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Il primo gennaio

  1. #1
    Dio Il Lupo
    37 anni
    Iscrizione: 15/5/2006
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    Piaciuto: 93 volte

    Predefinito Il primo gennaio


    IL PRIMO GENNAIO

    Per te.

    So che si può vivere non esistendo.
    Osservando, ben seduto, di culo un po’ stretto al mio schienale, sorridevo. Il teatro era gremito e sordo ai richiami delle maschere, incazzate a puntino. “Palchetto in alto a destra per lei signore”. E non me ne perdevo una, foss’anche notte fonda. Palchetto in alto a destra, culo stretto e andava bene così.

    Dall’altezza del palchetto scomodo avevo, però, la migliore vista su quanto di più nascosto e silenzioso c’era. Minuta e fragile, accantucciata nell’angolo basso di una delle quinte, si poteva intravedere una soffice mano bianca e un viso, di donna, bianco anch’esso, quasi incorniciato dal buio pesto, e intenso, della quinta scura.
    La prima volta che la vidi, due anni fa, per poco non mi prese un coccolone. Come fosse fantasma, emerse piano, per caso, da dietro una delle quinte del piccolo teatro. M’accorsi di lei per sbaglio e per distrazione. Impegnato, come al solito, a fissare uno di quei punti indefiniti e pensare a cose stupide o a cosa di buono ci sarebbe stato per cena l’indomani. Riconobbi in lei una donna, quando mosse, gentile, la mano per accennare a qualcosa riguardo la scena da sistemare.
    E, confesso, sono ormai due anni che corro a teatro per vedere quell’appassita immagine di sfuggita, per osservare, quasi rubando, quell’istante silenzioso della vita di lei che, furtiva, inconsapevole, aveva rubato anch’essa qualcosa alle mie giornate.
    Amabili e non raccontabili i pochi secondi in cui emergeva dal nero e con due gesti dirigeva il piccolo trambusto teatrale.

    So che quello che afferri, oggetto o mano, penna o portacenere, brucia e non se n’accorge, né te n’avvedi tu animale innocente, inconsapevole, di essere un perno e uno sfacelo, un’ombra e una sostanza, un raggio che si oscura.
    E capitava, come al solito, che alla fine d’ogni opera o commedia o tragica tragedia, fossi costretto a scappare a casa, deluso. Alla fine d’ogni opera, spariva dal buio per un buio più pesto e non veniva più fuori. Tiravo allora il collo alto del vecchio giubbottone invernale e mesto e infuocato di fiamma silenziosa, tornavo a passeggiare per quelle viuzzole fredde e mute che riportavano all’uscio conosciuto.
    Non sapeva, quella minuscola ombra bianca, non poteva sapere della rivoluzione che scatenava ogni sera. Non sapeva degli occhi fissi e tremuli su di lei, dell’amore sporco e profano. Non pensava all’assoluta magia che provavo. Al dolore che lacerava le mani e la pancia. All’oggetto lontano, non raggiungibile se non dal desiderio. L’attesa e il pensiero scostante di un’ombra bianca, immersa nella luce scura, ossessionava e accompagnava ogni mio passo ormai da anni, ogni minuto, secondo d’orologio e interminabile attesa per ogni nuovo spettacolo in teatro. Non poteva sapere. Non sapeva.

    Successe che arrivò, come ogni anno, la fine dell’anno. Il gran teatro portava in scena quella sera “Sogno di una notte di mezza estate”. Un tocco di magia silvana per gli uomini e le donne della città. Corsi a prendere il solito biglietto nel piccolo negozietto antico. Lì c’era sempre un bel giorno di prevendita e prezzi accessibili per gli aficionados. Solito palchetto in alto a destra. Prenotato.
    Fu lì che conobbi un attore. Domenico. Feci subito amicizia con il buon uomo. La sua calvizie ispirava innaturale simpatia. Mi raccontò del trambusto dietro le quinte, dei vari preparativi e della neve fredda che aveva completamente bagnato il vestito di Puck.Mi prese in simpatia e non tardai a chiedergli ciò che mi premeva le tempie e il cuore.
    Rispose con grande allegria che quella donna era l’addetta alle luci del gran teatro. Come fosse strano il gioco del destino che ad un ombra accostava la luce. Questo pensiero mi fece sorridere di un sorriso quasi paterno.

    Dovevo ispirargli simpatia perché mi invitò alla festa per la fine dell’anno che aveva organizzato il gruppo a casa della stessa ragazza. Superfluo dire che tra un esplosione di muta gioia e una stretta allo stomaco, accettai.

    Lo spettacolo fu di quelli più sognanti a cui potei mai assistere.
    Tra le ombre del magico e finto bosco inglese, fissai per molto, rapito ancora, l’ombra bianca, più viva del solito, della mia segreta e taciuta amata.
    M’ossessionava il pensiero fisso di poterla vedere finalmente alla luce chiara, di potermi soffermare su di un singolo capello o gesto ben definito. E quasi s’insinuava la pura di poter perdere quanto di più segreto e sotterraneo avessi covato in questi anni.
    Ma la passione e l’amore, si sa, contemplano anche la giusta dose di paura.

    La sera dell’ultimo dell’anno la mia piccola ombra bianca era avvolta, per la prima volta, anche di uno spicchio di inquieta speranza.
    All’ultima battuta dell’ultima scena il sipario si chiuse e la gente già sfollava. Mi alzai per ultimo e mi diressi all’entrata del teatro per attendere il buon amico Domenico.
    Tremavo. Si, di pura attesa.

    Dovetti attendere qualche minuto, di quelli tragici, al freddo e alla mercé di me stesso, ma dall’angolino che svolta verso l’uscita degli artisti, venne subito fuori il buon vecchio attore. Mi prese sottobraccio e mi chiese pareri, pensieri, emozioni. Rubò per un attimo ogni mia paura. Riuscì a farmi allontanare da ogni timore. Un caffè al piccolo bar di fianco. Quattro chiacchiere di quelle esemplari per un buon amico.

    Usciti nel freddo notturno mi guidò a piedi verso l’appartamento della ragazza. Eccoli che tornavano alla riscossa i pensieri. Il sangue circolava solo in testa e la pancia reclamava il suo tributo alla paura. “Sarà una bellissima festa”. Evidentemente Domenico s’accorse dei miei tentennamenti e cercò di rallegrarmi.

    Mi fece fermare di fronte ad un piccolo palazzo intonacato di rosa spento. Tre piani in altezza, sembrava un posto abbastanza tranquillo e buono per viverci. Salimmo due coppie di gradinate. Una porta semplice. Marrone acceso.

    Entrammo accolti da un ragazzo con un capellino da festa, gote rosse d’alcol e sorriso ebete. “Domè ti stavamo aspettando e questo qui…con chi ho il piacere?”
    Mi presentai sull’uscio, una stretta di mano e l’ubriaco e inusuale portiere ci fece entrare.
    Ero confuso e avevo paura.
    L’appartamento era piccolo ma pieno di ogni calore. Gingilli e soprammobili in legno bello t’accoglievano verso un salottino ampio, arredato moderno, con molte poltrone e divani e un tavolo in legno al centro. Sulla destra un piccolo caminetto e gente lì vicino a bere e a conversare. Le risate di due ragazze rendevano il tutto ancora più caldo e familiare.

    Imbarazzato strinsi la mano a tutti, presentandomi. Impacciato, mi muovevo in modo innaturale. Quel modo che si ha quando ti senti gli occhi addosso.


    Non feci in tempo a sistemarmi e a rilassarmi un po’ che da una delle porte, dalla cucina, venne fuori la mia piccola ombra bianca. Non era bianca. Era una ragazza alta con i capelli raccolti a coda. Capelli neri. Aveva la pelle ambrata, quella pelle fine che ti piacerebbe sfiorare per vederne ogni singolo angolo. Portava un maglioncino nero e un paio di jeans scuri. Due scarpe rosse da ginnastica che dioeranoperfette su di lei. Si voltò sorpresa e salutò l’amico attore, si girò poi verso di me e mi piantò due occhi marrone scuro addosso.


    So che non c’è magia di filtro o d’infusione che possano spiegare come di te s’azzuffino dita e capelli, come il tuo riso esploda nel suo ringraziamento, al minuscolo dio a cui ti affidi, d’ora in ora diverso, e ne diffidi.
    Si presentò sorridendo e fece gli onori di casa.
    Impietrito, turbato, le strinsi la mano senza proferire nessuna parola. Mi fece sedere e mi accomodai con un sorriso piccolo ed emozionato. Mi portò da bere e la festicciola cominciò.

    “Musica ragazzi”. Qualcuno urlò e un gruppo di giovani cominciò a ballare facendo cadere dappertutto lo champagne che avevano nei bicchieri. Osservavo divertito le varie, piccole, allucinanti pazzie di fine anno. Tutti cercavano di divertirsi e la mia piccola donna ambrata, invece, era indaffarata a fare la donna di casa, a preparare, accogliere, esaudire e adempiere ad ogni piccola richiesta degli invitati. La vedevo agitarsi ad ogni goccia sul pavimento, ad ogni cazzata di qualche ubriaco. E tacevo, immerso nella più dolce ammirazione.

    Era abbastanza in carne da essere bella e non saperlo. Bello ogni suo gesto distratto.
    La bellissima ombra bianca, la ragazza ambrata, addetta alle luci, era lì, di fronte a me. Nel più bel giorno della mia vita non ero in grado di parlare o muovermi. Ero fermo, ad osservare, il mio segreto, il mio desiderio, senza voler strafare o arrogantemente occupare il suo spazio.
    Rispettavo il mio piccolo fantasma come fosse sacro. Ed ero silenzioso, bocca chiusa.


    La festa continuò per tutta la notte. Fu una notte di canti e balli e racconti e ricordi a cui io ero alieno. La ragazza parlava e lavorava, anch’essa alienata un po’ dal divertimento rituale, dall’assurdità giustificata della gioia verso il nuovo anno. Due piccoli universi s’agitavano.
    La notte passò così, tra la felicità e gli eccessi degli invitati.


    L’indomani mattina, il nuovo anno salutava l’appartamento con il suo primo sole. Fui credo l’unico a non aver dormito. Troppo occupato, nel silenzio ebbro dell’altra gente addormentata, ad osservare la fronte liscia e la danza del respiro lieve della mia piccola, caduta nel sonno dalla stanchezza. S’era consumato quella notte il mio piccolo ardore, s’era bruciato ogni desiderio, appagato ogni profondo pensiero. In due anni non m’era mai passato per la mente di poterla vedere, conoscere e osservare da vicino.


    Inspiegabili i turbamenti e le costole incrociate al cuore in quella notte. Intraducibile l’amore. Si, l’amore.

    Tutti ancora nel profondo sonno. Rubai la copertina al buon Domenico, steso per terra, accasciato sulla donna del trucco. Coprii il mio piccolo fantasma fin sopra il collo, dopotutto meritava il calore che avrei voluto darle. Le carezzai la fronte, per la prima volta in due anni, sentii la sua pelle, le rubai, con amore, una sensazione. Non sapeva d’essere amata.

    Le sorrisi, nel silenzio.

    L’avrei rivista a modo mio, a teatro, la settima prossima.
    So che si può vivere non esistendo.
    Tirai il bavero alto del cappotto sul collo e me ne andai, attento a non far troppo rumore.

    Ora, uscita sul terrazzo, annaffi i fiori, scuoti lo scheletro dell’albero di Natale, ti accompagna in sordina il mangianastri, torni dentro, allo specchio ti dispiaci, ti getti a terra, con lo straccio scrosti dal pavimento le orme degli intrusi. Erano tanti e il più impresentabile di tutti, perché gli altri almeno parlano, io, a bocca chiusa.




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  3. #2
    Telephone Blues nali
    Donna 33 anni
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    Mi sembra di averla già letta... O comunque mi ricorda un altro tuo testo, boh, forse mi sbaglio.

    Come sempre è da brividi, ma davvero.
    Complimenti, nient'altro da aggiungere.

  4. #3
    Dio Il Lupo
    37 anni
    Iscrizione: 15/5/2006
    Messaggi: 7,232
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    si si già l'avevo postato una volta, poi tolto, ora per un'occasione rimesso ^^



    G-g-g-graziee ^^

  5. #4
    Temperance
    Donna
    Iscrizione: 15/1/2006
    Messaggi: 28,774
    Piaciuto: 9510 volte

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    Da brividi come la prima volta che l'ho letto.Splendido.

  6. #5
    Butterflies and Hurricanes Flou.
    Donna 33 anni da Como
    Iscrizione: 1/4/2006
    Messaggi: 19,786
    Piaciuto: 1511 volte

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    E' bellissima.
    Non mi vengono altre parole.
    E quasi magia, già.

    Complimenti.

  7. #6
    Dio Il Lupo
    37 anni
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    'azzie

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