze normali: solo una bizzarra quanto lui sarebbe stata attratta dalle sue stravaganze. Solo una che avesse avuto la maturità per fidarsi della sua originalità, per trovarvi un'attrattiva anziché una tara. Delle fashion-victims, la maggioranza, se ne faceva un baffo. L'unica controindicazione, era che ogni tanto doveva subire i lazzi e l'ironia di alcune di esse, e che la ragazza cui immaginava poter piacere quasi certamente non esisteva più. Ma tanto, che importava? Poco più di nulla.
    I problemi veri erano altri, a cominciare dalla tesi che era lunga e dura da scrivere, che ogni volta che si metteva sotto per farlo di colpo il cervello gli pareva svuotato d'idee, doveva ripensare cento volte le frasi prima di dargli forma conveniente in quell'arido linguaggio scientifico che riduceva a formule facilmente comprensibili i fatti variopinti d'una vita che avrebbe voluto fare. L'antico odio per la parafrasi delle poesie tornava ora sotto altra forma e si riprometteva che mai si sarebbe dato permanentemente alla ricerca su lavori altrui, preferendo mille volte la creazione all'analisi. Sopportava quest'ultima come condizione indispensabile per comprarsi un futuro, e per formare meglio il suo stile ancora vacuo. Anche i passatempi ora gli davano problemi, per il senso di colpa della perdita di tempo, e perché quella bella corazzata che stava costruendo era stata riprodotta in modello da un imbecille incapace incompetente -le fughe di insulti gli venivano facili per quell'uomo che pure era stato suo amico- che l'aveva fatta nascere storpia. Non poteva sopportare di vedere le bellissime linee di quella nave che tanto amava, deturpate da deformità irrimediabili. E continuava a lavorarci per non ammettersi infinocchiato, per non dare per persi i soldi spesi, soffrendo alla vista quotidiana degli scempi.
    La rivide anche nella semioscurità della camera, tornato a casa, mentre aggiornava come da tradizione il suo diario riassumendo in qualche riga la serata trascorsa. La prua sgraziata del modello, il tratto incerto e sbrigativo della matita, il fischio nelle orecchie, tutto gli dava un'impressione d'imperfezione generale. Quindi tutto era in ordine, l'imperfezione era la sua condizione più congeniale. Andò a dormire senza più sensi attivi, come un sasso sotto la neve.


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