Perché mi torni in mente in questi giorni,
quegli occhi malinconici, un po’ tristi
di giovane che troppi ne ha già visti
momenti senza luce, disadorni?
Tuo padre, muratore ed emigrante
Tua madre, donna delle pulizie
La nonna t’ha cresciuto, un po’ le zie,
te che dicono bimbo esuberante.
Godevi libertà da fare invidia;
selvaggio, eri un monello senza freni,
lasciato a scorrazzare su terreni
affascinanti per la loro insidia.
Ti persi poi di vista nelle brume
che attenuano i colori dei tramonti.
I giorni, i mesi, gli anni … persi i conti
Di te rimase in me solo un barlume.
Sereni e senza scosse furon gli anni
che dieder fondamenta al mio edificio
Qua e là un qualche fuoco d’artificio
però senza l’assillo degli affanni.
Poi vennero quei primi anni Ottanta,
tardiva e amara presa di coscienza
che ormài nella tossìcodipendénza
di gente tua n’era finita tanta.
E fu in quel gruppo di volontariato
che un giorno udii il tuo nome – pure mio.
Che shock al primo incontro, santodio:
m’apparve un curvo giovane invecchiato.
Facevi, mando a dirlo, il muratore,
con moglie, figlio e affitto da pagare,
con l’eroina a farti da compare,
tagliata con la gioia e col dolore.
Noi s’era volontari senza scienza,
di buona volontà e di tanta rabbia
per quegli amici chiusi in una gabbia
d’equivoca e fatale consistenza.
Sbattevo io la testa contro il muro
perché non mi riusciva di capire
che cosa li spingeva ad inserire
quell’ago trasformato in un siluro.
Saltavan fuori allora quelle storie
di padri sublimati nell’assenza,
presenti in esplosioni di violenza
che i figli intossicavano di scorie.
I tuoi non eran certo manigoldi
ma tu sempre la nonna nominavi.
E non di rado là ti rifugiavi:
due fette di salame e un po’ di soldi.
Ricordo quando c’hai invitato a casa:
c’hai messo lì bottiglie da affogarci;
e poco ci mancò dall’ubriacarci,
in orbita più ancora della NASA.
Avevi il cuore in mano e l’umiltà
di chi non ha gli orpelli del sapere.
cercavi nell’ebbrezza del bicchiere
conforto ai sensi di inferiorità.
Ci son volute ancora due o tre sbronze
per far saltare un po’ di resistenze,
comprese le mie assurde supponenze
un poco perbenistiche, un po’ stronze.
Poi venne il giorno della decisione:
un anno e mezzo di comunità,
di lotta dura per la dignità,
di studio e di matura riflessione.
Tu che quasi ignoravi la scrittura,
mostravi con orgoglio i tuoi quaderni,
gonfiati dal disgelo degli inverni
alimentati dalla tua paura.
Tornasti pieno d’umiltà orgogliosa
Tu padre, tu marito,
tu … te stesso.
Andavi fiero di quel tuo successo,
eri frizzante come una gazzosa.
Ma la tua Parca mai s’era fermata
nel tesserti la trama del destino.
E’ come una partita a nascondino:
tu allo scoperto, lei sempre celata.
Il fegato comincia a darti noia,
sei stanco, pesa fare il muratore.
Riprende l’altalena dell’umore;
ti abbatti, sembri andare incontro al boia.
La vita non mantiene le promesse
e come una lattina ti accartoccia.
Cos’è che spezza e infrange la tua roccia?
E’ lei, la nuova peste: l’AIDS.
Ti succhia ogni vigore, ti consuma;
la voce di un vecchietto centenario,
lo sguardo vaga sempre nel precario,
è come sangue che non si raggruma.
E finalmente arriva anche la morte,
a liberarti, mossa a compassione.
Non riesco a mandar giù la delusione.
Singhiozzo: come faccio ad esser forte?
Ricordo il giorno del tuo funerale:
scappai di chiesa, il fiato mi mancava.
Un canto dai credenti si levava
straziante di speranza surreale.
Vent’anni son passati, poco meno,
chissà chi si ricorda la tua faccia.
La giacca sulla spalla, una bisaccia.
Malinconia di un cielo mai sereno.