Ok lo so, è una cazzata, ma ormai l'ho scritta e cancellarla del tutto non mi va.
Lo spettacolo era appena iniziato, il sottofondo degli ultimi spettatori che prendevano posto si era attutito. Era seduto lì, come ogni venerdì contemplava quella platea di gente che sfoggiava un lusso pacchiano e si chiedeva quale altro posto l’avrebbe accettato se non quello che puntualmente lo rinnegava. Gli anni erano passati anche per lui, gli avevano portato via parte della sua bellezza in cambio di quella saggezza che un uomo di mezza età padroneggia.
Le scene scorrevano veloci davanti i suoi occhi, amava perdersi nelle luci tenui di quel teatro, amava lasciarsi cullare dalle sceneggiature, ma soprattutto amava vedere quel mondo che viveva lontano da lui. Da anni sperava di entrare a farne parte, di essere per una volta protagonista della sua stessa vita. L’idea lo mandava in estasi, sarebbe stata una rivincita ai tanti anni di inerzia e al duro regime materno che ancora vegliava in lui, ma era ormai schiavo di quella profonda inettitudine che da tempo gli impediva di percepire i dolci odori dell’esistenza.
Una timida luce gli accarezzò il viso, facendosi spazio sui tratti spigolosi del volto e delineando quell’espressione pallida che lo aveva sempre caratterizzato. Gli occhi neri brillavano sullo spalto, scrutando nella penombra ogni minuzioso gesto della scena. Cercava di cogliere ogni emozione, da rivivere nel ricordo del suo solito oblio.
Mezzanotte e due minuti, il mondo stava per finire anche quella sera, lo sapeva già. Si alzò prima degli altri, non amava i ringraziamenti degli attori; e si avviò all’uscita, dove già alcune dame aspettavano qualche limousine per far ritorno a casa. Alzò lo sguardo, accarezzò con gli occhi quel cielo buio che piangeva sopra la sua testa. Si rimise il cappello di lepre, aprì l’ombrello nero e sfiorò compiaciuto un’ultima volta i baffi. Si avviò per il viale, accompagnato dal caldo tintinnio di quel mondo così lontano.