Questo è l'ultimo capitolo (e unico fino ad ora) di uno di quei tanti progetti che non finirò.
Metterlo qui, mi aiuta a dargli un senso ^^
C’erano tutti quella mattina. Una folla piatta, nera, e spalmata tutta verso l’entrata della chiesa. Ai due lati, due vecchi furgoncini blu scuro, soffocati da corone e scritte e ricordi.
Musica, musica, qui c’è bisogno di musica Antò
Quello che ricordo è un immenso, profondo, assordante silenzio. Un dolore nero come un mantello sporco. Silenzio, silenzio, un enorme silenzio.
Pareva d’addentrarsi nel dolore stesso. Nell’acutezza di un momento brutto. Di un cuore che si spezza per amore, di una vita persa per una *****ta.
Si aveva la consapevolezza, avvicinandosi, che qualcosa aveva fatto la sua grande uscita di scena.
Come un vecchio attore, stanco, che saluta il suo pubblico con il suo spettacolo migliore.
La bara di legno marrone di noce, sembrava un palco calpestato. E poi fiori, fiori, Dio mio quanti dannatissimi fiori.
Ciao, ho un pallone, ti va di giocare?
Silenzio, silenzio, c’era un dannatissimo silenzio. E facce invecchiate, ingrandite, spezzate, spostate, bagnate. C’erano anime e anime e anime e la tua dov’era Jè. Dov’era. C’erano anime e anime e nuvole e persino piccioni. Tu dov’eri Jè? C’erano fiori e c’erano donne e abiti scuri e lacrime a fiumi. C’era da piangere e tu dov’eri Jè?
C’era una bara e il prete, c’erano i chierichetti e c’era il barista, il pittore, la stronza, lo stronzo, e c’era la pace e la voglia di te e tu dov’eri Jè?
I quattordici anni e il campo di grano. Le storie inventate, quelle vere, quelle perse e dimenticate. Le stronzate e il ballo d’inverno, quel bacio e il ritorno, di nuovo,” si balla e si sogna stanotte compà!”.
La vita se ne va, di solito, mettendoti un dito in culo.
E camminavo, nei miei ventiquattro anni, avanti e avanti. E ripensavo e ascoltavo e cercavo.
Di quel giorno ricordo molte cose. Il caldo della chiesa. Le urla, le lacrime.
Le tantissime cose raccontabili, le inutilità, gli orpelli, gli abbellimenti.
Le solite parole del parroco e i pensieri che si mescolavano a quelli di tutti.
E le facce e poi la fine della messa.
E poi fuori.
Fu volontà di Saverio quella di non lasciare la bara alla mercé della ditta Pompe Funebri Attilio.
-Lo portiamo noi.
-Ma…non si può!
-Lo portiamo noi.
Disse con il volto serio, scuro e la voce ferma. Ma con gli occhi gonfi e rossi che parevano pieni d’aceto.
Lo portiamo noi.
E lo portammo noi.
Io, Saverio, Francesco e il ragazzo che lavorava in pizzeria. Il buon vecchio Alessandro.
Attenti ad ogni singolo movimento, quasi senza respirare, quasi senza piangere, quasi senza sfiorare.
Mentre salivamo la piccola strada che porta su al vecchio cimitero, sognavo Jerome, in una sua ultima camminata sotto le stelle a raccontare favole, a intenerire le ombre a far sognare piccoli ragazzini con gli occhiali. Lo sognavo e rivedevo la sua schiena magra, di spalle a noi, mentre respirava a favore della luna.
Ricordo di quel giorno tante cose.
Ma la cosa che credo non dimenticherò mai, è il piccolo Claudio.
Mentre salivamo con Jerome in spalle, piangeva e urlava e si mordeva le mani e malediva Dio per non avergli dato quel pugno di centimetri in più per arrivare al legno dell’amico. Malediva Dio per non avergli concesso quell’ultima occasione per ricambiare un favore, all’amico che respirava le stelle.
Fine.