Attacca i paesi «ricchi», poi propone meccanismi comuni globali anti-crisi
Non deve stupire nessuno il discorso duro nei confronti delle cosiddette “nazioni sviluppate” con cui la presidente brasiliana Dilma Rousseff ha aperto ieri i lavori della 67esima assemblea generale delle Nazioni Unite. La tirata d’orecchi era prevedibile e, dal punto di vista degli interessi del gigante sudamericano, assolutamente legittima e doverosa. Il motivo è semplice. Per Dilma, ieri, all’Onu e per il suo ministro dell’economia Guido Mantega, qualche giorno fa sul Financial Times, le politiche monetarie espansive dell’Occidente (soprattutto della Fed che stampa dollari e, in misura minore, anche di Ue e Giappone) non sono nient’altro che il preludio di uno «tsunami monetario» che si abbatterà molto presto sul globo.
Per Dilma si tratta di una politica strumentale con cui i paesi «ricchi» cercano di mantenere i privilegi di sempre, scaricando sul resto del mondo colpe che il resto del mondo non ha.
Il Brasile, lo sa bene la Rousseff che è economista di formazione, fa parte di quel “resto del mondo” emergente che dall’espansione monetaria Usa ha solo da perdere e, inoltre, non è quella a suo avviso la strada da percorrere se si vuole rilanciare la produzione, l’occupazione, il consumo e, naturalmente, neanche il commercio che, a ben vedere, è il motivo vero alla base delle politiche monetarie espansive degli Stati Uniti. Più dollari in circolazione, infatti, svalutano la moneta a stelle e strisce e, di conseguenza, servono ad aumentare l’export Usa, ottenendo l’effetto opposto sull’import. Ieri, proprio in casa di Barack Obama, Dilma ha detto a chiare lettere che a questa «guerra del cambio » lei non ci sta, che a non è la soluzione ma, anzi, è destinata ad aggravare la situazione.
«Nell’attuale recessione inondare il mondo di dollari valorizza a dismisura le valute dei paesi emergenti, togliendo loro mercati, il che non attenua bensì complica la crisi».
Ciò che lei e il Brasile propongono sono, invece, meccanismi comuni che consentano di coordinare, anche sul piano monetario, una via d’uscita globale dalla crisi. Una sorta di nuova Bretton Woods senza la quale, ammonisce, «non esiste via d’uscita». Dilma respinge con sdegno al mittente – ovvero il rappresentante per il commercio Usa, l’ambasciatore Ron Kirk – le accuse fattele nei giorni scorsi di «protezionismo » e spiega che si tratta appena di una «difesa commerciale». E per dimostrarlo snocciola cifre già rese note nell’ultimo weekend dal suo ministro degli esteri Antonio Patriota: «La vostra politica monetaria espansiva e di altri paesi sviluppati ha letteralmente invaso il Brasile con prodotti importati a basso costo al punto che tra 2007 e 2011 le nostre importazioni da Washington sono passate da 18 a 34 miliardi di dollari». Guerra dei cambi no, dunque per Dilma, ma neanche guerra “umanitaria” per risolvere conflitti sanguinosi. Neanche in Siria dove la «maggior responsabilità è di Damasco» ma dove deve essere la diplomazia e non il cannone a portare la calma: «Il dialogo non è solo la migliore ma a mio avviso l’unica opzione per la pace».
Fonte: europaquotidiano.it