E' una favola scritta in poco tempo, dopo aver visto questa immagine che, non so perchè, mi ha colpito.
La posto giusto per uno sfizio personale. Se ci sono errori scusate, l'ho scritta in fretta e non l'ho riletta attentamente.
Ah e, premessa, è molto lunga.
<< Il pavone restava fermo a specchiarsi nel fiume, là nell’insenatura dove l’acqua era stagnante e la sua immagine ferma. Faceva la ruota e poi si voltava di profilo, fiero della sua bellezza algida a perlata, ricca di blu e verdi e ocra. Si specchiava e rispecchiava, incarnazione animale della vanità e dell’ingordigia. Che fosse notte o giorno, che piovesse o splendesse il sole in cielo, il suo piumaggio riluceva come perle di fiume e come cristalli limpidi. Niente lo appagava come la vista della sua bellezza e la compagnia di altri simili lo distraeva dalla propria. Un lui umano, però, colpì la sua attenzione e la catturò nella sua rete. Era un giovane borghese dal viso spigoloso e i capelli corvini come l’atmosfera notturna, con due occhi che come stelle azzurre incantavano più delle sue lunghe piume. Che l’uccello provasse amore o invidia verso il giovane non lo sapremo mai, perché mai neanche al pavone blu fu concessa quella conoscenza. Il giovane passeggiava spesso lungo il fiume serpeggiante, e sempre il giovane pavone era lì a guardarlo, desideroso che l’uomo si accorgesse di lui e della sua bellezza. L’uomo, però, mai più di qualche occhiata gli rivolse, ormai stanco di vederlo tutti i giorni intento a rimirarsi e a celebrarsi. Il magnifico pennuto, stanco di essere invisibile agli occhi dell’amato, lasciò il suo specchio naturale e si inoltrò nel folto del bosco. La sua coda fluente si impigliò nei rami fronzuti e i suoi occhi videro alberi e paesaggi mai visti prima, perché mai aveva smesso di rimirarsi per rimirare la natura impervia e seducente. Quando scorse la grotta color amaranto, casa della Fata degli Incanti, attraversò la soglia senza indugi e senza indugi si prostrò davanti alla donna minuta color oro e terra, linfa della foresta e dei desideri. “Voglio essere la bellezza che lui cerca” chiese il pavone alla creatura fatata “Voglio che mi guardi e che dopo non desideri guardare nessun altro”. La Fata acconsentì, e degna della sua stirpe non gli disse del prezzo da pagare per tale volere. Le fate, si sa, non posso mentire, ma possono omettere, al pari di uomini ignobili, le conseguenze dei gesti degli stolti. Il pavone fu accontentato e ritornò appagato alla sua occupazione preferita. Quando, però, si specchiò nelle acque tumultuose, fu una donna bianca come la porcellana a scorgere, con capelli color castagna e occhi blu cobalto. Per quanto fosse bella quella creatura, tale bellezza sfigurava al pari della sua e al pari del giovane che amava. Il sole tramontò e poi risorse, e con sé portò quel corpo dall’aspetto giovane e piacente, delicato come spuma di mare e tagliente come onice. E stavolta, l’uomo la guardò e nient’altro desiderò guardare perché nient’altro poté, da allora, guardare: tutto era nero, tutto era nulla eccetto quella donna tanto bella eppure messaggera di sventura. Era diventato cieco, inspiegabilmente la terra non si gli si mostrava più. “Finalmente, mio amato, mi guardi”. L’uomo chiuse gli occhi, ma anche dietro le palpebre serrate con forza spiccava l’immagine vestita di blu della fanciulla. “Che cosa mi hai fatto” chiese disperato, portandosi le mani agli occhi come se volesse strapparseli. Il pavone non capì cosa gli stesse dicendo, ne perché si rifiutasse di guardarla, adesso che il suo piumaggio eccelso aveva venduto per quel corpo simile eppure diverso dal suo. “Cosa ho fatto a me per te, vorrai dire. La Fata degli Incanti si è fatta una veste con le mie piume pregiate e tu non te ne accorgi neanche”. Era basita e arrabbiata, irata con se stessa perché, per vanità o per amore, adesso non era più importante, aveva venduto se stessa senza averne avuto in cambio niente. “Sei un mostro” recitò il giovane, e corse alla cieca sulle orme che, senza sapere e senza poter vedere, aveva lasciato il pavone per correre dalla Fata maligna. Quando sotto le mani percepì la ruvidezza delle rocce, si lasciò cadere in ginocchio come il suo predecessore e scongiurò la Fata degli Incanti di ridargli la vista. “Voglio essere clemente con te, umano” gli concesse inspiegabilmente la fata “Riavrai la vista e potrai rivedere il mondo se ucciderai il pavone che mi ha chiesto di sottrartela”. Il giovane, che quel giorno passeggiava armato solo di uno stiletto di vetro, regalo degli anni infantili, a ritroso percorse lo stesso percorso fino a trovarsi la donna dai capelli castani stagliata come un fuso davanti allo sguardo che l’odio aveva tramutato in mostruosa creatura egoista e superficiale, che per un pugno di ammirazione aveva venduto alla Fata la sua vista. Gli corse incontro per ucciderla ma la donna sollevò una mano bianca, nella quale lui non poté scorgere la pietra irregolare, e il ragazzo si sentì colpire alla testa con forza. Perse i sensi e morì, senza poter guardare nient’altro se non il suo carnefice. La donna pavone pianse per aver ucciso l’uomo che amava, o forse no, e si disperò per il piumaggio che aveva perso e che mai avrebbe potuto riavere. Corse e corse, mossa dalla voglia di non aver mai chiesto di essere diversa, perché quella diversità non gli piaceva; voleva potersi rivedere far la ruota e vantarsi e rimirarsi e complimentarsi per il suo piumaggio e la sua algida bellezza. La Fata era sempre lì, seduta a gambe incrociate. “Limita la mia libertà, ma ridammi le mie piume”. La Fata degli Incanti mostrò i denti in un sorriso affilato e le tese la mano.
La donna pavone non era più un pavone. Era solo una donna. Era chiusa in un tempio al centro del bosco. Sul recinto marmoreo di colonne e arcate era posato il teschio dell’uomo che aveva amato oppure no, e la sua immagine era riflessa in uno specchio ovale. Non aveva riavuto la sua bellezza, non aveva riavuto il suo aspetto, ma era di nuovo in possesso del suo piumaggio. Nella mano nascosta dietro la schiena teneva, perennemente, le piume della sua coda perduta. >>