Un’erezione quasi ad angolo retto. Da tre giorni. Va be’ il rigor mortis, ma cominciava a dare scandalo: si era tentato di dissimularla sotto paramenti e cuscini, ma il montarozzo aveva solo rimarcato l’exploit. Meglio lasciare tutto alla luce del sole.
Erano accorsi a migliaia, per vedere quel fenomeno al limite del miracoloso: persino le Suore Eremite del Santuario di Sant’Olindo, i Frati Astinenti di Lomellina, Lunigiana e Oltrepopavese, le Monache Oblate del Natalizio Avvento e i Cappuccini Oranti per la Pratica Universale delle Laudi Armoniose.
Tutti e tutte sgranavano occhi e rosari, bisbigliando di un novello miracolo della Resurrezione. Non si poteva più tollerare: l’immagine del defunto vescovo usciva umiliata, sbeffeggiata, lui che in vita era stato così pio e casto.
Le anime, anche le più serafiche, erano turbate – lo si intuiva dagli sguardi, dai rossori, dai pallori. Ognuno si lasciava andare a pensieri secondo l’animo suo: il frate godereccio e mondano sorrideva all’idea della Sua Eminenza che giungeva davanti a S. Pietro con quel siluro in posizione di lancio e si pregustava le battutacce che gli avrebbero riservato Bonolis e De Laurentis (“che ne direbbe di una tazza di caffè Lamazza? lungo, vero?” …. “Poverino, la morte l’ha colto in fallo”, “Eccesso di rigidità morale” … e li pagavano pure!); la suorina di origini contadine s’indignava all’idea di tutto quel bendidio dato in pasto ai vermi; la marchesa Adelaide Galaverna Pimpinelli de’ Stremassi sognava dove potrebbe collocare nel suo attico quel superbo appendisciarpe, una volta mummificato …
La stoffa del semplice abito talare, che il porporato aveva chiesto di indossare in punto di morte, presentava ormai una ben delimitata zona lisa, vuoi per l’eccessiva tensione vuoi per l’abrasività degli sguardi – che, più li si voleva tener lontani, più si accanivano a levigare quel minuscolo lembo di sipario. La lingua batte dove il dente duole, pensavano non poche pie dame di carità, peraltro sanissime di denti.
Quand’ecco, tra il lusco e il brusco, un’impudica Crocallis elinguaria, falena dell’ordine delle Geometridae, andò leziosamente a planare proprio sulla sommità del rigor mortis. “Non più andrai, farfallone amoroso” si trovò a canticchiare Carlo Raggio, maestro di cappella del Duomo. La solita suorina di campagna – a ciascuno la sua cultura – fu sorpresa a bisbigliare ‘La vispa Teresa fra l’erbetta / rincorrea la farfalletta’.
Era … certo, era il Demonio, che, dopo aver fatto la pentola, veniva a metterci il coperchio.
Che fare?
L’aria era ormai così pregna di lascivia, che la tagliavi a fettine da farci crostini con mozzarella e senape. Dai meandri dei ricordi scolastici venivano recuperati e proiettati sulle pareti microfilm delle scene più audaci del ‘Decameron’. Le menti più raffinate trasudavano sequenze da ‘Les 120 journées de Sodome ou l'Ecole du libertinage’ del Divin Marchese. Quelle più sensibili e tormentate riandavano ai conflitti del Tommaseo in ‘Fede e bellezza’. Una suorina di Bergamo lasciò allibiti i più mandando in onda pagine infuocate dal ‘Berghem de sutra’, scritto da goliardici seminaristi sulla scorta del Kamasutra. Ci fu –un’interferenza, certo – la proiezione di una sequenza da ‘Metti Lo Diavolo Tuo Ne Lo Mio Inferno’, film cult del ’72.
Nel frattempo, la Crocallis elinguaria era ancora lì, statuaria. Ci fu chi s’avvicinò per soffiarla via, ma si fermò per tempo: troppo simile allo spegnimento di una candela sulla torta di compleanno.
Le pareti erano imbrattate di lussuria, rosee di quel virginale pigmento che abbellisce le donne all’approssimarsi della copula. Già le religiose presenti pennellavano sguardi formato ‘estasi di S. Teresa’; già i religiosi si flagellavano le coscienze per essersi scordati gli esercizi spirituali del Loyola. Allorché il segretario del defunto vescovo, con voce arrochita dalla libidine, gracchiò: “L’esorcista! ci vuole l’esorcista!”. Si corse si chiese si cercò si chiamò si richiamò. Niente: l’esorcista non si trovava. “Scarichiamolo – suggerì una suorina dell’ ordine delle Imenottere Scalze – da YouTube”. La battuta in sé non era male, ma si arenò sull’ottusità di quelle menti retrograde.
Fu allora che si catapultò nella stanza il sacrestano capo del Duomo: nella destra, il turibolo incensante; nella sinistra, l’aspersorio dell’acqua santa, berciando: “Papè Satàn! Papè Satàn ‘ste ceppe! *” e roteando intorno alla salma come un go-kart. La falena, scossa sui nervi, decollò a razzo e planò proprio sulla bocca dell’invasato sacrestano, quasi a suggerirgli ‘Il silenzio degli innocenti’.
Un fremito tra la folla degli aspiranti satiri e baccanti – subito spento dal guizzo di un lampo che si abbattè sul rigor mortis, incenerendolo. Un’altra saetta vergò a lettere di fuoco sull’abito nero del vescovo: “Pelvis es, pelvis eris” **.
Caddero tutti in ginocchio, qualcuno fracassandosi la rotula, qualcun altro martoriando i calcagni di chi gli stava davanti. Una voce malferma e gracchiante attaccò l’ “Ave Maria, gratia plena”, cui presto fece eco il ‘Sancta Maria mater Dei” di tutti i presenti, tranne il sacrestano, sempre intento a limonare con la Crocallis elinguaria.
“Eros e Thanatos”, pensò il vecchio monsignore, dotto umanista d’altri tempi. “L’arbitro ha voluto sanzionare un autentico fallo da rigor mortis” ghignò acuto l’estimatore di Bartezzaghi.
Di tutta la vicenda, restò solo una pugnetta di cenere.
Proto: pugnetto, non pugnetta!
NOTE
* Parodia del “Papè Satàn! Papè Satàn aleppe” dantesco
** Sarebbe “Pulvis es …”