La palazzina è rosa, nascosta in una viuzza residenziale di Monza. Due piani, infissi in ottone, linee tondeggianti e aria borghese-kitsch, quasi fiabesca. Potrebbero uscirci la Barbie e Ken tenendosi per mano e non ci sarebbe nulla di cui stupirsi. Sulfureo e brianzolo, in un grande appartamento al piano terra pieno di oggetti e torpore, di buio e odor di chiuso, ci abita invece Marco Castoldi in arte Morgan. Un avvertimento per la signora delle pulizie è appeso al muro: “libri a terra e giornali in genere non sono cosa strana”. E poi foto di Anna Lou, la figlia avuta da Asia Argento, e l’intero Canto V dell’Inferno, quello dedicato ai viziosi e ai lussuriosi, stampato su una lunga pergamena appesa a una colonna.
Morgan è al centro della stanza, pronto a parlare di tutto, anche di cocaina, «che uso tutti i giorni», e del suicidio del padre. Sbattutto su un divano mezzo sfondato e pieno di macchie, suona un piccolo ukulele accompagnando una canzone di Georges Brassens, Morire per un’idea, cantanta dai Gufi. “Morire per un’idea, vabbé, ma di morte lenta, vabbé, ma di morte le-eeen-taaaaa”. Scalzo, con indosso una vestaglia scura appare vigile e intorpidito allo stesso tempo. A un tratto sembra persino sul punto di addormentarsi. Poi mi scavalca con un balzo e afferra una bottiglia da uno scaffale: «Questo è il vino della vendetta!!», annuncia, per raccontare poi che non si tratta di vino bensì di sangue e urina, che dice di aver pisciato per mesi fino a raccoglierle in questa bottiglia appartenuta a un anarchico di Milano. Un po’ Jacques Brel, un po’ Jerry Lewis, un po’ David Bowie e un po’ Rita Levi Montalcini, Morgan vive con un giovane musicista, Fabio Cinti, che dorme nella stanza di Anna Lou.
Ospitale e assonnato, mi accoglie con indosso una maglietta col volto di Cesare Pavese: «le serigrafie le faccio realizzare io, mi costano 250 euro l’una. Una collezione battezzata Eroi. Credo che le metterò in vendita». C’è quella di Antonin Artaud, di Dario Argento, di Erik Satie, di Arturo Benedetti Michelangeli, di Baudelaire: «questa la devo regalare a una tipa stasera. In questo periodo ho bisogno di essere amato».
Con X Factor alle spalle, il 6 febbraio sale sul palco del Festival di Sanremo con una canzone intitolata La sera.
«La vuoi sentire?», chiede. Appoggia l’iPhone su un amplificatore e il brano parte: un intro di carillon e poi campanelli, controfagotti, tromboni, clarinetti bassi. Un pezzo pieno di romanticismo e di streghe.
Sembra un pezzo di Umberto Bindi scritto per un film di Tim Burton.
«Davvero? Grazie». (E attacca a cantare l’inciso: Rimandare il mattino/Che il modo migliore/ consumare le ore/Facendo l’amore...).
Tempo fa avevi parlato di un progetto di “falsi d’autore”, pezzi scritti da te ricalcando lo stile di grandi musicisti del passato. Stai lavorando a questo?
«In parte. Per ora so solo che il disco sarà una cosa strana, un frattale di psichedelia del 1800, una creatura lacustre, come il mostro di Lochness. Si aprirà con un brano strumentale, alla Gershwin, intitolato Desolazione, nel senso etimologico di mancanza di sole».
Una condizione che ti si addice?
«Di giorno non riesco più a vivere. Ormai da tre anni faccio una tirata unica, da mezzanotte a mezzogiorno. La notte mi fa sprofondare e mi rende libero. Anche se contemporaneamente mi rende schiavo e mi fa ammalare. La solitudine, la distanza dagli altri. La mia è una notte, calma, non violenta, dove succede la musica. Hai presente l’Ossianesimo, Ugo Foscolo e ISepolcri? Ecco. Bello essere quasi morti».
Quando dormi, almeno dormi bene?
«Dormo sul divano. Cerco di far finta che il sonno non esista. In camera non ci vado mai. E soprattutto ho ripudiato il letto coniugale. Sono incazzato con quel letto. Ci faccio dormire gli ospiti. Putroppo la mia vita è così. Poteva andare meglio. Potevo essere ancora quello di una volta».
E com’eri “una volta”?
«Non lo so, è come se non riuscissi più a riconoscermi. Ho cassetti pieni di manoscritti che ogni tanto rileggo e penso cavolo, come scriveva bene quello là. Ma non sono più io, io quelle cose non le sento più, io non sento più nulla. Non ho stimoli, e quello che faccio lo faccio per inerzia».
Questo ragazzo che ti sei preso in casa cosa rappresenta? un fratellino, un protetto...
«Direi un allievo. Puramente una questione didattica. Sono interessato alla conoscenza per tramandarla.M’interessa il trasferimento dei dati».
Con milioni di spettatori ogni sera, X Factor è una grande opportunità per trasferire dati. Riuscirai a farne a meno?
«X Factor mi piaceva perché potevo prendermi la resposabilità di un’idea, e sfidare il pubblico con gli argomenti. Il format non impone certo di parlare della Trilogia berlinese. Facendolo, l’ho reso migliore. Ma il fatto che me ne vada, alla fine toglierà un peso di dosso a tutti. La televisione è fatta da gente cattiva. Tipo la De Filippi».
Dove vedi la cattiveria nella De Filippi?
«Cattiveria intesa come sete di potere, di numeri, di soldi e pubblicità. Un capitalismo sfrenato che ha perso di vista qualsiasi senso dell’esistere. Ha fatto cose cattive anche contro di me, lo sai? Ora che Berlusconi ha infarcito la Rai di scagnozzi, la De Filippi comanda pure lì».
Possibilità di ripensamento?
«Solo se accetteranno la mia richiesta: voglio essere sia giudice che direttore artistico. Ma credo che sia una proposta a perdere. Io sono un artista, e quindi ingestibile. Loro non vogliono artisti in mezzo ai coglioni. Loro sono gente di potere. Io invece sono potente. Uno che realizza quello che ha in testa».
Da bambino com’eri?
«Uno che non usciva molto. A dodici anni stavo in casa a leggere Leopardi e a suonare Bach e Chopin. Uno svenevole bambino prodigio».
Svenevole nel senso che svenivi?
«Sempre. Mi piaceva sballare con l’aria. Facevo respiri così profondi da provocarmi attacchi di iperventilazione, e cadevo a terra stordito. Ero fuori di testa. Come i bambini che sniffano colla, solo che io avevo capito che l’aria era gratis».
E i tuoi genitori come reagivano?
«A sei anni mi hanno fatto visitare all’Istituto Besta di Milano. Perché ero strano: per certe cose geniale, con la musica ad esempio, dove dimostravo una manualità pazzesca. Per altre sembravo completamente tonto, tipo che andavo in stand-by, immobile a fissare le cose. Alla fine è venuto fuori che avevo un quoziente intellettivo una volta e mezzo la media».
Vantaggi della scoperta?
«Che prima di raggiungere il livello degli altri posso spararmi tutte le droghe che voglio. Posso bruciarmi il cervello a cuor leggero».
Chiunque abbia lavorato con te in tv non perde occasione per raccontare le volte che ti sei presentato strafatto agli studi Rai.
Perché io sono trasparente. Questo è bello, sai? La gente parla di me perché sono aperto, e così si sentono in diritto di non rispettare la mia privacy. Gli stessi che magari tirano fuori i piatti e ci fanno le righe sopra, che si mettono la cravatta, fanno famiglia, e poi escono di notte a fare le cose strane, o s’infilano nel letto delle figlie».
Di solito succede proprio per via della coca.
«Dipende. Ladroga apre i sensi a chi li ha giàsviluppati,e lichiude agli altri.Io non uso la cocaina per lo sballo,a me lo sballo non interessa».
E per quale motivo allora?
«Come antidepressivo. Gli psichiatri mi hanno sempre prescritto medicine potenti, che mi facevano star male. Avercene invece di antidepressivi come la cocaina. Fa bene. E Freud la prescriveva. Io la fumo in basi (modalità di assunzione nota come crack, ndr) perché non ho voglia di tirare su l’intonaco dalle narici. Me ne faccio di meno, ma almeno è pura».
È proprio quella pura che genera i mostri.
«Io non ho mai conosciuto nessuno che ci sta dentro come me a farsi le basi. Ti sembro uno schizzato?».
No, ma adesso non credo che tu sia fatto di crack.
«Invece sì, completamente. Ne faccio un uso quotidiano e regolare».
L’ultimo tabù: tuo padre. Perché si è ucciso?
«No, ti prego... Lasciamolo in pace... Mi dispiace tanto, poverino... è stata la depressione, problemi di soldi. Fine dello spettacolo».
Morgan è nato dopo quel colpo di pistola?
«Sicuramente è nata quel giorno la mia depressione. E anche la mia follia».
Si alza, siede al clavicembalo e inizia a improvvisare. Poi afferra una banana, mi guarda con un sorriso da gattoSilvestro e fa: «Lo sai cosa mi salva veramente? Mangio un sacco di frutta...».