Questo racconto invece è di un anno fa...
(l'altro l'ho tolto sotto consiglio, almeno finchè non finirà il concorso)
Mi piacerebbe saper cosa ne pensate
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Il poeta è un folle. Scrive di paesaggi ormai morti e di persone di un tempo passato. Giace piegato sullo scrittoio e sembra non curarsi di ciò che si muove. Non ama più cantare le lodi di una giovane donna, dei suoi capelli, della sua grazia. Si limita all'eccesso di vuoto, cercando di pescare o rubare parole sparse da qualche poco attento o sconsiderato creatore del mondo. Il silenzio lo avvolge, come fa con le cataste di cianfrusaglie poste in soffitta. La polvere si posa sulla testa canuta di un essere immobile. Il poeta è un inetto. Parla ad un lettore senza udito e scrive poesie che urlano di dolore. Ascolta i passi della bella vicina, ne scruta il ripetuto passo e corre a covare desideri che sanno di inchiostro e saliva. Non pensa più a se stesso e veste i panni di una rivoluzione spenta. Un vestito sporco, quasi ottocentesco, una lunga giacca e una sciarpa che un tempo doveva essere decisamente rossa. Il poeta trascorre i suoi attimi inanellando sospiri, discutendo con il vecchio ritratto della musa, scrivendo di sè, dei suoi giorni fatti di cera e additivi e di un passato di gloriose intenzioni. Scrive di poeti ispiratori e ispirati, ritratti di uomini giocolieri della parola e della frase bella. E così piange.
Il poeta non riesce ormai in nulla, cerca incessantemente di recare gioia alle persone care ma sbaglia e rimane attaccato alle umili tamerici da cui cadde tempo fa un altro suo simile. Non trova più la sorella concentrazione. Sarebbe una scommessa piuttosto ardua cercarla in un pagliaio di spilli. Così scivolano i giorni, ognuno simile al precedente e al seguente. Il poeta è scomparso. Ridotto al rosicchio di ossa tumefatte e alla repressione di istinti rivoluzionari, va in letargo ogni anno per un anno. Lascia il posto a poeti della nuova generazione. Insulsi esseri che tentano la scalata alla società piccolo borghese, persone che sperano passi inosservato il passaggio dalla sala di una discoteca a libri di "borotalco e poesie" che amano decantare la propria pochezza. Il poeta è morto. Schiacciato dal progresso mentre cercava di recuperare l'aureola perduta sulla strada.
Ne conosco uno. Vive all'incrocio della piccola stradina che fa da vertebra al paese. Una casa che sa di rovina. Un piccolo giardino con qualche fiore resistente e un vecchio cane a guardia della sua ciotola. Si circonda di vecchie foto degli anni venti, poeti che ebbero una maggior fortuna. Esce di rado dal vecchio rudere e pare non interessarsi della vita del piccolo borgo, occupato, forse, a costruire ben altre illusioni. Mi hanno detto che una volta era un uomo distinto, anche di piacevole aspetto. Era la grande attrazione del paese, intrecciava le parole in una maiolica senza fine e più donne non resistevano ad un suo verso. La casa che aveva all'incrocio della piccola stradina era una bella villa di fasto seicentesco, balconi decorati in stile liberty e un giardino di panica memoria. Ora il tempo, più volte cantato, avevo posato la sua spada di polvere e decadimento sulla testa del poeta e tutto sembrava procedere verso un lento declino. Un tempo era un giovane ragazzo dal fascino brillante, ora un triste vecchietto con il male nelle ossa. Lo osservo ormai da tempo e ancora non riesco a capire nulla di lui. E' una fortezza che cammina. Passo lento e sguardo malinconico. A volte lo si vede fermo ad osservare l'immensa pianura che divide il paese dalle montagne, a volte fermo davanti ad un fiore, ad un insetto. Contempla qualsiasi cosa, o almeno qualsiasi cosa lui ritenga degna di contemplazione. Un essere assurdo e meraviglioso che non ha più potere. Un serpente senza veleno. Veste cenci polverosi e porta una sciarpa di un rosso spento; nella tasca della giacca sbuca l'angolo di un piccolo taccuino. Segreti su carta invecchiata e chissà quale arte persa e nascosta. Va da sè che in molti lo credano pazzo o semplicemente rimbambito. Questo è il segnale visibile o udibile di un chiaro distacco dai poeti. Consapevole o meno, la gente "non domanda più nulla dai poeti". Fatto sta che la vita del piccolo borgo continuava a intessere le sue vacuità con naturale autorevolezza. Il paesello viveva come sempre e non si preoccupava di altro, quella sera ci sarebbe stata una grande festa nell'androne della casa di un noto dottore e questo bastava a riempire le piccole vite di piccoli esseri.
C'era un'aria quasi elettrica in giro. Tutti frenetici e preoccupati a vestirsi di gran lustro per la solenne cerimonia del divertimento. Io aspettavo e osservavo la "fiumana" correre a perdifiato per la stradina. Dalla mia finestrella si aveva uno spaccato di società che forse il mio "amico" poeta avrebbe invidiato, un tempo. C'era una signora grassa che correva tenendosi la gonna sul seno. Faceva sfoggio della più brutta mercanzia mai vista. Il viso arrossato dallo sforzo e un capello piumato che proprio non voleva restare sulla sua testa. Un signore tutto impettito mostrava a tutti il suo abito nuovo, forse orgoglioso di sè o di una figlia che lavorava in città. Un gruppetto di tre malinconici ragazzi, discuteva animatamente davanti al vecchio supermercato della bella signora Maria Grazia. Lei stessa vendeva tutto a minor prezzo e chiudeva un occhio se il figlio del macellaio entrava a trafugare qualche caramella. Tutti erano più buoni ed era bastata una semplice festa per addolcire l'umanità dolente. Fra tutti questi deliranti attori di un palcoscenico mezzo vuoto, nessuno fece caso alla comparsa più importante. Senza tempo e luogo, il poeta scivolava sul marciapiede calpestato dalla mediocrità. Testa china e mento sul petto, mani nascoste nelle tasche e una lacrima a rigargli il volto. Riuscii a vedere, infatti, dalla mia piccola finestrella, quell'attimo di intima commozione. Il poeta così duro e lascivo, ora si sentiva davvero solo. La solitudine di una statua, un tempo, d'oro, ora ricoperta d'escrementi d'uccello. Ma fu un attimo. Diede le spalle al mondo estraneo e tornò da dove era venuto. Inutile dire di che calibro fosse l'attenzione del paesano medio o quale riguardo fosse riservato al triste eremita. La giornata passò veloce, accompagnata da una notte di lento pianoforte. Arrivò la sera tanto attesa e gran chiasso, urla e canti si sprecarono in quell'androne di pietra. La festa durò a lungo e si spense con la luna che quasi fuggiva dal cielo. Ma era ancora tutto buio. Il piccolo paesello si accompagnava ad un meritato riposo, le strade si spegnevano della presenza degli irriducibili ubriaconi. Da qualche parte qualcuno faceva l'amore e si stendeva ad odorare la pelle dell'amata. Tutto cessò di esistere all'esaltante chiusura dell'ultima persiana. Tutto tranne una flebile luce. Arrivava dall'incrocio della piccola stradina che fa da vertebra al paese. Anche quella notte il poeta non dormiva e chissà a cosa pensava per evitare il letto.
Essere un poeta è davvero una scommessa. Si è padroni del verso e schiavi del pubblico. Bellissimi angeli costretti ad una vita di cicatrici. Adepti di un mondo di percezioni sottili e sfuggevoli al tatto, provetti interpreti di un universo che forse così "universo" non è. Il poeta è un debole. Solo senza alcuna protezione può accedere al sensibile e farsene una nuova creatura. La brutalità di un gelsomino può costringerlo all'esilio o devastargli il sonno. La crudezza di una realtà lo spinge a capire, a piangere e lasciarsi guidare "oltre". L'ottusità e l'indifferenza di un popolo puerile lo spezzano. Muore lentamente cercando di aggrapparsi a qualche parola o sparuto verso in rima. La donna vestita in nero che gli cammina al fianco è consapevole del suo ruolo, userà quella lucente falce solo se lui lo vorrà. Il poeta è stato ucciso. Troppo poco attenti alle cose di gran peso, lo abbiamo lasciato solo con i suoi interrogativi. Nessuno gli si è avvicinato da quando, in quel nefasto giorno, un uomo chiamato progresso è arrivato con i suoi sferruzzanti e fumanti congegni a cambiarci la vita. Il poeta nasce dalle illusioni di un popolo e muore, come un vecchio elefante, da solo con le proprie. Nessuno sembra più interessato a coltivare il suo giardino. Nessuno ha più il coraggio di affrontare una tradizione fatta di ostilità e di gente che è morta sulla punta del verso. O almeno nessuno più da quando uno strano poeta francese scoprì che la poesia poteva morire. Così andiamo avanti e la nostra massima preoccupazione è arrivare a fine giornata. Non come arrivarci ma arrivarci e basta. Il poeta è costretto ad assistere a patetiche peregrinazioni di anime in pena per il tempo. Ora , perfino, torna a casa piangendo per essere stato escluso da una materiale festa . Da una puerile corsa all'abbellire. Quella notte, senza che nessuno se ne accorgesse, senza che i due amanti smettessero di fare l'amore, senza che alcuna finestra si aprisse, un poeta si lasciò morire. Permise alla donna vestita in nero di abbassare la falce sul suo collo e la meravigliosa storia di un uomo senza tempo, ebbe fine.
Si sa che il mattino seguente in pochi fecero visita al vecchio poeta. Si sa che l'argomento principale di discussione era quella maledetta festa e se il postino era davvero riuscito a baciare la signora che vende i fiori gialli. Uscii di casa per andare a trovare il mio amico poeta, per porgergli un saluto ed entrare nel suo estraneo mondo. Arrivai di prima mattina alla vecchia villetta. Era davvero un luogo affascinante. L'edera la proteggeva dal collasso. Un grigiore sparso a pennellate furibonde. La porta era aperta. Entrai accolto da un enorme spazio vuoto. C'era delle scale che si arrampicavano al lato di un enorme stanza. Salivano, forse era lì che dovevo andare. Presi ad accarezzare il passamano in legno scuro mentre scalavo quel che rimaneva di una gran bella casa. Il piano superiore era simile alla grande stanza vuota che mi aveva accolto. A far la differenza sostava una piccola porta tenuta bene. Era socchiusa e mi invitava ad entrare. La scostai lentamente tastandone l'essenza. Dietro di essa giaceva una piccola stanza ricoperta di mobili in legno. Lui non c'era. Il suo corpo doveva essere già altrove. Era un ambiente caldo e stracolmo di libri. La luce fioca che filtrava dalla finestra faceva danzare piccoli esserini di polvere giocosa. Al centro v'era un piccolo scrittoio, una poltrona ed un grande tappeto. Stetti ad osservare, sollevato dal silenzio. Quello allora doveva essere l'antro del poeta. Era lì che scostava le parole e le percuoteva con forza. Il piccolo scrittoio era ben saldo su quattro grossi piedi in legno un po' tarlato. Era spoglio di ogni essenza. Non un foglio caduco, non un libro spostato. Tutto era in perfetto ordine. Come se avesse saputo quando e come andarsene. Cercai un po' in giro per soddisfare la mia curiosità. Ero sazio al solo guardare ma mancava qualcosa. C'erano un oggetto che volevo trovare. Un vecchio e polveroso taccuino. Mi diressi verso la piccola libreria della parete di sinistra e mi sembrò fin troppo facile trovarlo lì. Era come lo avevo sempre immaginato. Piccoli foglietti attaccati malamente. Una sconquassata copertina nera ne proteggeva il contenuto. Andai a sedermi sulla poltrona e lo aprii. Poesie e strofe. Parole libere di correre e azzannarsi. Rime a donne del passato e pensieri in circolo.
Lessi tutto in un sol fiato e qualcosa di caldo mi scorreva per le vene. Quanto era triste e malinconico quel taccuino. Il suo fascino mi trasportò all'ultima pagina. Era diversa dalle altre. C'era una scrittura composta e un sapore d'addio. Mi tuffai così a leggere quello che diceva l'ultimo poeta del nostro secolo:
La festa è finita, l'androne è ormai vuoto e la gente è tutta andata via. Il poeta entra tranquillo e si poggia stanco su una di quelle sedie in legno economico. Dà uno sguardo alla vecchia sala. Le mura di pietra, brandelli di cibo sparsi un po' dappertutto e tutt'intorno una furia spenta. La festa è finita, l'androne è ormai vuoto e la gente è tutta andata via. Il poeta si alza e prende con lentezza il recuperabile. In un angolo c'è il sorriso di una donna ancora buono, il poeta resta lì ad osservarlo, poi si china e con mano attenta lo recupera. Ne saggia la consistenza e, come un piccolo pasticcino, lo ingoia senza masticarlo. Continua così nella sua perlustrazione dall'occhio attento. Sparsi un po' a casaccio ci sono i discorsi di un gruppetto di giovani festanti, lo sguardo vacuo del dottore e le divertenti esposizioni di un uomo troppo felice. Sazio a metà il poeta si siede ancora sulla sedia in legno economico. La festa è finita, l'androne è ormai vuoto e la gente è tutta andata via. Il poeta ingoia e riassembla gli scarti e le delizie di un tempo felice. Non lo si riconosce più. Avrebbe partecipato tempo fa alla stessa festa e ne sarebbe stato la maggiore attrazione. Ora è seduto su quella dannata sedia in legno economico e cerca furtivo la sua linfa vitale. Si ciba come un affamato di ciò che è stato. Cose da folli. Folli e poeti. Arriva così il tempo, come arriva per ognuno, di alzarsi ed andarsene. Il poeta si alza stanco, prende ancora qualche nastro policromo di più vite e fugge via da un luogo non più luogo. E' solo un povero mostriciattolo ridotto al notturno, che scappa veloce, lasciando fiumi di inchiostro che nessuno leggerà mai.