Naturalmente il qui presente racconto è solo la traduzione fantasiosa del malessere che un mio amico mi face accumulare. L'ho scritto in una notte molto brutta di un anno fa....leggete e moltiplicatevi
IL RITORNO DEL REPRESSO
Per la prima volta, in una sera che non aveva nulla da invidiare alle altre, desiderai uccidere l’amico che mi era sempre stato accanto. Dormiva pacifico e tranquillo; aveva appena finito di organizzare uno dei suoi soliti sproloqui in cui mi ricordava che stava studiando più di me. Tutto come ogni sera. Ero sprofondato subito nel letto impolverato e guardavo il soffitto pensando ai miei problemi: nulla a confronto con i suoi; pochi mesi prima gli era morto il padre, suicida. Sentivo, in quel mentre, di aver bisogno di un dramma che mi facesse penare, avevo bisogno di qualcosa di veramente doloroso che scostasse quella grigia nebbia che, stanca, continuava a tormentarmi. Avrei voluto anche io un dramma personale, così avrei potuto raccontare a tutti il mio stato d’animo e sarei stato, di certo, al centro dell’attenzione. Come lui, d’altronde. Era sempre stato il suo più grande vizio. Atteggiarsi al decadente e buona vittima della situazione, sentirsi sotto l’occhio di bue. Era così egocentrico che preferiva denigrare i suoi stessi amici per attirare l’attenzione di altri. Si, questa era la sua specialità; prendere in giro chi aveva qualche difettuccio per far notare agli altri che lui non ce l’aveva. Un bambino! Che ora dormiva ignaro del ciclone di odio e pensieri che aveva scatenato nel suo, presunto, migliore amico. Nell’accumulo di pensieri e pose meditabonde scorsi sull’armadietto accanto al letto una figura lucente che rifletteva il flebile fascio di luce della mia abat-jour. Erano le forbici con cui il giorno prima avevo ritagliato alcune fotocopie per l’università. Perché non le avevo riportate in cucina? Come al solito la mia pigrizia creava continuo caos attorno al mio polveroso letto. Non stetti molto a riflettere sulla mia pigrizia e il disordine, mi soffermai invece sulle forbici. Erano nuove e robuste, pesanti da far male alle mani mentre venivano usate. Un perno precario univa le due estremità che facilmente si staccavano formando una temibile coppia di coltelli affilati e puntuti. Ne presi uno in mano soppesandolo con lentezza. Ora sembrava più cupo, aveva perso un po’ della sua lucentezza e sembrava osservarmi cupo. Fu allora che capii cosa stavo per fare. Come ghiaccio, qualcosa mi trapassò il cervello e scese lentamente la colonna vertebrale. Non era follia, era pura consapevolezza di quello che stava accadendo. Nella notte della mia probabile rovina non ero nervoso, ero freddo e lucido. Mi alzai dal letto che emise un suono di protesta più forte del solito. Si sarebbe svegliato? E se mi avesse trovato accanto con quella specie di coltello in mano? Cosa avrei fatto allora? Domande inutili perché continuava a russare in modo buffo (e pensare che ha sempre affermato, con orgoglio, di non russare). Continuavo ad avvicinarmi, ormai ero prossimo al suo petto lasciato fuori dalle coperte. Osservai per un attimo il suo volto, qualcosa lo turbava; non era il solito volto che amava sorridere per ostentare sicurezza, non era il volto beffardo con cui apostrofava ogni mia azione. Era lì, immobile, con i suoi folti capelli ricci che gli cadevano sul cuscino, il solito volto talmente magro che sembrava scavato nella pietra. Qualche pelo spuntava dal mento e sulle guance, sembrava malato. Dava l’impressione di essere ricoverato in ospedale. Era debole, completamente inerme. “Allora la notte sei solo con i tuoi fantasmi? Non c’è nessuno che ti dica quanto sei grande e bravo, devi affrontare il mostro da solo e non ce la fai!”-pensai non senza provare un po’ di piacere. Intanto la mia ombra era già giunta sul suo volto. Stava per accadere l’irreversibile e, no, non mi sentivo nel torto. Con un ultimo sguardo al suo volto pensai a ciò che sarebbe accaduto dopo. Immaginai di essere solo nella stanza con il suo corpo squarciato nel mezzo, il mio pigiama pieno di sangue, pochi istanti per fare sì che gli altri coinquilini si svegliassero. Immaginai le loro facce colme di terrore e io … cosa avrei potuto dire e fare? Fui preso dal senso di smarrimento più totale, non ricordavo come fossi giunto vicino al suo letto e che cosa diavolo stavo facendo con quella parte delle forbici in mano? Cazzo! Stavo per farlo, stavo per ammazzare un mio amico. Mi allontanai facendo un paio di passi in dietro. Ero solo e il mio mostro aveva finalmente scacciato la stanca nebbia grigiastra. Ora avevo anche io il mio dramma personale.
Quella notte dormii come una bestia. Rannicchiato, con le gambe strette al petto, tremolante e irriconoscibile. Davvero stava succedendo questo? Davvero mi ero trasformato nel mostro che avevo sempre scacciato e deriso? Chiusi gli occhi con forza deciso a non pensare più. La notte passò come l’ultima delle notti, lenta, buia e calda. Goccioline di sudore invadevano ormai tutta la mia fronte quando il sole torreggiava altèro nel cielo, per tutta la notte non avevo fatto altro che pensare, pensare, pensare. Mi girai. Stava ancora dormendo, non si era accorto del rumore assordante dei miei incubi. Stetti, così, a riflettere sulla notte appena passata, su tutto quello che avevo fatto e stavo per fare e, con mia grande sorpresa, non mi sentivo in colpa. Era una reazione istintiva quella di cercare di estirpare il male alla radice, quella di dimostrargli che non era il migliore, non era il superiore. Avrei potuto anche parlare con lui, certo. Sarebbe stato come far capire ad un neonato la differenza tra sostanzializzazione e formalizzazione. Nel suo tentativo maldestro di sembrare eclettico e “diverso” cadeva in banali luoghi comuni e stereotipi fin troppo bistrattati. Il dandy, così amava definirsi. Si vestiva come un dandy, mangiava come un dandy, fumava come un dandy, camminava come un dandy e si atteggiava come un dannato dandy. Purtroppo il suo mirabile cervello (mirabile a detta sua) non sembrava dandy, anzi, portava le più classiche caratteristiche di un cervello bigotto e conservatore che cerca di fare il “figo” in modo palesemente sbagliato. Quindi intavolare una discussione con il suddetto amico, significava perdere in partenza perché un cervello conservatore come il suo non ammetterà mai lo sbaglio, non ammetterà mai l’errore, non ammetterà mai che la ragione vada a coloro che lui ha sempre denigrato. Che senso avrebbe avuto parlargli? Viviamo insieme e la rottura avrebbe significato distacco, il distacco avrebbe significato l’abbandono della casa da parte di uno dei due. Ed io non volelo andarmene. Checchè se ne dica, io stavo bene in quella casa.
E’ il giusto ritorno di fiamma con cui scottarsi quando non si può comunicare.
Quando in un rapporto la comunicazione cessa di esistere, cessa di esistere la complicità e con essa il rapporto stesso. E’ stato stupido (o troppo facile) da parte mia sperare di preservare il quieto vivere con il silenzio. Nulla si preserva con la speranza o con il tacito accordo. Se solo fossi stato più coraggioso (o semplicemente più umano), non avrei dovuto contenere tutto quel male per così tanto tempo. Si, perché quando il male si accumula nel petto, comincia a crescere e crescendo comincia a premere, scheggiando le costole e squarciando finanche la pelle in cerca dell’uscita. E pensare che oggi il trailer di un film recitava:”Impara a nascondere lo sporco sotto il tappeto, altrimenti non ne esci vivo”. Avrei voluto rispondergli che il tappeto ha un’area limitata e quando è tutto pieno, dove lo mettiamo lo sporco?!?
E’ tutta una grossa questione di pazienza.
Neanche io ci capisco più tanto.