Per molti giovani la carriera da informatico non è "glamour"
GIORGIO DE MICHELIS
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO - BICOCCA
L’onda di riflusso che ha già colpito duramente gli Stati Uniti e l’Inghilterra sta arrivando anche nell’Europa continentale e quindi in Italia: gli iscritti ai corsi di laurea in informatica e in ingegneria informatica hanno cominciato a calare in misura consistente. Sembra un fenomeno di follia o di stupidaggine collettiva, visto che sul piano mondiale - e l’Italia non fa eccezione - il settore informatico è quello che promette il maggior numero di posti di lavoro per i prossimi anni, Eppure avviene, e non è un fenomeno contingente, per ciò che rivelano tutti i dati dei Paesi anglosassoni che hanno visto scoppiare il fenomeno con qualche anno di anticipo.
Dagli Stati Uniti ci arrivano anche le prime interpretazioni delle sue cause in un preoccupato dibattito tra gli addetti ai lavori. La tesi che raccoglie il maggiore consenso è quella che vede la causa del declino delle iscrizioni ai corsi di laurea in informatica e in ingegneria informatica nel fatto che questi ultimi sono privi di «sex-appeal». In estrema sintesi, si è focalizzata la didattica dell’informatica nella formazione dei programmatori, pensandoli come professionisti capaci di creare nuovi programmi per risolvere problemi complessi, ma i programmatori che la gente vede intorno a sé sono figure che scrivono righe di codice di scarso interesse, per di più rinchiusi in sottoscala privi di luce e lavorando senza orari per salari modesti.
Insomma, l’informatica non attira i giovani: non promette carriere brillanti come economia o legge, non aiuta a capire il mondo come psicologia o filosofia, non è sexy e alla moda come scienze della comunicazione. E i giovani hanno più di qualche ragione per pensarla così, in particolare in Italia: il programmatore è infatti un risolutore di problemi, ma i problemi nuovi e originali sono ben pochi, per cui sempre meno inventa nuovi programmi e sempre più spesso si limita a istallare presso gli utenti (contestualizzandoli secondo procedure ormai ben definite) programmi standardizzati.
E’ un lavoro difficile ma noioso, complicato ma non complesso, che non interessa e non può interessare.
In Italia, inoltre, il declino delle iscrizioni amplifica un fenomeno già assai consistente, che è quello della progressiva dequalificazione della professione, sempre più popolata da persone che non hanno competenze specialistiche adeguate: fanno gli informatici laureati in qualunque disciplina scientifica e/o ingegneristica, ma anche in filosofia, lettere, psicologia e così via. Ne consegue che stiamo entrando in un pericoloso circolo vizioso: una professione dequalificata non attira studenti, alimentando così una sua ulteriore dequalificazione.
E’ possible reagire a questa deriva? Io penso di sì. Si tratta di uscire dall’imbuto in cui noi informatici ci siamo cacciati per guardare alla nostra disciplina e alle professioni di cui essa è base, con occhi nuovi. Un buon punto di partenza può essere la società dell’informazione: l’opinione pubblica, come pure gli osservatori più attenti e i decisori più avvertiti, concordano nel ritenere che le società industriali siano nel pieno di un cambiamento epocale che ha nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione il suo motore.
La società dell’informazione è appunto il nome che diamo alla società che sta prendendo forma e sono numerosi gli umanisti (psicologi e sociologi, ma anche filosofi e letterati) che cercano di interpretarne i lineamenti e anticiparne gli esiti. Ma la società dell’informazione non è un evento naturale, indipendente dagli esseri umani (peraltro, oggi, vediamo che anche i fenomeni naturali dipendono dai nostri compOrtamenti), ma il risultato della diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, per cui la qualità di queste tecnologie diventa una questione decisiva.
Quella che vediamo è una straordinaria sperimentazione di massa dell’innovazione, in cui tecnologie senza padre e senza padrini si affermano al di là delle previsioni degli analisti (Internet), imprese dominatrici del mercato devono annullare piani strategici su cui hanno investito ingenti risorse (IBM e Microsoft e la lista potrebbe continuare con le società del settore telefonico), utenti di diversa età e diversa cultura reinventano applicazioni, scoprendovi delle possibilità che non erano state prese in considerazione da chi le aveva create (il cellulare oppure il Web).
Progettare le tecnologie per la società dell’informazione è insomma una sfida affascinante e pone problemi inediti, la cui complessità riflette la complessità crescente della società in cui viviamo. Gli informatici sono i candidati naturali per raccogliere questa sfida. Le università possono giocare un ruolo importante su questo terreno, orientando i loro corsi alla formazione di progettisti della società dell’informazione invece che di programmatori: persone con gli occhi aperti sul mondo e non cantinari frustrati.