L’altro giorno, la sorte mi bacia,
mi regala uno scoop da ‘Corriere’
(nella vita ci vuole sedere,
non pensar che ti basti l’audacia).
In un bar dietro Piazza Navona
c’era un tizio dall’occhio un po’ spento,
dall’aspetto, dirò, macilento;
nell’insieme, una brava persona.
Non più giovane, eppure non vecchio,
ogni tanto s’alzava un po’ incerto
e gridava: “Mi chiamo Roberto
e di vino ne tengo parecchio.
Sono io che nel ‘57
fui assunto alle Poste – postino! –
senza mai aver fatto un inchino,
nè pagato a qualcuno mazzette.
Non si mosse per me un cardinale
e nemméno un sottòsegretario;
a nessuno leccai il tafanario,
niente sesso nè scritto né orale.
Un banale concorso, un esame;
m’impegnai, forse fui fortunato:
assuntò a tempo indéterminato!
ma il Destino tesseva le trame.
I colléghi e puré i superiori,
in difesa dellà tradizione,
non avéndo raccòmandazione
me ne fecer di tutti i colori.
Mi vedevan comé sovversivo,
un lebbroso per ìl lazzaretto:
non capivo qual’era l’effetto
del mio caso, l’esempio nocivo?!
Fui isolato, comé in quarantena,
non mi davano niente da fare:
non potendomi, no, licenziare
mi rendevan la vita una pena.
Cominciai a provare sconforto,
a sentirmi qual verme schifoso:
non l’Italia era un luogo merdoso,
ero io dalla parte del torto!
Presi a bere, girando in città
con il saio e la cenere in testa;
predicavo: “Sia pure modesta,
una spìnta è la nòrmalità.”
Seppi in seguito – e ancor mi rattristo –
che alla regola fui l’eccezione:
quello ché senza ségnalazione
soffio il pòsto ad un povero cristo.
S’è la norma che vinci un concorso
acquisendo le bénemerenze
e puntando sullé conoscenze,
non ti giova isolarti, far l’orso.
Dopo me non ci furon più errori
nei concorsi del pubblico impiego,
sia per quelli di molto sussiego,
fino giù ai più modesti lavori.”
Si sedette coprendosi il viso;
poi incrociò sopra il petto le braccia.
Era un’altra, però, la sua faccia:
forse l’ombra di un fiero sorriso?