- di Guido Scorza -
La notizia della condanna per violazione della privacy dei tre dirigenti di Google per l’ormai noto episodio mi ha raggiunto mentre sono in treno, direzione Milano.
Le Sentenze non si commentano senza averle lette e, soprattutto, non lo si fa mai quando le emozioni possono avere la meglio sulla ragione.
Rinvio, quindi, un commento più “tecnico” alle prossime ore, magari, sulle pagine di Punto Informatico.
Non so, però, sottrarmi ad un primo commento.
I
giudici sostengono che Google avrebbe dovuto evitare che la privacy del disabile fosse violata attraverso la pubblicazione - ad opera di terzi (peraltro ragazzini) - di un video che lo ritraeva in un ignobile episodio di bullismo in una scuola del quale era stato vittima.
Sempre secondo i giudici, l’aspetto fondamentale della Sentenza starebbe nella circostanza che si sarebbe affermato il principio secondo il quale il diritto di impresa non può prevalere su quello alla privacy.
Due semplici considerazioni in attesa di ritornare sull’argomento.
Sarà perché sono in treno ma la sensazione è che la decisione dica più o meno che i ferrovieri dovrebbero rispondere di illecito della privacy se consentono che i viaggiatori, parlando magari ad alta voce, raccontino fatti o episodi suscettibili di ledere l’altrui privacy.
Le ferrovie, naturalmente, guadagnano - ovvero esercitano il loro diritto di impresa - sui viaggiatori che trasportano e, se volete, anche sulla libertà di azione che lasciano ai loro trasportati ma da qui ad ipotizzare che siano responsabili delle lesioni alla privacy arrecate a terzi dai loro viaggiatori il passo è davvero lungo.
Non mi sembra d’altro canto che sulle condizioni generali di trasporto ci sia scritto che è vietato parlare a voce alta di fatti altrui perché così facendo si potrebbe violare la privacy di terzi.
Francamente non mi sembra che si tratti di un problema di rapporto tra diritto d’impresa e diritto alla privacy ma, più semplicemente, di ruoli e resonsabilità dei diversi interpreti della catena che consente ad un contenuto di partire dal telefonino di un ragazzino ed arrivare online.
Guadagnare - peraltro in modo indiretto - sui contenuti pubblicati da terzi attraverso i propri servizi, non credo dovrebbe importare l’assunzione di una responsabilità per l’operato dei propri utenti.
Ho già scritto spesso che se passa il principio secondo il quale l’intermediario risponde dei contenuti immessi in rete dagli utenti, la Rete che conosciamo è condannata all’estinzione.
Non si tratta di poco rispetto per la disciplina della privacy, il problema è, piuttosto quello di scegliere bene chi deve rispondere, nel modo più severe possibile, per le violazioni di tale disciplina.
Google c. Vividown: condannati i ferrovieri! – GBLOG