davano il benvenuto a Maradona.
L’orologio dello stadio “San Paolo” si fermò alle 18,31 quando dal sottopassaggio, che allora era sotto la Curva A, sbucò il piccolo artista di un metro e 68, una gran testa di riccioli neri, due gambe massicce. Indossava pantaloni chiari di una tuta, una maglietta bianca sponsorizzata dalla Puma, una sciarpa azzurra e, ai piedi, scarpette da ginnastica. Il boato dello stadio si propagò per tutti i Campi Flegrei e salì sino alla collina di Posillipo. Fuochi di ogni colore furono accesi sulle gradinate, fumogeni potenti sprigionarono grandi nuvole azzurre.
Per quel giorno tanto atteso di venticinque anni fa, il 5 luglio 1984, un giovedì, la frenesia e l’entusiasmo cominciarono dal mattino. Nel quartiere di Fuorigrotta e sul piazzale Tecchio, sorse d’incanto un paese festoso di bancarelle, negozi ambulanti, motocicli col rimorchio scoperto, e fu una sagra di bandiere e magliette azzurre, palloncini dello stesso colore, trombe, cassette musicali coi primi inni di baldoria, poster del campione tanto atteso col suo nome e il magico numero 10, tutto un commercio improvvisato dall’artigianato volante dei vicoli. Si vendettero bandiere lunghe otto metri. Alfredo De Leva, pittore salernitano di madonne sui marciapiedi, compose sull’asfalto coi suoi gessetti colorati un gigantesco ritratto del riccioluto ragazzo argentino.
Pagando mille, duemila e tremila lire per i tre ordini di posti dello stadio, settantamila napoletani riempirono il “San Paolo”. L’arrivo di Maradona dette la scossa a una città che si sentiva abbandonata e si era consegnata alla resa di ogni speranza e ambizione. Da vent’anni Napoli non riceveva la visita di un capo dello Stato. Un ragazzo testardo, Antonio Juliano, capitano storico di un altro Napoli, ebbe un ruolo decisivo nell’acquisto di Maradona, pedinando Ferlaino in ogni sua mossa. L’ingegnere riscattò la debolezza e i timori della imprenditoria cittadina immobile e avara di coraggio. L’ingaggio di Maradona divenne un’impresa che oltrepassò i limiti sportivi. Fu considerato l’ingaggio che tutta la città volle, per il quale si sarebbe impegnata essa stessa accorrendo allo stadio. Nei sette anni di permanenza a Napoli del pibe, il pubblico del “San Paolo” comprò biglietti e abbonamenti per 150 miliardi di lire. Per Napoli fu un sfida orgogliosa perché il “colpo” sensazionale avrebbe meravigliato il resto d’Italia e avrebbe messo il Napoli alla pari degli squadroni del Nord. Derisa e sottovalutata in tanti campi, la città si concesse questa clamorosa rivincita.
Una Dyane azzurra, che sulle fiancate portava scritto con lo spray “Viva il nino de oro”, e sul cofano aveva un gigantesco 10, fece più volte il giro della pista. Sugli spalti venne srotolato un telo lungo venti metri con la scritta: “Nel cielo di Napoli ci sono tante stelle, Maradona è la più splendente”. Dai registratori portatili si diffusero le note e le parole delle prime canzoni di felicità: “Maradona tango” e “Tifoso innamorato”. All’ultimo momento si rinunciò alla parte più spettacolare: la discesa in elicottero sull’erba dello stadio del ragazzo magico. Trecento giornalisti, tra i quali molti francesi, spagnoli e un gruppo giapponese, scrissero la cronaca di quel fantastico pomeriggio. Nove emittenti televisive di tutto il mondo aprirono le loro telecamere. In campo, un centinaio di fotografi, molti dei quali inseguiti e addentati dai cani del servizio d’ordine, fece brillare i flash.
Maradona si fermò su un tappeto di caucciù e gli fu porto un microfono. L’attrezzo gracchiò e subito dopo il nino lanciò il saluto che frantumò d’emozione settantamila cuori: “Buonasera napolitani”. Poi prese il suo primo pallone partenopeo e lo calciò in alto, un coriandolo nel cielo di quel pomeriggio azzurro, la prima stella filante del pibe. Il pallone rotolò verso la Curva B, il nido del tifo infinito di Gennaro Montuori, “Palummella”.
Tutto fu molto appassionante, spontaneo, teatrale. Al confronto, la festa dell’altra sera a Madrid per l’arrivo di Kakà al Real, nello stadio delle “merengue”, è stata grande ma poca cosa rispetto alla felicità popolare del 5 luglio a Napoli. Madrid ha incoronato un campione pagato 68,5 milioni di euro. Napoli adottò un figlio e si preparò a chiamare Diego tutti i suoi figli futuri. Era arrivato l’ultimo scugnizzo dei suoi sogni per il quale l’ingegnere Ferlaino aveva raccolto 13 miliardi di lire con le più avventurose acrobazie finanziarie del tempo finendo col rapire il nino al Barcellona dopo 43 giorni di convulse trattative. Quel ragazzo, aveva 24 anni, era in tutto e per tutto uno scugnizzo, faccia bella e impunita, riccioli neri, statura non rilevante, origini umili, nato casualmente a Buenos Aires, ma sicuramente degno d’essere stato bambino a Forcella e alla Sanità dietro una palla di stracci. Mimì Rea scrisse un indimenticabile epinicio: “Maradona non è propriamente un bronzo di Riace. Un bronzo era l’olandese Krol. Sallustro era bello, corteggiava e sposò una soubrette, girava come pochi su una ‘Balilla’ nera, erano tempi da belle époque. Poi Jeppson fece epoca per i 105 milioni che costò. Vinicio era ‘o lione e si sposò in Piazza Plebiscito fra diecimila tifosi. E Sivori veniva dalla Juventus, aveva un’anima e una faccia da scugnizzo, e da scugnizzo giocava. Però era uno scugnizzo adulto.
L’atteggiamento verso Maradona è più intenso. E’ l’idolo di migliaia di ragazzi napoletani forse perché è ragazzo come loro, piccolo come loro ed è stato povero come la maggior parte di loro, i ragazzi delle ‘curve’ del ‘San Paolo’. La faccia di Maradona la definirei un pianeta, il pianeta della miseria. Vi si legge un benessere recente, di recente si è rassodata, i capelli da poco sono cresciuti alla moda. Ma è una faccia i cui le ombre, le rabbie, le privazioni di un passato povero palpitano ancora sotto tutti quei riccioli neri, un’abbondanza nuova anche questa. Il ragazzo povero portava capelli corti da ragazzo povero di Buenos Aires. Questa faccia di Maradona da pianeta della miseria ha conquistato i napoletani prima del suo colpo di tacco. Questo è un virtuosismo, quella è una storia che i napoletani conoscono benissimo”.
Furono sette anni di felicità e di follie, graffiati dal “vizio segreto” del pibe, conclusi col bieco “tradimento” dell’antidoping dopo la partita col Bari, il 17 marzo 1991. Finì una favola. Maradona aveva liberato la fantasia di Napoli. Fiorirono canzoni, ballate, striscioni e scenografie spettacolari allo stadio. Fu un artista tra gli artisti di una città creativa, di sogni ingenui e di gioie passeggere spesso legate a un dribbling e a un gol.