Good Bye Lenin!
Durante una manifestazione, il giovane Alex (Daniel Brühl) viene pestato dalla polizia sotto gli occhi della madre (Katrin Sass) che colta da infarto, cade in coma. Quando si risveglia il muro è caduto e la realtà, in Germania e in tutto il mondo, è profondamente mutata. Ma la signora Kerner è ancora in pericolo, uno shock potrebbe esserle fatale. Alex e la sorella Ariane (Maria Simon) decidono di tenerla all’oscuro di tutto, dannandosi l’anima per ricostruirle su misura la vecchia Repubblica democratica!
Seguendo i dettami del tipico racconto di formazione, e avvalendosi della voce off del protagonista, Good Bye Lenin! si apre sull’infanzia di Alex, nel 1978, in piena epoca del “riflusso”, un’epoca in cui, nonostante la “democrazia popolare”, basata sul modello sovietico, sembrasse ancora una realtà longeva nella Germania dell’est, apparivano evidenti i primi sintomi della crisi, dovuta soprattutto alla perdita d’immagine dell’URSS in seguito ai fatti di Praga e, prima ancora, al rapporto Kruscëv.
Dieci anni dopo siamo alle proteste e alle manifestazioni sotto il muro, all’esodo clandestino di massa verso l’occidente libero e capitalista. Il film appare costruito su diversi livelli. Il primo è quello dinamico ed esilarante delle traversie di Alex, alla ricerca di beni tedeschi fino a qualche mese prima di uso comune - cibi, vestiti, mobili - ora ridotti a merce rara da antiquariato, o impegnato insieme all’amico e aspirante regista Rainer nella realizzazione di telegionali finti, dove l’attualità viene camuffata, reinventata, senza troppe difficoltà dato che, come afferma Rainer, “I vecchi telegiornali dicevano sempre le stesse cose”.
La loro creatività tocca cime formidabili nella spiegazione di fenomeni sfuggiti alla pur forsennata “censura” di Alex: il gigantesco pannello della Coca-Cola montato sul palazzo di fronte, o la visione di una statua di Lenin che viene portata via da un elicottero (stessa immagine, ma su un battello, in Lo sguardo di Ulisse di Angelopoulos), per non dire delle immagini dell’esodo, interpretate in senso opposto come una immigrazione di massa a Berlino est, dove la gente corre in cerca di un mondo dove contano le idee e non il libero mercato!.
Il secondo livello è costituito dallo sfondo storico-sociale, mai in primo piano, ma sempre presente in maniera non didascalica, ed è interessante e decisamente pregnante a queso proposito l’adozione di un punto di vista “dall’interno”, uno sguardo quindi confuso, privato del senno di poi.
Il terzo livello sono i rapporti che legano i vari diversi personaggi della famiglia. Ariane sta costruendosi una famiglia con un ragazzo di Berlino ovest. Alex, artefice di un drastico, utopistico, ritorno al passato – anche se non a fini ideologici ma per salvare la madre – si scontra con l’insofferenza di Lara (Chulpan Khamatova), una giovane infermiera, che abbraccia invece totalmente e innocentemente il nuovo sistema, identificandolo con la libertà.
Infine, la signora Kerner e il marito, fuggito anni prima dall’altra parte del muro, esempio lampante di una divisione politica che è anche sempre una lacerazione dei vincoli tra gli esseri umani. A un certo punto Christiane Kerner confessa ai figli ormai grandi che il suo più grande rimpianto è quello di non aver seguito il marito dall’altra parte del muro, in “occidente”, e questo nonostante si sia sempre comportata come una socialista convinta. Tuttavia Alex persiste nel nasconderle la verità persino dopo questa amara confessione. Sembrerebbe una contraddizione. In realtà questa è una delle “finezze” del film, espressione di quello sguardo di cui dicevamo, uno sguardo dall’interno di chi, come il regista Wolfgang Becker (classe 1954), ha vissuto realmente sulla propria pelle un passaggio storico di notevole importanza, e non ha quindi alcuna voglia di tradurlo in una semplice e comoda formula. D’altra parte, qualcuno potrebbe pensare che questa “assenza di giudizio storico” sia invece una mossa furba e calcolata, ai fini di una facile presa sentimentale-emotiva del pubblico, un tenersi in bilico tra la malinconia di un passato – per quanto “sbagliato” – e l’incertezza di un presente che, come quello capitalista, si presenta pieno di contraddizioni.
A noi il film è sembrato invece molto sincero: Wolfgang Becker, grazie anche alla sceneggiatura di Bernd Lichtenberg, ha il fiuto necessario per realizzare un film “che piace a tutti”, partendo da una commedia famigliare e giungendo ad un apologo universale sul senso della storia, sull’accettazione o, viceversa, la rimozione di mutamenti inarrestabili e sulle conseguenze sociali e psicologiche che essi portano. Con in più una salutare dose di ironia su certe posizioni fin troppo univoche e semplicistiche con cui spesso si guarda alla storia passata e recente.
Fonte: CineClick | Recensioni: Good Bye Lenin!
Chi l'ha visto? Secondo me una delle ultime gioie del cinema europeo