la morte di ogni cosa è la vita di qualcosa
Capisci di non poter capire quando ti rendi conto che della comprensione non rimane assolutamente niente. Quando capisci che, giusta o sbagliata, la tua scelta era una e soltanto una molto prima di iniziare a scegliere e che “giusto” o “sbagliato” sono solo etichette che apponi non su quanto scegli ma sulla scelta. Quanto scegli invece non ha requie, cambia look, perché cambiano i tuoi occhi e i tuoi occhi cancellano la sostanza di tutto. Non perché contengano un raggio d’antimateria, ma perché spargono la vista, il virus delle immagini. Giacché vedi, non vedrai niente. Giacché mi parli, non hai parole.
Non ci conteniamo, non ci conoscevamo, non eravamo insieme quando ci separavano: quest’attrazione umana e terrestre brucia nell’attimo in cui la giustifichiamo.
Abbiamo localizzato il pensiero nella testa: quando penso è come se le cose fossero vicine agli occhi, eppure adesso è come se fossero vicine ai testicoli ed è come se i testicoli fossero da sempre il primo giorno del grande universo.
Mi dispiace che non rimanga nulla, che non ci sia mai un futuro da mantenere: di certo non rimangono parole, né testamenti, né altro che non avesse concretamente un posto quando veniva espresso e che adesso è un ricordo di qualcosa di narrato, didascalia a margine di una vita mai vissuta da te, in prima persona. Se vogliamo crescere su qualcosa di noi, dobbiamo ricordare più intensamente e non v’è intensità sufficiente a farci restare dove non siamo più. In prima persona non indica il soggetto agente, ma la nostra distanza da esso e non temporale, ma spirituale. Atti svolti pochi minuti fa non sono miei, altri vecchi di dieci anni sono quanto non ho mai smesso di fare. La mia vita si racchiude attorno al gesto di una mano, adesso, e dimentica la costruzione. Nel gesto che distrugge non meno che nel gesto che pianta una nuova dissennata promessa.
Cosa conta? La risposta: quanto per sempre sarà ridiscusso. Cosa resta? Il sapore di quanto perde sapore. Quanto resta? Fino a quando non è occupato di nuovo l’angusto spazio in cui collochiamo qualsiasi cosa.
Se parlo con te, io so chi non sei: il tuo nome, i tuoi racconti, il tuo particolare odore. So cosa sei, il movimento delle mani che cercano la tua pelle, la sorpresa e l’emozione che ti cancellano il viso dalle foto. Tu sei oltre te, sei un altro nome, sei ciò che ti dà il turno e ciò a cui lo cedi.
A chi restare fedele? A quanto lasci sulle mie sponde dopo la mareggiata, o a te, onda infinita, che ancora una volta m’insegui per cancellare, tu che non hai volto né memoria né coscienza di me?
Che potrei dirti di me che potesse guidare la tua mano meglio di quanto non faccia il cieco impulso che vive al posto nostro?
Assalimi mentre non vedo, prendimi di notte quando dormo. Amami con la stessa crudeltà della morte.
Non svegliarmi mai.