L’epatite C (dal greco “hepato”, fegato, e “itis” infiammazione) è un’infiammazione del fegato causata da un virus denominato HCV.
Prima dell’identificazione del virus, avvenuta nel 1989, l’epatite C era definita come “non A non B”.
L’HCV attacca preferenzialmente il fegato, attraverso l’attivazione del sistema immunitario dell’ospite, provocando danni strutturale e funzionali anche molto gravi.
Nello specifico l’infezione causa la morte delle cellule epatiche (necrosi epatica), che vengono sostituite da un nuovo tessuto di riparazione-cicatrizzazione, cosi da determinare il processo di fibrosi epatica. A lungo andare questo tessuto di cicatrizzazione sostituisce tutta o quasi la componente sana del fegato, da cui deriva una grave compromissione delle sue attività evolvendo come ultimo stadio alla cirrosi epatica.
In Italia, La diffusione dei virus HCV ha toccato la massima intensità tra gli anni 60 e la metà degli anni 80. Da tale periodo è iniziato un declino della incidenza di infezioni legato principalmente alle migliori conoscenze delle vie di trasmissione, alla diffusa adozione di materiali medici monouso e, più in generale, all’elevarsi del livello igienico sanitario.
Ciò detto, L’infezione da HCV ha generato un numero cospicuo di portatori cronici del virus a causa dell’elevato tasso di cronicizzazione.
Si può affermare che sebbene una stima precisa della prevalenza di anti-HCV non esiste, è verosimile che circa il 3 % della popolazione italiana è venuta a contatto con il virus, e circa 1.000.000 siano i pazienti portatori cronici del virus.
Di questo esercito di persone contagiate, molti sono già deceduti, altri sono alle prese con le nefaste conseguenze delle sue complicazioni (epatite cronica, cirrosi e tumore del fegato), altri riescono a controllarne il decorso che si evolve in maniera più o meno benigna, ma molti altri non hanno ancora scoperto l’infezione.
Quanti sono ancora questi soggetti inconsapevoli di avere contratto una infezione cronica? Nessuno lo sa con certezza, e nessuno è in grado di fornire stime attendibili.
Ci dobbiamo quindi confrontare con dati attendibili ricavati dai pazienti che hanno già scoperto l’infezione da HCV e ne esce un quadro poco confortante:
l’epatite C, in Italia, è la causa principale
delle epatiti croniche
delle cirrosi
dei tumori al fegato
dei trapianti di fegato
dei decessi di malati di AIDS (coinfetti)
Ovvero, l’epatite C causa il maggior numero di decessi tra le malattie infettive trasmissibili.
L’Istituto Superiore di Sanità segnala che attualmente le principali modalità di trasmissione sono quelle nosocomiale, la tossicodipendenza, trattamenti estetici, tatuaggi e piearcing effettuati in ambienti non adeguatamente sterilizzati e che le nuove infezioni sono attualmente diminuite ma nell’ipotesi più ottimistica ogni anno si verificano circa 1000 nuovi casi di epatite da virus C*.
Non ci sono dubbi, quindi, che nei prossimi 5-10 avremo a che fare con le complicanze della malattia HCV relata, tradotto in una crescente domanda di trapianti di fegato e trattamenti per l’epatocarcinoma.
L’agente infettivo che causa l’epatite C è il virus HCV, un Hepacivirus che appartiene alla famiglia dei Flaviviridae.
L’HCV, assieme ai virus delle epatiti A, B, D ed E, fa parte dei “virus epatitici” propriamente detti che si distinguono da quelli “minori”, come il virus della mononucleosi infettiva, quelli erpetici e il citomegalovirus, responsabili di un danno epatico generalmente meno importante.
********Struttura genomica del virus HCV
I genotipi virali
L’HCV è stato scoperto nel 1989: da allora sono state identificate 6 varianti virali (nominate da 1 a 6), che differiscono tra loro per il genotipo, ossia per il contenuto delle informazioni genetiche e oltre 90 sottotipi (nominati a, b, c, ecc.).
I 6 genotipi virali sono diversamente distribuiti nel mondo (vedi la Tabella), con una prevalenza del tipo 1. In particolare la variante 1a è diffusa soprattutto nel Nord America, il genotipo 1b in Europa, il tipo 2 in estremo Oriente (Giappone, Taiwan), il tipo 3 in Asia centrale (soprattutto in India), quello 4 in Medio Oriente e in Africa, il genotipo 5 in Africa meridionale e il 6 in Asia sudorientale.
L’epatite C è caratterizzata da una elevata percentuale di forme asintomatiche.
Clinicamente nella maggioranza dei casi l’inizio della malattia è asintomatico, infatti solo pochissimi pazienti affetti da epatite cronica C ricordano l’esordio dell’infezione, mentre la maggioranza di essi non sa di essere infetta e solo per caso viene a conoscenza del proprio stato. L’episodio acuto clinicamente evidente, che come detto non è molto frequente, si può caratterizzare dalla comparsa di ittero, dolore in fianco destro, sensazione di malessere e stanchezza oltre ad un importante aumento delle transaminasi.
I sintomi si possono presentare prevalentemente dopo due o tre mesi dall’infezione, in corrispondenza del picco delle transaminasi e della comparsa dell’HCV-RNA.
Dopo l’episodio acuto in alcuni casi si verifica la guarigione con la scomparsa di HCV-RNA e la normalizzazione delle transaminasi. In altri casi dopo una apparente remissione che dura alcuni giorni o alcune settimane si osserva di nuovo un aumento delle transaminasi.
Il criterio fondamentale per considerare il soggetto guarito è la persistente negativizzazione di HCV-RNA per almeno 6 mesi-1 anno. Nei soggetti guariti la presenza di anticorpi Anti-HCV può persistere per anni o anche per sempre.
Negli altri casi, superato l’episodio acuto vi è l’evoluzione verso la fase cronica, il soggetto resta HCV-RNA positivo e le transaminasi possono essere fluttuanti o persistentemente normali.
Dopo l’infezione acuta circa il 20-40% guarisce, mentre il restante 60-80% evolve verso l’epatite cronica.
L’epatite cronica da HCV molto spesso è accompagnata da una sintomatologia aspecifica comprendente, con elevata frequenza, uno stato di fatica e malessere persistenti indipendenti dalla severità del danno epatico.
Molti pazienti con epatite C lamentano anche dolori muscolari, annebbiamento mentale e turbe della memoria che incidono, in vario grado, sulla quotidianità.
Viene riportata in alcuni casi anche la presenza di depressione e ansia generalmente non attribuibili al modo di acquisizione dell’infezione o alla gravità del danno epatico.
Solo recentemente si sta cominciando ad attribuire una parziale interpretazione fisiopatologica a questi sintomi, ipotizzando che ci sia un meccanismo virale diretto nella determinazione dei disturbi neuropsichici.
Il 20-35% dei pazienti con epatite cronica nel giro di 10-30 anni progredisce verso la cirrosi e la progressione può essere favorita da alcuni fattori di rischio come l’obesità, l’età, la steatosi epatica, il consumo di alcol.
Attualmente la diagnosi di epatite C si basa sull’impiego di due esami del sangue: la ricerca degli anticorpi specifici contro l’HCV e l’individuazione delle particelle virali HCV-RNA.
È inoltre possibile valutare in modo indiretto lo stato di infiammazione del fegato determinando i livelli delle transaminasi epatiche. Una volta accertata la presenza del virus si possono eseguire ulteriori indagini volte a definire precisamente il danno al fegato con la biopsia e ad individuare il genotipo dell’HCV e la carica virale grazie all’HCV-RNA quantitativo.
Anticorpi anti-HCV
Questo test per la ricerca degli anticorpi è disponibile dal 1989 e permette di stabilire se il soggetto è entrato in contatto con l’HCV e se ha quindi sviluppato anticorpi contro il virus, ma non distingue tra malattia pregressa o in atto, aspetto evidenziabile unicamente andando a valutare la presenza o meno del virus nel sangue con la ricerca dell’HCV-RNA.
La ricerca di anticorpi anti-HCV può dare risultati falsamente negativi se avviene nel cosiddetto “periodo finestra”, che è l’intervallo di tempo, fino a 6 mesi, compreso tra l’esposizione dell’individuo al virus e la formazione degli anticorpi specifici.
HCV-RNA
Il test permette la determinazione del genoma virale e la conferma definitiva della diagnosi di epatite C viene dall’individuazione delle particelle virali circolanti nel sangue, la cosiddetta carica virale o viremia, mediante un test molecolare basato sulla polymerase chain reaction (PCR), una tecnologia molto sensibile che consente di analizzare quantità minime del genoma dell’HCV. Se questo test risulta positivo HCV-RNA qualitativo, significa che sussiste una replicazione virale in corso e quindi una infezione. La stima della carica virale (HCV-RNA quantitativo) fornisce inoltre importanti indicazioni sulla risposta del paziente al trattamento e all’eventuale necessità di modificare il regime terapeutico.
Il genotipo virale (HCV-RNA qualitativo)
Permette di stabilire il genotipo del virus (ad esempio 1a, 2a, 2b, 3…), al momento attuale se ne conoscono 6 tipi distinti, ulteriormente suddivisi in un centinaio di sottotipi. La ricerca del genotipo virale è un’altra indagine estremamente utile per impostare correttamente la terapia antivirale. Infatti il genotipo sembra influenzare notevolmente la risposta del paziente al trattamento.
Le transaminasi epatiche
Il grado di infiammazione del fegato può essere anche valutato indirettamente determinando l’attività delle transaminasi epatiche (alanina transaminasi o ALT/GPT e aspartato transaminasi o AST/GOT), enzimi prodotti dal fegato che durante la fase di infezione acuta vengono rilasciati in elevate quantità nel circolo sanguigno.
Se dopo ripetuti dosaggi i valori delle transaminasi rimangono persistentemente al di sopra della norma l’epatite C è considerata cronica. Tali enzimi epatici hanno normalmente un andamento intermittente, con innalzamenti dei livelli che si possono alternare a normalizzazioni. Inoltre in un caso su quattro le transaminasi restano stabilmente normali per tutto il decorso dell’infezione, anche se il virus si moltiplica nell’organismo.
Non è quindi corretto utilizzare il livello delle transaminasi come unico indicatore di infezione da HCV e per diagnosticare l’epatite C bisogna necessariamente eseguire i test precedentemente citati.
La biopsia
Una volta accertata la presenza dell’HCV, per avere un quadro preciso sull’entità e sul tipo di danno al fegato, è spesso utile effettuare una biopsia epatica, un esame che viene eseguito in regime di ricovero giornaliero (Day Hospital) e che consiste nel prelievo di un piccolo campione di tessuto epatico e nella sua analisi al microscopio. Le informazioni così ottenute possono contribuire alla definizione del programma terapeutico più adeguato per il paziente HCV-positivo.
Il contagio dell’infezione da HCV avviene principalmente per via parenterale, cioè attraverso il sangue, e molto meno frequentemente per via sessuale.
L’infezione si trasmette preferenzialmente per via orizzontale, da individuo a individuo, e in minor misura, con una frequenza del 3-5%, per via verticale-perinatale, cioè da madre a figlio; tale percentuale aumenta considerevolmente nel caso di madri portatrici anche del virus dell’immunodeficienza umana (HIV), raggiungendo tassi del 15-25%.
La via parenterale
E’ la via preferenziale di trasmissione dell’HCV.
I principali mezzi di contagio di sangue infetto sono:
• Aghi e siringhe riutilizzabili per iniezioni intramuscolari ed endovenose di farmaci e droghe. Il rischio di contrarre l’infezione attraverso questa modalità è oggi diminuita in occidente grazie all’utilizzo di materiale monouso e di procedure di sterilizzazione, soprattutto a livello sanitario-ospedaliero, ma sussiste ancora nei paesi in via di sviluppo.
In generale il rischio è molto alto tra i tossicodipendenti che fanno uso di droghe per via endovenosa, in cui l’incidenza di infezione da HCV oscilla dal 50 al 95%: in Europa e negli Stati Uniti la tossicodipendenza è il principale fattore di rischio per l’epatite C.
• Trasfusioni di sangue e di plasma-emoderivati.
Hanno rappresentato il fattore di rischio prevalente per la diffusione dell’HCV negli anni antecedenti il 1990, prima cioè che fosse introdotto lo screening obbligatorio del sangue basato sulla ricerca degli anticorpi anti-HCV.
Oggi grazie all’impiego di test sempre più sensibili e a un più scrupoloso reclutamento dei donatori, il tasso di incidenza di epatite C associato alle trasfusioni si è quasi azzerato nei Paesi occidentali (< 0,9%), ma resta alto nelle nazioni in via di sviluppo, per le quali le trasfusioni rappresentano attualmente il principale mezzo di contagio.
• Strumenti con cui vengono praticati il piercing, i tatuaggi, l’agopuntura, interventi odontoiatrici e endoscopie, e in generale tutti gli oggetti - di uso sanitario o domestico - che possono procurare ferite anche lievi, quali forbici, rasoi, spazzolini e tagliaunghie, e che, se non opportunamente sterilizzati, possono fungere da vettori di infezione.
La via sessuale
E’ la modalità meno frequente di diffusione dell’HCV, con un numero di casi inferiore al 5%.
Tuttavia esistono situazioni che possono aumentare tale rischio:
a) la malattia epatica in fase acuta;
b) un’attività sessuale promiscua (tale pratica espone i soggetti al rischio di contrarre malattie veneree le cui lesioni cutanee possono costituire un porta di ingresso o di uscita di un’infezione HCV);
c) lo stato di immunocompromissione, cioè un indebolimento delle difese immunitarie dell’organismo, causato per esempio dalla concomitanza di altre patologie, dallo stato di trapiantato etc;
d) l’infezione da HIV;
e) la presenza di lesioni genitali (causate per esempio dall’herpes genitale);
f) il ciclo mestruale.
Oggi è possibile bloccare l’infezione cronica da HCV con farmaci specifici ed impedire in una parte dei pazienti che l’infezione proceda verso la cirrosi e le sue più temibili complicanze.
La cura dell’infezione cronica HCV si fonda sulla combinazione tra l’Interferone (IFN standard o peghilato) associato all’analogo nucleosidico Ribavirina.
In linea di principio, dose e durata del trattamento dipendono dal genotipo virale.
Attualmente vengono utilizzati Peg-Interferone alfa-2b alla dose di 1.5 ug/kg/settimana oppure Peg-Interferone alfa-2a 180 ug/settimana in dose fissa.
La somministrazione viene effettuata sottocute, una volta a settimana, generalmente sull’addome o sulla coscia con una “penna” di semplice utilizzo che il paziente si può autosomministrare.
Ribavirina è un inibitore nucleosidico che impedisce la replicazione del virus ed è disponibile in forma di capsule, viene sempre somministrato in associazione con l’IFN e mai in monoterapia, la dose viene generalmente basata sul peso corporeo.
Indipendentemente dal peso, i genotipi 1 e 4 richiedono dosi elevate di Ribavirina (1-1,2 g al dì) e 48 settimane di cura, garantendo la guarigione completa e duratura dell’infezione in circa la metà dei casi trattati.
Nell’ambito del genotipo 1 la probabilità di guarire è maggiore nei pazienti con malattia più giovane e bassa carica virale rispetto ai pazienti con malattia epatica più avanzata ed alta carica virale.
I genotipi 2 e 3, più “facili” da trattare, vengono curati con solo 24 settimane di terapia, con maggiore probabilità di guarigione (70-80% dei casi nel genotipo 3 e oltre 90% nel genotipo 2).