Le immagini deliziose accumulate nel fondo della mente, evocate quasi per caso da un momento insorvegliato dell'attenzione selettiva, spezzando miracolosamente l'impegno quotidiano che conduce in porto il nostro giorno ogni giorno, giorno per giorno, e che ci risucchiano senza la nostra cosiddetta partecipazione dal luogo da cui invece soltanto è possibile essere risucchiati, perché il giorno è la normalità, la base accettata e sicura da cui difendersi dalle deviazioni dell'automatismo - quelle immagini dicevo - costituiscono il serbatoio di ciò che, se fosse dato esprimerle, chiameremmo senza nomi, indicheremmo senza dita, e vivremmo senza coscienza.
Certi sogni, antichi, non sono mai invecchiati.
Se capita che dal fragile limbo in cui la memoria cerca di accatastare alla meglio le tracce di quelle estasi proviamo a riportare a galla delle testimonianze che, lungi dal volerci semplicemente ricordare l'esperienza, aspirino a dirla per intero e senza scarti, ecco che un senso di profonda inadeguatezza (dapprima avvertito come una fitta d'impossibilità) inizia a dileguare all'ombra degli impegni la cui somma continua noi abbiamo deciso (o il mondo aperto dalla nostra tradizione ha deciso) di far coincidere con ciò che di noi è da dire e persino da sentire.
Per comodità chiamiamo la nostra vita ciò che, attraverso reperti di passato e di memoria verificabile ci attesta di esserci dati svolgimento e conseguenzialità. Chiunque ci abbia seguiti potrebbe confermarlo: eravamo lì, a quell'ora, in quel giorno intenti a fare questo, poi quest'altro e poi è successo qualcosa che ci ha portati a fare quell'altro ancora.
Succede anche che, incontrando qualcuno che non incontriamo da lunghissimo tempo, ci si trovi a rammentare assieme cose di cui avevamo perso memoria.
Giunge forte allora il sospetto che memoria e coscienza non coincidano.
Che la coscienza di ciò che siamo e continuiamo ad essere si alimenti continuamente di scie d'eventi di cui non siamo più consapevoli.
Allora ci accorgiamo che siamo sospesi su un pozzo d'oblio, e che i raccordi con la tranquillizzante sicurezza genealogica del nostro vissuto sono malcerti e, ancora più sconvolgente, arbitrari.
Solo il ricordo fissa al suolo un tracciato che, sentiamo, basterebbe percorrere a ritroso per trasportarci al nostro segreto dei segreti, la nostra essenza, il nostro io puro.
Ed invece?
Tutte le foreste ai margini della strada maestra, gli sperduti sentieri di campagna immersi nell'odore di stoppie bruciate non sono solo lo sfondo che, per negazione, ci rende noi.
Passiamo sulla strada con lo zaino in spalla e d'un tratto siamo assaliti dal sospetto che un tempo (quanto remoto non potremmo dire) siamo stati noi a perderci nel fitto del bosco, ad avere avuto paura dei lupi il cui ululato materializza il selciato amico e siamo stati noi ad accendere i fuochi che ancora bruciano per tenere lontana quella malìa o per invocarla.
Ci fermiamo per tirare fuori qualcosa dallo zaino.
E sono le cose di un altro.
E non riusciamo proprio a capire a cosa possano servire.