Ecco a voi un mio tema di qualche tempo fa, giusto perchè non so cosa fare...
Imo – La Metamorfosi
(Il titolo l'ha scelto la professoressa, che aveva dato come tema la metamorfosi, da inserire all'interno di un racconto... Ecco il risultato... )
Spingo la portiera ed esco dall'auto, traballante e con la testa cerchiata da un accenno di dolore; questo alimenta una sorta di nervosismo , in un angolo del cervello, verso mio fratello che, dimenticandosi di mettere sotto carica l'Ipod, aveva reso il mio viaggio decisamente poco piacevole. Lo guardo, penso di dirgli qualcosa; poi invece mi volto, e tiro dritto verso gli alberi.
Scaricate dall'auto e sistemate le attrezzature per la grigliata, mi dirigo verso l'ambitissima sedia sdraio all'ombra dell'albero sotto il quale ci eravamo sistemati ma una voce forte e lontana mi interrompe e mi blocca davanti ad essa: "Moni, portami la borsa verde per favore! Quella con le macchie viola!". Mia madre. Solo mia madre mi chiama "Moni", e io ho sempre pensato che sembra più l'abbreviativo di "Monica" piuttosto che di "Simone". In ogni caso, non potendo sottrarmi alla chiamata divina, mi giro e mi guardo intorno in cerca di questa borsa verde. Non vedendo nulla a parte, con la coda dell'occhio, mio fratello entusiasta e sorridente per avermi sottratto la sedia sdraio, mi immergo nel cumulo di borse e buste e cerco. Nel frattempo, vedo una coccinella: rossa, piccola, mi sta sull'unghia dell'indice e cammina allegra con la fluidità del movimento delle coccinelle, derivante probabilmente dal fatto che non se ne vedono le piccole zampette. La contemplo per qualche secondo e sembra quasi voglia dirmi che è la mia giornata fortunata, così come sembra rivelare anche il raggio di sole che la colpisce. Alzo gli occhi ad ammirare il cielo e i raggi di sole filtrare dalle foglie dell'albero; lo faccio sempre ed ogni volta mi stupisco di come sia rilassante, spettacolare, fuorviante dalla realtà.
Torno improvvisamente nella realtà invece condivisa con gli altri al sentire nuovamente la voce di mia madre. Cerco più a fondo e finalmente trovo la borsa azzurra con le macchie viola; la prendo, la porto da mia madre.
"Ti ho detto di portarmi quella verde! Faccio io che è meglio...", mi dice mia madre, e mio fratello a seguire, dalla sedia sdraio: "Ma in che mondo vivi?! Ma vergognati!". E risate. Mi allontano allora; la cosa mi da fastidio ma so bene che non può capire, e che se capirebbe non lo direbbe forse con quel tono.
Infilo le mani nella felpa troppo pesante, per quel giorno caldo e sereno, e mi muovo in mezzo al prato, aspettando qualcosa non meglio definita ma che arriva subito dopo: un sasso. Un grosso sasso per terra, sulla riva del ruscello, bagnato alla base ma non abbastanza da impedire ad un ragazzo di sedercisi. Come un fantasma mi avvicino assente, come se fosse il destino a muovermi, e mi ritrovo a fissare il vuoto con un ruscello di pensieri ai miei piedi.
Non muovo un muscolo: sono una cosa sola con il sasso, sono la sua parte vivente, il suo copricapo pensante. Contemplo immobile l'immobile della natura, e l'infrangersi di questo dall'aria sostenuta che mi accarezza il viso. Contemplo l'acqua del ruscello e il fango così solido all'apparenza, così fragile in fondo e profondo, più di quanto penseresti. Contemplo il sole che mi batte sul viso, che crea il riflesso nei ruscelli della natura e della mia mente; e mi sento una cosa sola con il resto della natura, frutti dello stesso sole.
Poi chiudo gli occhi senza pensare, e immagino tutto quello che ho visto, ho osservato, in una forma ancora migliore, più splendente e vivace. Quando li riapro, il mondo non è più lo stesso, lo so e l'ho sempre saputo; ma mai me ne sono accorto come questa volta.
Tutto si presenta più grande, immenso, lo stesso sasso su cui poggiano le mie quattro zampe, il mio guscio. Tutto esagerato di fronte agli occhi di una tartaruga.
Si, sono una tartaruga ora. Dovrei stupirmi, e mi stupisco invece di non riuscirci. Invece, mi guardo nello specchio del ruscello e mi dico "Poco male, facciamo due passi.".
Incomincio ad incamminarmi, piccolo come sono, e attraversando il ruscello a nuoto mi inoltro nelle insidie del rinnovato boschetto. E' tutto molto piacevole, la natura è ancora più bella da qui.
Poi un dolore sopraggiunge alla coda, e vedo delle rosse formiche enormi mordermi la coda. Un istinto mi spinge, voglio sopravvivere. Mi muovo in ogni direzione, scuotendomi, poi paziente mi dirigo lento verso l'acqua, dove le mie avversarie si ritirano. Contento di essermi liberato di quella tortura, mi guardo ancora nell'acqua fredda alle mie zampe ancora agitata. Sono più grande. Mi osservo e lo noto, sono più grande, mi guardo intorno e tutto è più ridotto: i fili d'erba sono ora paragonabili alle mie zampe di tartaruga.
Continuo a camminare, ora leggermente stupito, ma non smosso, quasi avessi presente da tempo in un angolo dell'inconscio quello che avevo passato. Mi godo il mondo nelle mie nuove dimensioni; è così bello ora.
Ma la mia quiete non dura a lungo, e a malapena scorgo i veloci aggressori che mi afferrano il guscio: grigi, enormi denti squadrati ma taglienti, pelosi, lunghe code rosa che mi danno provocanti schiaffetti. Topi, almeno cinque. Mi vogliono fare del male, il corpo lo capisce ancora prima dell'anima, e con uno scossone li allontana di qualche indispensabile passo. Poi l'anima fa il resto, trova l'idea e la applica, e mi ritrovo chiuso nel guscio a rotolare contro i topi, dritto verso l'acqua del ruscello, al sicuro.
Immerso nell'acqua gelida, mi prendo un minuto di pausa e mi lascio curare e rinforzare, rivitalizzare. Poi non sento più l'acqua sul guscio, e mi accorgo di essere tanto grande da non essere più completamente immerso nell'acqua; una parte del guscio resta fuori, e il contrasto tra il calore del sole e il freddo dell'acqua è un'esperienza strana e gradita. Poi mi incammino ancora, e mi difendo senza problemi dai topi e dalle formiche ormai così piccoli e vulnerabili che mi attaccano; proseguo diritto verso il mio sole.
Ma qualcosa di inaspettato mi colpisce, una punta d'acciaio mi scalfisce il guscio e scappa; poi vedo atterrare un aquila davanti a me, con gli occhi fieri e minacciosi, regali. Si rialza in volo e in picchiata mi colpisce ancora e ancora, ed ogni colpo si fa più vicino al prossimo, tutto più rapido e ostinato. Chiuso nel guscio, sopporto e aspetto il momento giusto, l'idea. Il dolore si fa fortissimo, ma aspetto una cosa precisa; poi questa viene: l'aquila, stanca, è pronta a colpire ancora, ma è più lenta per la fatica, e so in che momento mi colpirà. In quel preciso momento mi alzo, e tutto si rimpicciolisce. Cresco, il mio guscio è più grande ora; con forza in quell'istante lo sbatto sul becco dell'aquila, che si infrange. L'aquila fugge, e più grande ancora sono ormai all'altezza di quando ero umano; eppure, la visione è così diversa, è così bella questa realtà.
Mi muovo lentamente ma allo stesso tempo, per le dimensioni, rapidamente, e nulla mi scalfisce; poi, un orso gigante, l'orso più grande che io abbia mai visto, appare. Enorme, arriva all'altezza dei primi rami dei pini, mi guarda feroce, vorace, ma allo stesso tempo nei suoi occhi vi è un'espressione di calma e forza interiore. La paura mi prende e mi fa tremare, barcollare; poi qualcosa di più grande mi fa uscire dal guscio. Vado incontro all'orso, e mi ferisce. Torno, mi avvicino ancora, e gli artigli infrangono parte del guscio e la carne viene infilzata senza problemi. Ma mi avvicino comunque sopportando il dolore, piango. Poi vedo, dietro il grosso animale, un oggetto familiare: una borsa verde, con delle macchie irregolari e violacee. Spinto da nuovi pensieri, accompagnato dal sole e la sua luce mi muovo veloce come mai una tartaruga ha fatto, mi infilo schivando i colpi dell'orso gigante tra le sue zampe, lo attraverso e tocco la borsa. L'orso si dissolve, svanisce in una serie di modeste e silenziose scintille. Lucciole, le più belle e luminose che abbia mai visto, per essere visibili anche alla luce. La mia attenzione torna alla busta verde, la fisso. Non mi faccio delle domande, non penso, ma sono felice che sia lì, come se fosse il suo posto. E cresco, cresco ancora, divento grande quanto non pensavo di poter diventare; mi innalzo sugli animali e sulle cime degli alberi, sul bosco, sul ruscello. E osservo il mondo, immobile, sono una sola cosa con il bosco, enorme e possente, sono il suo copricapo pensante.
Poi chiudo gli occhi, e immagino tutto questo in una forma ancora migliore, più splendente, più vivace. Quando li riapro, il mondo non è più lo stesso, lo so.
Li riapro, e sono un ragazzo su un sasso, vicino ad un ruscello, ed un brivido di piacere mi percorre. Mi sento enorme, mi sento piccolo. Poi vedo la borsa verde, mi alzo a fatica, la prendo in mano. In piedi, osservo il sole arancione sempre più basso, sempre più affascinante.
Mi libero, lo saluto, torno al campeggio e consegno la borsa a mia madre. Poi prendo lo zaino, estraggo un quadernetto a righe, e comincio a scrivere.