(...) È tenace il luogo comune secondo cui l’Italia sarebbe il paese delle tante capitali. La terra delle centocittà. La nazione più variegata e cangiante del mondo, dove a ogni colle cambiano l’accento e il modo di farcire i ravioli. Il paese dalle mille storie diverse l’una dall’altra, a seconda della latitudine, del ceto sociale, della tradizione locale. Una penisola lunga e stetta, mai uguale a se stessa, dove si passa da ghiacciai eterni a mari caldi, da Stati preunitari governati da Cavour e Ricasoli ad altri retti dai Borboni e dalla triade festa-farina-forca. Un paese spezzato tra un Nord industriale, moderno, avanzato e un Sud assistito, bigotto, arcaico. Ebbene, sono convinto che non sia così. Meglio; che non sia più così. Certo, il paesaggio naturale e umano muta a ogni casello dell’Autosole. Certo, nascere a Lodi piuttosto che ad Afragola, a Parma piuttosto che a Vibo Valentia, a Verona piuttosto che ad Alcamo significa avere a disposizione un reddito medio tre volte più alto, scuole migliori, infrastrutture più efficienti, credito più agevole per le imprese, una pubblica amministrazione più snella, un tasso di criminalità minore (e prezzi maggiori). Ma non esiste l’Italia del bene comune e quella del «particulare». Non c’è il paese delle virtù civili e quello degli interessi privati. Esiste una sola Italia: l’Italia de noantri. Noi italiani siamo diventati, nel bene e nel male, un po’ tutti meridionali. (...)
Aldo Cazzullo, tratto da «L’Italia de noantri. Come siamo diventati tutti meridionali»
Il vecchio Piemonte delle Langhe e di Cavour ha perso da tempo le sue virtù risorgimenta*li. E poco o nulla è rimasto, da quelle parti, del decoro piccoloborghese o della sana ipocri*sia o, ancora, del rispetto per le forme. Quel Pie*monte non è più altra cosa rispetto all’eterna Na*poli borbonica o all’infida Roma papalina. «Sia*mo diventati tutti meridionali», ecco il punto. Ed è infatti questo il sottotitolo che Aldo Cazzul*lo, firma di punta del Corriere della Sera, ha scel*to per il suo ultimo libro: «L’Italia de noantri». Del resto, è vero o non è vero che i camerieri a Vicenza, la «sacrestia d’Italia», la città di Ru*mor, non hanno più voglia di lavorare? Ed è ve*ro o non è vero che a Milano come a Reggio Emi*lia mancano i taxi alla stazione? E a Genova non convivono 61 famiglie della criminalità organiz*zata: 32 legate alla ’ndrangheta, 13 alla camorra e 16 alla corona unita?
E poi chi può negare che al Nord si evade il fisco come al Sud, che il traffico è meno conge*stionato e che i clacson rompono i timpani allo stesso modo? Non solo. Al Nord forse non si sa*le sui bus senza biglietto? Forse non esiste l’eco*nomia sommersa? Forse non si lavora in nero? «Forse al Nord non si paga il pizzo, non si prati*ca l’usura, non si sfrutta la prostituzione, non si cede al racket? Forse a Torino, Milano, Bologna non si ricicla il denaro della camorra, non si compra la droga?», chiede insistente Cazzullo a un disarmato Erri De Luca nel corso di un recen*te colloquio dedicato al suo libro.
«Sì, è così. Non ci sono più due Italie», risponde l’autore di «Il giorno prima della felicità». Non sono d’accordo. Ma sia chiaro: non per assolvere il Sud e coloro i quali lo hanno gover*nato negli ultimi anni. Non sono d’accordo, per*ché se la meridionalizzazione c’è e non si può negare, il divario resta, eccome. «L’Italia de no*antri» è un affresco assai efficace dell’Italia di og*gi, un paese dove, al Nord come al Sud, «l’ascen*sore sociale è guasto» e «il familismo prospe*ra ». E fulminanti sono i ritratti di protagonisti come Berlusconi, Fini o Tremonti. Tuttavia, sul*la meridionalizzazione che avrebbe unificato il Paese, seppure al ribasso, c’è molto da dire. La tesi è assai cara a Cazzullo, che l’ha antici*pata nel suo precedente «Outlet Italia». Già allo*ra non vedeva dove fossero i Ricasoli e i Min*ghetti, ma vedeva bene dov’erano i Borbone: «dappertutto». Nel dipingere questo quadro, Cazzullo non è solo. Gode, anzi, di un’ottima compagnia, fatta sia di meridionali, sia di «nordisti». Il che dimo*stra che la tesi non è di per sé riconducibile a un atteggiamento «leghista» o comunque antisudi*sta. Me ne sono reso conto quando ho scritto «Bassa Italia».
Di meridionalizzazione dell’Italia si parla sin dai tempi di Francesco de Sanctis. Quando era ministro di Cavour e di Ricasoli e come la Gelmini tentava di mettere mano al rior*dino della pubblica istruzione, De Sanctis fu og*getto di un duplice attacco: da parte dei napole*tani, che lo accusavano di volerli piemontesizza*re; e da parte dei piemontesi, che al contrario credevano di essere napoletanizzati. Fu poi Sciascia a dare corpo a una vera e pro*pria teoria. La chiamò «della palma o del caffè ristretto», perché sia l’albero, sia la bevanda sono tipici delle aree calde, meridionali, e con mafia e scandali, diceva Sciascia, salgono, come il mercurio di un termometro, su su per l’Italia. Di meridionalizzazione hanno poi parlato, tra gli altri, sia i piemontesi Ceronetti e Bocca, sia, più di recente, il casalese Saviano, le cui pagine di «Go*morra» lasciano addirittura intravedere una mondializzazione delle cattive pratiche camorri*stiche. Insomma, non è più la pedagogia pie*montese a civilizzare i meridionali, ma questi ul*timi a esportare i loro disvalori, le loro ansie agorafobiche, il loro protezionismo familisti*co-criminale.
Non più vittime ma carnefici. Non più soc*combenti ma egemonici. Anche quando usata per mettere in guardia dal declino italiano e non in chiave «nordista», questa tesi resta co*munque una tesi a rischio. Intanto, perché può comunque alimentare, al di là delle intenzioni, il pregiudizio antimeridionale. E poi perché, co*me si diceva, meridionalizzazione e declino non procedono di pari passo. In realtà, l’idea della meridionalizzazione tende a rappresentare un Paese con un Sud in movimento e un Nord so*stanzialmente fermo. Ma è davvero così? O, pa*radosso nel paradosso, qui davvero il Sud-Achil*le non riesce mai a raggiungere il Nord-tartaru*ga? È assolutamente vero, allora, come dice Caz*zullo, che non c’è più un’Italia del bene comune e un’altra del particulare e che ovunque, anche se si chiamano in modo diverso, i ravioli hanno ormai lo stesso sapore.
Ma perché sottovalutare che la distanza economica tra Nord e Sud sia an*cora quella degli anni Cinquanta? Che dal Sud sia ripresa l’emigrazione? Che qui ci sia molta più inefficienza amministrativa? E che nelle clas*sifiche del Sole-24 Ore le nostre città siano sem*pre in fondo e mai al top? «Mal comune mezzo gaudio», si dice. Se così fosse saremmo a cavallo. E invece no. La meri*dionalizzazione non ha dimezzato il divario, lo ha anzi acuito. «Certo, nascere a Lodi piuttosto che ad Afragola, a Parma piuttosto che a Vibo Valentia non è la stessa cosa», scrive Cazzullo. Appunto. L’Italia si sarà anche meridionalizzata, ma perché non vedere che il Meridione, per re*sponsabilità delle sue stesse classi dirigenti, si è nel frattempo ulteriormente meridionalizzato? Dipingere un’invasione alla rovescia, dal Sud verso il Nord, non è sbagliato, ma certo non con*sola i meridionali e chissà se aiuta davvero l’Al*ta Italia.
«Ormai da Verona a Vibo Valentia siamo tutti un po' meridionali» - Corriere del Mezzogiorno