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qualche mio scritto

  1. #1
    ti confondo e ti piace Ligaro
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    Predefinito qualche mio scritto

    Lascio un'impronta del mio passaggio
    Questi sono testi che ho composto in questi giorni

    Qualora voleste fare dei rilievi scrivete alla e-mail markobit@libero.it perché per un pò non mi connetterò



    MATERIALISMO DIALETTICO

    L’espressione "materialismo dialettico" ha designato la filosofia nella dottrina ufficiale dei partiti comunisti, ma anche presso alcuni dei suoi critici (si veda Henri Lefebvre, Le matérialisme dialectique, 1940). Essa non è stata impiegata da Marx (che parlava del suo "metodo dialettico") né da Engels (che impiegava l’espressione "dialettica materialistica"), ma inventata, a quanto pare, nel 1887 da Joseph Dietzgen, operaio socialista corrispondente di Marx. È da Engels tuttavia che Lenin prende le mosse per elaborarlo (Marxismo ed empiriocriticismo, 1908), intorno a tre direttici di fondo: (1) il "rovesciamento materialistico" della dialettica hegeliana, (2) la storicità dei principi etici subordinati alla lotta di classe, (3) la convergenza delle "leggi dell’evoluzione" in fisica (Helmholtz), in biologia (Darwin) e in economia politica (Marx). Lenin prende così posizione tra un marxismo storicistico (Labriola) e un marxismo deterministico, vicino al "social-darwinismo" (Kautsky). Dopo la rivoluzione russa, la filosofia sovietica si divide tra "dialettici" (Deborin) e , "meccanicisti" (Bucharin). Il dibattito è troncato in maniera autoritaria dal segretario generale Stalin, che fa pubblicare nel 1931 un decreto che identifica il materialismo dialettico con il marxismo-leninismo. Sette anni dopo, nell’opuscolo Materialismo dialettico e materialismo storico (1938), ne codifica il contenuto enumerando le leggi della dialettica, fondamento delle discipline particolari e specialmente della scienza della storia, come anche garanzia a priori della loro conformità alla "concezione del mondo proletaria". Questo sistema, denominato in forma abbreviata diamat (dal russo: DIAlekticeskij MATerialzm), si imporrà in tutta la vita intellettuale dei paesi socialisti, e, con maggiore o minore facilità, nei partiti comunisti occidentali. Conviene, nondimeno, apportare due correttivi a quest’immagine monolitica: (1) Mao Tse-Tung aveva proposto una concezione alternativa che rifiutava l’idea di "leggi della dialettica" e insisteva sulla complessità della contraddizione; (2) almeno una scuola ha fatto del materialismo dialettico il punto di partenza di un’epistemologia storica non priva di valore: quella di Ludovico Geymonat (1908-1991) in Italia.

    M.M.
    12/8/06



    FONTE BIBLIOGRAFICA:
    Etienne Balibar, La filosofia di Marx, manifestolibri, 1994

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  3. #2
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    ISACCO DELLA STELLA

    Nato in Inghilterra agli inizi del secolo XII, Isacco si fece monaco nell’abbazia cirstercense dell’Ètoile (in Francia), di cui divenne abate nel 1147. Pochi anni prima della morte, avvenuta nel 1169, fondò un’abbazia nell’isola di Rè, nell’Atlantico, vicino alla costa francese.

    Isacco ci ha lasciato, come altri cistercensi che hanno seguito l’esempio di san Bernardo, una serie di Sermoni sul Cantico dei cantici, ma egli cerca Dio meno attraverso l’estasi che attraverso la metafisica. Questo è sicuramente il caso di otto di questi sermoni (XIX-XXVI) dove Isacco eleva il pensiero fino a Dio con un’analisi dialettica a un tempo solida e sottile della nozione di sostanza. Vi si sono scoperte diverse influenze, ad esempio quella di Dionigi e di Anselmo, ma si può aggiungere loro, volendolo, quello di Boezio e di Gilberto de la Porrèe, senza che l’originalità di Isacco ne sia sminuita. Queste pagine sono una testimonianza notevole della profonda penetrazione della spiritualità da parte della metafisica in quest’epoca. Ma l’opera più celebre e più influente di Isacco è la sua Epistola ad quemdam familiarem suum de anima, scritta su richiesta di Alchiero di Chiaravalle. Questa epistola è un vero trattato sull’anima, che dovette il suo successo alla minuziosa classificazione delle facoltà che essa contiene. Vi sono tre realtà, il corpo, l’anima, e Dio; di nessuna di esse noi conosciamo l’essenza, ma conosciamo l’anima meno del corpo, e il corpo meno di Dio. L’anima, posta tra Dio e il corpo, conviene in qualcosa sia con l’uno che con l’altro, e, per la sua stessa posizione intermedia, ha una parte bassa, un centro e una sommità. La parte bassa dell’anima, o immaginazione, è imparentata con la parte più elevata del corpo che è la sensibilità; la parte più elevata dell’anima, l’intelligenza, è imparentata con Dio. Tra queste due facoltà estreme si dispongono tutte le altre secondo un ordine ascendente partendo dal corpo: senso corporale, immaginazione, intelletto, intelligenza.


    M.M. 17/8/06

    FONTI BIBLIOGRAFICHE
    - Etienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, Salani, 2005
    - Alessandro Ghisalberti, La filosofia medievale, Demetra, 2002

  4. #3
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    DIOGENE DI ENOANDA


    “Per piccole cose la sorte incide sul saggio;
    le maggiori e più importanti, il ragionamento le ha sempre amministrate e per tutto il tempo della vita le amministra e le amministrerà”



    INTRODUZIONE AL PENSIERO

    La diffusione delle idee filosofiche era stata affidata da sempre alla voce o al libro. Ma nella piccola città di Enoanda, nella Licia (Asia Minore), un ricco convertito alla filosofia del Giardino, di nome Diogene, vissuto nel II secolo d.C., entusiasta della parola di Epicuro, decise di diffonderla in un modo del tutto nuovo.
    Acquistò un vasto terreno su un’altura, vi fece costruire una piazza circondata da un portico ornato di statue, di forma rettangolare. In uno dei lati minori fece costruire le porte di ingresso; nell’opposto lato minore fece forse costruire il suo sepolcro; nei due lati maggiori fece incidere su lapidi un condensato, piuttosto ampio e circostanziato, della filosofia di Epicuro, corredato altresì con massime e con sentenze tratte dalle opere di Epicuro stesso.
    Le iscrizioni, che erano disposte, probabilmente, ad altezza d’occhio, dovevano costituire un vero e proprio libro inciso sulla pietra.
    Gli scavi archeologici compiuti sulla collina di Enoanda a partire dalla fine dell’Ottocento hanno portato alla luce ampi frammenti di questo libro murale.

    Egli aveva trovato nel filosofo del Giardino la dottrina che dona la pace e la tranquillità dell’anima, e, per amore di tutti gli uomini «dotati di buon senso», affinché non si perdessero in vane ricerche e non fossero colti da vani timori, volle mettere a loro disposizione il messaggio di salvezza.

    Essendo al tramonto della vita – per vecchiaia appunto essendo quasi sul punto di staccarmi dal vivere – con un bel peana sulla pienezza dei suoi piaceri abbiamo voluto, per non essere colti prima dalla morte, soccorrere subito quelli che hanno buon senso. Se dunque uno soltanto, o due, o tre, o quattro, o cinque, o sei, o quanti tu vuoi che siano di più, o uomo, di un tal numero – ma certo non moltissimi – fossero malati, anche chiamandoli ad uno ad uno farei tutto ciò che è in mio potere per portarli alla migliore deliberazione. Ma poiché, come ho detto prima, i più sono in generale contaminati, come in una pestilenza, dalle loro errate opinioni sulle cose, e diventano anche di più (infatti per la reciproca imitazione si trasmettono l’un l’altro la malattia come le pecore) ed è giusto soccorrere anche quelli che verranno dopo di noi (anche quelli infatti sono nostri, anche se non sono ancora nati), ed è filantropico soccorrere anche gli stranieri che capitano qui, poiché dunque i benefici dello scritto si estendono a parecchie persone, ho voluto impiegando questo portico, porre in pubblico i farmaci della salvezza, dei quali appunto in una sola parola potremmo dir chiare a tutti le forme: infatti abbiamo dissolto le paure che ci dominano senza motivo e, dei dolori, alcuni li abbiamo davvero troncati via completamente, mentre quelli fisici li abbiamo ridotti assolutamente a poco, rendendo infinitesimale la loro grandezza” (A. Casanova, I frammenti di Diogene d’Enoanda, Firenze, pp. 90-94)

    Diogene volle estendere questo messaggio a tutti gli uomini senza distinzione, sia Greci sia stranieri, perché tutti gli uomini sono cittadini di quell’unica patria che è il mondo.

    E non di meno invero preparavamo queste cose anche per i cosiddetti stranieri, che in realtà non lo sono. Infatti, secondo ogni divisione della terra, chi ha una patria e chi ne ha un’altra, mentre, in base all’intero complesso di questo mondo, unica patria di tutti è tutta la terra, e il mondo è l’unica casa” (Ibidem, pp. 184-185)

    Il portico con le sue incisioni volle essere un libro per le generazioni presenti e per quelle future, un libro che Diogene volle consegnare alla pietra, affinché restasse indelebile.
    Diogene chiedeva al visitatore del luogo di non avvicinarsi allo scritto distrattamente e, in secondo luogo, nel caso che provasse indifferenza o addirittura un sentimento di avversione, di evitare di dare uno sguardo qua e là e di andarsene via.

    Nessuno di voi io trascino a testimoniare con leggerezza e senza riflessione in favore di chi dice che queste cose sono vere – infatti non ho dogmatizzato nulla –, ma, osservando tutto, contemporaneamente riflettete. Una sola cosa vi chiedo, come anche prima, di non accostarvi agli scritti alla maniera in cui uno passa per la via, nemmeno nel caso che ci sia un po’ di indifferenza o di noia, volgendovi qua e là a ciascuno di essi e passando via” (Ibidem, pp. 186-188)

    Dai frammenti pervenutici non pare che Diogene si occupasse espressamente della «canonica» epicurea, ma, nel corso dell’esposizione della «fisica», egli ne ribadiva i princìpi fondamentali, e in particolare il principio dell’assoluta validità della sensazione e la ferma convinzione circa la possibilità di raggiungere il vero, polemizzando contro coloro che avevano inficiato con le loro dottrine la validità di questi princìpi.
    Per quanto concerne le dottrine propriamente fisiche, almeno nei frammenti pervenutici, noi ritroviamo le tipiche tesi dell’Epicureismo: dalla teoria degli atomi a quella dell’infinità dei mondi, dalla dottrina dell’anima a quella dei simulacri, dalla dimostrazione della tesi che la morte non è temibile (perché l’anima, e quindi il sentire, perisce col corpo) alla riaffermazione della tesi della naturalità del linguaggio.
    Inoltre Diogene sembra ribadire la tesi che i fenomeni naturali sono spiegati da molteplici cause, e che non bisogna prendere posizione a favore di una sola delle possibili soluzioni.
    Degna di rilievo è poi la difesa che egli accampa contro le accuse rivolte agli Epicurei di «empietà» e «ateismo»; egli menzionava espressamente i nomi dei veri empi e dei veri atei (gli accusatori di Scorate e di Anassagora, Diagora, Protagora), e affermava energicamente:

    Veneriamo gli dei, sia in feste che in occasioni qualunque, egualmente sia in pubblico che in privato, e seguiamo i patrii costumi verso di loro” (Ibidem, p.142)

    Nell’esposizione dell’«etica» Diogene additava il fine della vita – dal cui raggiungimento soltanto dipende la felicità – nel piacere.
    Egli polemizzava vivacemente contro gli Stoici, che indicavano tale fine nella virtù, la quale, a suo avviso, è solamente un mezzo e non un fine.

    “[…] Io dico ora e sempre, gridandolo forte a tutti i Greci e i barbari, che il piacere è il perfetto compimento del migliore modo di vivere e che le virtù […] non sono mai un fine, ma sono produttrici del fine […]” (Ibidem, p. 192)

    A proposito dei piaceri egli affermava:

    Nessun piacere di per sé è male; ma i mezzi di certi piaceri portano molti più turbamenti che piaceri” (Ibidem, p.196)

    Come mezzo per raggiungere l’«atarassia», ovvero l’assenza di turbamenti, veniva riproposto il «tetrafarmaco», che così riassumeva:

    Dunque, quali sono le cose che turbano? Sono le paure, quella degli dei, quella della morte, quella dei dolori e, oltre a queste, il desiderio che va molto al di là dei limiti naturali. E infatti queste sono le radici di tutti i mali, e se recideremo queste alla base, nessuno dei mali spunterà in noi” (Ibidem, p.249)

    Inoltre, una serrata polemica doveva essere condotta contro le varie dottrine dell’immortalità dell’anima, come provano gli espliciti richiami alla dottrina della metempsicosi e alle ibride tesi degli Stoici.
    Notevole doveva essere soprattutto l’energica polemica contro il Fato e contro la connessa dottrina della divinazione, nonché la difesa del movimento libero degli atomi e, quindi, della libertà umana.

    Diogene difendeva, infine, la vecchiaia, mostrando come anche questa età recasse i suoi vantaggi e si opponeva fermamente a coloro che biasimavano la vecchiaia come «storpia».
    Egli insegnava – in spirito squisitamente epicureo – che la vita può essere gustata sempre, fino all’ultimo momento, se ci si rende conto che essa è un bene, il quale, fino a quando è presente, non può essere sopraffatto da nessun male.
    Per l’epicureo la vita è sempre, in quanto tale e finché perdura, senza eccezioni, il bene assoluto: basta viverla come si deve, ossia usando i «farmaci della salvezza», per essere sempre felici.

    La seguente ricostruzione di un’iscrizione esprime alla perfezione il carattere morale di Diogene:

    Per piccole cose la sorte incide sul saggio; le maggiori e più importanti, il ragionamento le ha sempre amministrate e per tutto il tempo della vita le amministra e le amministrerà” (Ibidem, p.314)


    M.M. 17/08/06

    FONTI BIBLIOGRAFICHE:

    G. Reale, Cinismo, Epicureismo, Stoicismo, Milano, 2004
    G. Cambiano, Storia della filosofia antica, Roma-Bari, 2004
    D. Fusaro, La farmacia di Epicuro, Padova, 2006
    A. Casanova, I frammenti di Diogene d'Enoanda, Firenze, 1984

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