Tutto comincia con un’immagine da cartolina. La moschea blu con i suoi minareti e il ponte che unisce l’Europa e l’Asia. Istanbul, insomma. Su un traghetto che porta quattro personaggi. Eyal, il protagonista, e tre comprimari. Questi ultimi sono una famiglia, araba, sicuramente. Padre con barba, moglie con chador e figlioletto che ancora aspetta il suo futuro. Eyal si alza, va in bagno. Qui si chiude dentro e tira fuori una piccola valigetta. Dentro di sono della fiale e una siringa. Liquido rosso riempie uno strumento che di solito è di vita, ma che, è chiaro stavolta porterà a qualcosa di peggio. I quattro scendono dal traghetto, Eyal passa vicino all’arabo, lo urta, questo cade a terra. Morto, è chiaro. Le lacrime del bambino segnano la natività dell’orfano e del vendicatore di domani.
Missione riuscita per l’agente del Mossad. Perfettamente riuscita. Ma quando torna a casa, lo aspetta la fine del mondo. O almeno la fine di un mondo. Sua moglie, a letto distesa, morbida come solo le mogli sanno essere. Ma non risponde al suo chiamare. Sul comodino un blister di pastiglie svuotato e una lettera. Segni che ancora non si vogliono comprendere. I segni del suicidio.
Un mese dopo Eyal aspetta una nuova missione. Una missione che non arriverà. I servizi segreti israeliani lo giudicano troppo instabile ancora per affidargli qualcosa di serio. Eppure qualcosa c’è. Sta arrivando in Israele il nipote di un nazista. Eyal dovrà fargli da balia turistica per capire se il nonno è ancora vivo, per poter arrivare alla giustizia prima di Dio.
Eytan Fox compone un film davvero strano, un oggetto non chiaramente definibile. Traveste di leggerezza un soggetto che poteva essere affrontato in modo assai pesante, gioca con le aspettative del pubblico, rivelando a poco a poco le vite e il carattere dei suoi personaggi. L’agente del Mossad duro e puro, messo a confronto con Alex, il ragazzo tedesco che si rivela essere gay e molto rispettoso sia d’Israele sia delle sofferenze palestinesi, comincia a perdere, molto lentamente, parte delle sue sicurezze. Ma il suo percorso era già cominciato, il cambiamento era partito con quella lettera di suicidio, il cui contenuto ci sarà rivelato solo alla fine del lungometraggio.
Il film comunque è riuscito, anche se in certi momenti la sceneggiatura diventa inconsistente e incoerente. Ma questi difetti sono sopravanzati dal tono che l’autore mette in campo nel mostrare cosa significhi essere tedeschi in terra d’Israele e ebrei in Germania. I ruoli si scambiano, e ogni personaggio contribuisce alla crescita dell’altro. Anche se Eyal è quello che ha più da imparare.
Entrambi i protagonisti maschili sono messi di fronte ad un passato che non gli appartiene. Eppure sul quale sentono di avere delle responsabilità. Il nipote del nazista e l’agente del Mossad. Un’amicizia complicata, ma possibile. Per questo l’happy end non stona più di tanto. Se è possibile che i due leghino, tutto è possibile nel mondo. Anche che, forse, il conflitto arabo – israeliano un giorno finisca.
E tutto è legato ad una vicenda in cui entrambi non credono. Cristo che cammina sulle acque. Uno non cristiano, l’altro ebreo. Uno figlio di una cultura del perdono che non riesce a perdonare, l’altro figlio di un Dio vendicativo che non può più vendicare. Davvero una strana coppia. Ma una coppia che può camminare sulle acque, se la loro anima diventa lieve e le loro colpe espiate. Ma non c’è il senso del divino che può alleggerirli dal peccato. C’è solo la propria coscienza, una coscienza con la quale fare i conti giorno per giorno, un perdono che deve essere dato a se stessi, la redenzione più difficile. Allora sì, quando si è in grado di espiare di fronte al tribunale della coscienza che c’è in ognuno di noi i propri peccati, si può finalmente tenere il mare di Galilea sotto ai propri piedi, finalmente leggeri, finalmente liberi.
Prima di Dio è la formula che il capo di Eyal gli ripete per uccidere il nonno di Alex. Prima di Dio ci sono gli uomini e non le vendette. L’agente del Mossad lo capisce attraverso la più grande sofferenza che possa essere inferta all’uomo. Una sofferenza forse non abbastanza sottolineata dal regista, molto preoccupato di dare al lungometraggio quell’alone pop che gli consente di uscire dal ghetto del cinema di autore. Ma comunque percepita, sfiorata, accarezzata.
Un progetto strano, questo film. Colonna sonora davvero azzeccata che mischia Springsteen con Gigliola Cinquetti, per un dramma pop che aiuta a vedere la quotidianità di un paese, Israele, che non riesce a dimenticare la storia, e che porta sulle sue spalle il fardello di un presente durissimo. Ma è anche un’opera che non dimentica che ci sono anche gli altri, e le lacrime del figlio dell’agente di Hamas parlano più di mille dialoghi. Da quelle lacrime nasce la morte, nascono le bombe. Asciugare quelle lacrime non sarà facile. Ma, di certo, è necessario per camminare sulle acque.
L'avete visto? Che ne pensate?
Io l'ho trovato molto carino ^^