(umorismo tutto inglese)
Nella pace della notte di fine estate, l'intera Lewisham dormiva il
suo placido sonno. Tutto era quieto: ogni strada deserta, ogni casa
silente, ogni luce spenta. Tuttavia - ad avere l'accortezza di
allontanarsi dalla via principale - dopo qualche centinaio di metri,
tra le altre villette a due piani addormentate, se ne poteva
facilmente scorgere una con la finestra da basso illuminata,
nonostante l'ora tarda. Quella era la cucina del signor Pibody, e il
signor Pibody in persona c'era dentro, seduto con aria
preoccupatissima intorno al tavolo, mentre s'ingozzava di Sherbet
Lemon per stemperare la tensione.In cuor suo, il signor Pibody si era
sempre ritenuto un uomo affidabile, regolato, di sani principi. E ora
invece, a cinquant'anni suonati, si scopriva un pervertito. Non poteva
farsene una ragione. Ore prima aveva provato a esternare alla signora
Pibody i suoi timori, in maniera discreta si capisce, e non senza un
certo dignitoso sussiego. Oddio, se non altro all'inizio.
Si era concesso una blanda digressione prima di entrare nel vivo:
"Tempo gelido in questi giorni, nevvero cara?" aveva esordito.
"Difatti..." aveva risposto la signora Pibody, del tutto assorbita
dalla preparazione di una sontuosa Kidney Pie per il pranzo
dell'indomani.
Il signor Pibody fu compiaciuto, fino a quel momento tutto bene. Con
ardita oratoria saltellò leggiadramente di argomento in argomento,
mentre meno leggiadramente saltellava intorno alla signora Pibody
affaccendata. Quando arrivò agli estremi di una conversazione sul volo
radente dei falconi di Nottingham, la signora Pibody rimase
interdetta. "Reginald, che hai?". "Henrietta, sono un maniaco!" sbottò
esasperato il signor Pibody, sull'orlo delle lacrime.
"Era ora, caro! Alfine, quel corso ha dato i suoi frutti" rispose la
signora Pibody, del tutto fraintendendo i sentimenti del consorte.
"Là!" aggiunse, dando un ultimo tocco artistico alla Kidney Pie, e
rimirandosela con occhio critico prima di riporla in frigo. "Io vado a
letto caro, non far troppo rumore quaggiù, non vorrei tu svegliassi
Georgette". Poi si era messa i bigodini, la crema da notte alla papaya
thaylandese, e si era ritirata in camera augurandogli la buona notte.
Ma non poteva essere una buona notte per il signor Pibody. Come del
resto non lo erano state le tre precedenti - e ci giurava - non lo
sarebbero state neppure le tre seguenti. Restò lì a struggersi a lungo
sulla sua depravazione, ma ben attento a non emettere suono. Perché -
che il cielo misericordioso lo scampasse - la sola idea di trovarsi
nel cuore della notte solo con Georgette gli aveva fatto aspirare
altre due tortine in un sol colpo.
Alla fine si convinse che era inutile starsene lì a rimuginare, così
spense la luce sopra il fornello e salì le scale per andare in camera,
borbottando tra sé e sé. Si girò e rigirò nel letto, quella notte,
finchè la signora Pibody non gli mise la molletta nel naso. Era un
riflesso incondizionato ormai, lo faceva senza svegliarsi. Dai tempi
in cui il signor Pibody russava clamorosamente, ella dormiva
stringendo in pugno una molletta da bucato, e non appena avvertiva una
qualche turbolenza, gliela attaccava sul naso.Come facesse a prenderci
ad occhi chiusi, mentre ancora dormiva, il signor Pibody non lo
sapeva.
Cominciò a favoleggiare di strane capacità della signora Pibody,
simili a quelle dei pipistrelli. Si immaginò a capo di una pericolosa
spedizione archeologica, mentre salvava l'intera squadra dalle tenebre
di una piramide atzeca, grazie ai talenti di sua moglie. Il signor
Pibody aveva sovente pensieri simili. Poi, lambito esoticamente dalla
papaya thaylandese, finalmente si addormentò.
Il signor Pibody fece un orribile incubo nel quale Georgette,
impudicamente fasciata da un micro-bikini leopardato, gli saltava
seduta sulle ginocchia trillando giuliva "Oncle! Oncle! Cavalluscio,
oui?"
Si svegliò tutto scombussolato, per poi accorgersi che la realtà non
distava troppo dalla finzione onirica. Anzi, una scena identica si era
verificata proprio un paio di giorni prima, fatta eccezione del
micro-bikini leopardato. In quel frangente infatti, Georgette
indossava un baby doll. Ma ai fini della vicenda, il signor Pibody non
ne trasse alcun sollievo rilevante. Che cosa gli sarebbe toccato oggi?
Il signor Pibody aveva avuto sentori infernali dal momento stesso in
cui Georgette aveva varcato la soglia di casa sua. "La figlia di una
mia cugina alla lontana che vive in Francia" aveva detto la signora
Pibody. E il signor Pibody aveva annuito. "Una piccola vacanza a
Londra, la piccina non l'ha mai visitata", aveva proseguito la signora
Pibody. E il signor Pibody aveva annuito. "Non più di una settimana
comunque, prima che le ricominci la scuola", aveva concluso la signora
Pibody. E il signor Pibody aveva annuito.
A cuor leggero aveva accolto lo scampanellio al portone, nel radioso
mattino in cui Georgette era arrivata. Era ancora seduto a tavola con
la colazione davanti, sorseggiando placidamente un tea, quando dopo
aver fatto gli onori di casa la signora Pibody condusse l'ospite in
cucina. E lì, il bonjour di benvenuto che si era preparato a sfoggiare
di fronte alla giovinetta, si mescolò con la sorsata di tea che aveva
appena incamerato, generando niente di meno che un attacco di tosse
degno di un tisico.
Il fatto è che Georgette non somigliava affatto all'idea che il signor
Pibody aveva di "quindicenne". D'accordo, era passato del tempo, ma
era certo che i suoi figliuoli non fossero così, quando avevano avuto
quindici anni. Passi che questa Georgette non somigliasse a Philip,
visto che Philip era un maschio. Ma non somigliava neppure a Suzanne,
e Suzanne era indubbiamente una femmina. Avrebbe potuto somigliarle.
Ma proprio non le somigliava.
Ci pensò su meglio, cercando di ricordare la sua Suzanne a quindici
anni: calzettoni e treccine. Pure Georgette aveva i calzettoni e le
treccine. Però portava anche una minigonna plissettata, che forse
addosso a una cariatide avrebbe impedito alle mutande di fare
capolino, ma non su di un essere umano dotato di una normale - fin
quanto moderata - motricità. Inoltre aveva su una canottierina che
doveva possedere da molto tempo, e a cui doveva essere molto
affezionata. Non si spiegava altrimenti per quale motivo continuasse a
indossarla, considerato che doveva esserle stata giusta di misura
grosso modo ai tempi della prima elementare. E questo era tutto.
No, decisamente non rassomigliava alla sua Suzanne.
Al signor Pibody rammentava qualcuna che aveva intravisto di sfuggita
su un tabloid scandalistico, mentre faceva la fila alla cassa del
Sainsbury's, ma gli sfuggiva il nome. Quando però Georgette con
slancio gazzellato gli si lanciò addosso strillettando "Oh, l'oncle
Rescinàl!", il signor Pibody venne colpito da un curioso quanto
scioccante lampo di reminiscenza: nel suo cervello sentì limpida e
quadrifonica una vocetta che implorava "Hit me, baby, one more time!".
Per tutti i goal di Owen, ecco a chi somigliava!
Il signor Pibody, superato il trauma iniziale, decise di comportarsi
da uomo di mondo: stoico, saggio, ascetico. Un uomo a cui i meri
eventi quotidiani sarebbero scivolati sopra come la pioggia su un
burburry. Cioè, più o meno. Avrebbe forse coronato il suo ideale
stilitico se fosse dipeso tutto da lui, ma così - ahimè - non era. La
cara Georgette pareva essersi alquanto affezionata alla sua persona, e
che il diavolo lo portasse se il signor Pibody riusciva a capire il
perché. "E' una bambina in una città tentacolare e estranea" si
ripeteva, soprattutto per farsi coraggio "si sentirà smarrita, e
bisognosa di una figura paterna!". Anche se certo, aveva un modo
singolare di dimostrarlo. Il fatto che riuscisse a finirgli davanti
ogni qual volta percorreva lo stretto corridoio di casa, ad esempio,
era quantomeno curioso. Il signor Pibody in quelle occasioni si
appiattiva contro la parete, pretendendo con tutte le sue forze di
imitare una sogliola. Possibilmente anche nel colore, in modo da
risultare quasi invisibile davanti alla carta da parati a toni beige.
Nonostante tutti i suoi sforzi mimetici però, il signor Pibody veniva
sistematicamente tradito dalla sua stazza non proprio filiforme, e
così - volente o nolente - finiva strusciato da Georgette, che dopo
un'ulteriore scrollatina di sederino bisbigliava flautata "Pardon".
Non gli pareva inoltre esagerato asserire, che a tavola, la brava
figliola indugiasse un tantinello troppo nel passargli il sale o
l'acqua, trasformando in soavi carezzine quella che fino a pochi
giorni avanti considerava una innocente cortesia da pasto. Aveva
scoperto poi con orrore che gli indumenti che aveva indossato il
giorno del suo arrivo, erano tra i più coprenti del suo guardaroba.
"Non trovi, Henrietta, che la cara Georgette si abbigli un poco, come
dire..." - il signor Pibody era molto confuso e irrequieto, voleva
sapere tra le righe se stava diventando matto, oppure se anche la
signora Pibody - donna solida - aveva notato una qualche anomalia. "Ma
via, Reginald, se certi vestiti non se li mette a quell'età, dunque
quando?" e imbracciata la cesta del bucato si era diretta a stendere
in giardino, fischiettando.
Dunque era così. Era tutto nella sua mente obnubilata dal peccato! Era
un essere lubrico e perverso! Era un pilifero...podologo...il signor
Pibody non sapeva nemmeno come si faceva lo spelling di quella parola
lì, ma lo era!
Quella notte fece una strage di Sherbet Lemon, senza trovar pace.
Il signor Pibody, rasserenato dal sonno ristoratore, si sentiva pronto
per un nuovo giorno. Non pareva essere cominciato male. Cioè, se non
si considerava il placcaggio mentre usciva dal bagno, effettuato da
una Georgette coperta da un asciugamano che al signor Pibody parve
delle dimensioni di un grosso tovagliolo. Neppure tanto grosso, a
pensarci bene.
Le cose però iniziarono a precipitare quando la signora Pibody
comunicò di non poter accompagnare Georgette a Covent Garden, come le
aveva promesso. "Un vero peccato, cara, lo so, è un mercatino
delizioso", si era scusata di fronte al musetto imbronciato della
piccola. Rimase imbronciata per poco però, perché giusto un secondo
dopo trillò piena di esuberanza "Potrebbe accompagnarmi oncle
Rescinàl, peut-être?". Il signor Pibody spalancò gli occhi per quanto
gli fosse concesso dall'anatomia umana, giusto un tanto così
dall'assomigliare all'alieno di Roswell, per intenderci. Era ancora in
quella posa disdicevole quando sentì la signora Pibody pronunciare la
sentenza della sua condanna a morte: "Ah sì, questa è una bella idea,
non è vero caro?".
Si ritrovò dunque a Covent Garden con Georgette, ma già sul metrò
aveva cominciato a sentirsi a disagio. Gli pareva che tutti lo
guardassero, e con biasimo. Una volta al mercatino tuttavia, desiderò
ardentemente che una crepa si aprisse nel terreno per inghiottirlo una
volta per sempre. Ora non gli pareva più che tutti lo guardassero, ora
era certo che tutti lo guardassero: Georgette lo teneva per mano, lo
pizzicottava, e il signor Pibody passava dall'amaranto al prugna
intenso, camminando rigido come un golem artritico con evidenti
problemi di sudorazione. La fanciulla, al contrario, scodinzolava
entusiasta tutta la grazia che il buon Dio gli aveva donato.
Non aveva sollievo neppure nel costatare che non doveva essere poi
tanto matto a farsi venire certe idee: la fauna maschile nel raggio di
un miglio aveva la salivazione azzerata, e gli lanciava sguardi
d'invidia cinabrese. Quanto durò quello strazio, il signor Pibody non
avrebbe saputo dirlo con precisione, ma era comunque già troppo.
"Georgette, cara, direi si sia fatto tardi, è meglio rientrare" - "Oh,
oncle Rescinàl, prima un scelato, oui? S'il vous plait! S'il vous
plait!" e cominciò a tirarlo per un braccio puntando i piedi. Il
signor Pibody non stava dubitando tanto sul fatto di comprarle un
gelato o no, quanto su come avrebbe potuto arginare l'entusiasmo della
bimba, se gli avesse detto sì. Del resto nulla sarebbe stato peggio di
avercela attaccata al braccio col micro gonnellino che le sventolava
da tutte le parti. In questo si sbagliava.
In seguito al suo assenso Georgette gli era saltata addosso baciandolo
appassionatamente. Il micro gonnellino garrente più che mai. Il signor
Pibody provò l'inconsueta esperienza fisica di passare da zero a cento
gradi Celsius, e questa cosa si ripeté più e più volte nell'arco dei
seguenti cinque secondi. "Andiamo..." esalò, soltanto che per via del
tramestio emotivo che stava subendo, la prima sillaba fu
ultrasonicamente udita soltanto dai cani del circondario, la seconda
sprofondò negli abissi della sua gola, e la terza non fu più di un
colpo di tosse. Si sedettero nei tavolinetti di un caffè all'aperto
sulla piazza, o meglio Georgette si sedette, ma il signor Pibody
s'accasciò. Era lì che ci dava dentro sul suo cono gelato, pensando
che ben presto tutto sarebbe finito, quando avvertì qualcosa di
inusuale sul suo polpaccio. Il signor Pibody rimase interdetto, sul
momento. "La circolazione?" - si chiese tra sé - "Ecco lo sapevo, sta
per venirmi un colpo apoplettico" pensando miseramente che se lo
sarebbe meritato. Poi però rifletté che non si era mai sentito di un
colpo apoplettico che parte da un polpaccio, e si rasserenò. Tuttavia,
la cosa inusuale non accennava a diminuire, anzi, gli pareva che ora
si fosse spinta un po' più su, lambendogli voluttuosamente il
ginocchio. Non ebbe più dubbi di che cosa si trattasse nel momento
stesso che intercettò lo sguardo cupido di Georgette. "Squerk!" guaì
il signor Pibody, ignorando il significato di quel verso, ma
trovandolo appropriato. Georgette fece una risatina civettuola, e
proseguì l'ascesa della gamba del signor Pibody col suo piedino
sinuoso. Nel contempo, lappava con estrema lentezza il suo gelato,
mostrando con più generosità di quel che le fosse dovuto, la linguetta
rosea e conturbante. Il signor Pibody ormai aveva la postura di Ian
Solo intrappolato nella grafite. Avrebbe tirato delle craniate sul
tavolino di legno, se fosse stato capace di stornare lo sguardo da
quel lavoro di bocca, ma proprio non gli riusciva. E non accennava a
fermarsi, anzi, aveva cominciato a modulare con perizia colpetti
veloci a leccate estenuanti per quello che sembrava un tempo
incalcolabile. Infine, del tutto a tradimento, sembrò volerlo ingoiare
interamente in un sol colpo, ritraendosi solo all'ultimo momento e
riaccostando le labbra a cuore con un piccolo risucchietto: sliph!
Al signor Pibody gli diventò di marmo.
Annaspando nel panico più totale, col cervello che gli barbugliava e
il pisello torreggiante, il signor Pibody elaborò soltanto che se non
si toglieva di lì immediatamente, tempo un secondo e gli sarebbe
venuta un'ischemia sulla piazza di Covent Garden. Sarebbe finito
dritto all'inferno senza passare dal Via, dove demoni con sembianze da
ninfette francesi lo avrebbero torturato leccando gelati a quel modo,
per l'eternità. Ma peggio di questo, fu il pensiero della signora
Pibody - monolitica all'obitorio - che sarebbe stata costretta a
riconoscere la salma di suo marito, freddo, livido, e a ***** ritto.
Fu troppo. Il signor Pibody s'alzò di scatto dal tavolino, e balzò via
alla cieca.
"Non ho ancora capito come diavolo hai fatto". Il signor Pibody era in
ospedale, con la testa fasciata.
La signora Pibody lo fissava piuttosto incuriosita. Steso su
abbondanti cuscini il signor Pibody rispose sconsolato "Ti ho detto,
Henrietta, è stato una specie di capogiro" - "D'accordo Reginald, ma
ti hanno ripescato su una fioriera". Il signor Pibody sospirò
derelitto. "La povera Georgette è così dispiaciuta, sapessi. Vorrebbe
venirti a trovare". "Ringraziala da parte mia, cara, ma preferirei
non mi vedesse in queste condizioni" disse volgendo gli occhi al
cielo, simulando infinita tristezza. La signora Pibody annuì,
comprensiva "Te la saluterò, parte dopodomani". "Via, io devo andare
caro, lo sai che il giovedì ho la Canasta. Ci vediamo domani mattina".
Il signor Pibody rimase solo nella stanza mentre fuori il crepuscolo
diventava notte. Poco dopo scese dal letto e al distributore nel
corridoio prese una confezione di Sherbet Lemon. Se li gustò
immensamente ad uno ad uno, immaginando di essere una mummia
onnipotente che consumava il suo pasto all'interno della sua
gigantesca piramide.
Il signor Pibody aveva sovente pensieri simili.